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28/04/2017

 

Cairo, dalla conferenza di al-Azhar il tentativo di uscire dal binomio islam e violenza

di Fady Noun 

L'incontro voluto con forza dal presidente egiziano al-Sisi per combattere l’ideologia dello Stato islamico. Vescovo copto-ortodosso di Tanta: Al terrorismo rispondiamo con la pace. Dietro le violenze il binomio fondamentalismo/relativismo. L’annoso problema della esegesi del Corano.

 

“Fare la pace è un compito sacro, perché Gesù stesso afferma: Beati i costruttori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio”. È il reverendo Jim Winkler, segretario generale del Consiglio nazionale delle Chiese di Cristo, negli Stati Uniti, il primo a prendere la parola e a inaugurare il congresso internazionale di al-Azhar dedicato alla pace. All’improvviso, questo aspetto assume una dimensione metafisica. Il pastore americano viene presto seguito, nel medesimo spirito, dal reverendo Olav Fyske, segretario generale del Consiglio mondiale delle Chiese, che esprime gli stessi concetti.

Riuniti nella grande sala polivalente dell’hotel Fairmont, la folla dei congressisti venuti dai quattro angoli del mondo musulmano, fino all’estrema Cina, sembra un “pastore senza gregge” al quale Gesù ha equiparato la folla che lo seguiva. Essa rappresenta un mondo vulnerabile contraddistinto dalla violenza, privato dell’abbondanza, spogliato dei suoi diritti, afflitto dalla povertà, dominato, sfruttato, emarginato. Questa sala è oggi la montagna in cui Gesù pronuncia le sue Beatitudini: dottori della legge o persone semplici, stanziali o migranti, poveri o sovralimentati del pianeta, padri e madri in lacrime, sono tutti orfani della pace e sono tutti là per cercare una via di uscita dall’inferno dell’odio e della violenza in cui il mondo è precipitato senza sapere come uscirne. I partecipanti rappresentano circa 560 milioni di musulmani nel mondo.

“La speranza, solo il nostro vivere comune la può infondere”. È il vescovo copto-ortodosso Bola che parla, a nome di Tawadros II, capo spirituale di nove milioni di copti ortodossi, fino a ieri in Kuwait, ma che sarà di ritorno entro oggi per incontrare il papa. “Non siamo noi a vivere in Egitto - ha detto il patriarca - ma è l’Egitto a vivere in noi. A cosa serve pregare in chiese senza patria? Sarebbe meglio pregare in una nazione senza chiese”. Le parole di Tawadros sono cariche di patriottismo, al contrario della mentalità dimessa che alberga in noi. La Chiesa dei copti ortodossi sta promuovendo con audacia e abnegazione una cultura dell’incontro e della resistenza. La persecuzione è stata a lungo il suo pane quotidiano, anche se oggi le cose stanno per cambiare.

“Vengo da Tanta, città teatro dell’attentato la domenica delle Palme in cui sono morte 28 persone e altre 95 sono state ferite” ricorda il vescovo Bola. “Abbiamo risposto alla violenza con palme e ramoscelli di ulivo. La palma - aggiunge - è il simbolo dell’elevazione e della conquista della gloria. Al terrorismo e alla violenza, noi rispondiamo con la pace”. Egli invita anche gli Stati che finanziano la guerra e i mercanti di armi a rinunciare alla loro ipocrisia. Il vescovo prega anche perché “siano prosciugate le fonti del pensiero takfirista, così come le fonti di finanziamento del terrorismo”.

La povertà, l’ignoranza, l’estrema ingiustizia che sono inflitte alla Palestina, il doppio gioco dell’amministrazione americana sono anch’essi invocati come elemento di frustrazione e di violenza. “Lo sviluppo è il nuovo nome della pace, come diceva papa Paolo VI negli anni ’70 del secolo scorso. Cinquant’anni più tardi, queste parole non hanno perso niente della loro attualità”.

Questi temi torneranno come elementi ricorrenti per tutta la mattinata di oggi, durante la quale sono previsti gli interventi dell’imam di al-Azhar Ahmad el-Tayyeb e del patriarca di Costantinopoli Bartolomeo, venuto anche per ritrovare “suo fratello” Francesco, atteso per il pomeriggio. Lo stesso Bartolomeo si è fatto portavoce di una “pace globale” e loda “il coraggio e la visione di questa iniziativa globale” che ha portato l’imam di al-Azhar a convocare il congresso. E nota con giustezza che in luogo della post-modernità tanto decantata da alcuni araldi del mondo industriale, questo è il tempo della post-laicità, con “l’esplosione della appartenenza religiosa” anziché la sua scomparsa. L’opposizione irriducibile il patriarca di Costantinopoli la individua nel binomio fondamentalismo/relativismo. Egli ne ha ben donde quando afferma che i termini di questa antinomia sono la violenza, anche se una è attiva, mentre la seconda è “fredda”. Per giungere all’affermazione secondo cui “il fondamentalismo è uno zelo che non si basa sulla verità, una falsa religiosità” e assicura, fra gli applausi, che “l’islam non è sinonimo di violenza” e che “la pace può essere raggiunta solo attraverso voci di pace”. Radicale. Per rispondere alle aspettative ardenti dei popoli, la religione deve basarsi sui quattro pilastri di libertà, giustizia e della solidarietà. E della compassione, conclude, precisando che questo sforzo dovrà essere su scala mondiale per avere successo.

Anche l’imam Ahmad el-Tayyeb, dal suo pulpito, prenderà la parola per parlare di un problema che assilla la mente del presidente Abdel Fattah al-Sisi, il quale lo sprona tutti i giorni a combattere con maggiore vigore l’ideologia dello Stato islamico. Pessimista, l’imam dal volto scuro sostiene che “la storia è un succedersi di guerre intervallate da brevi schiarite di pace, e non il contrario”.

La condizione di guerra e di violenza è dunque il destino dell’umanità? “Se il Dio dei cristiani - sostiene l’imam, in un ragionamento opposto - e quello dei musulmani è lo stesso, non può contraddirsi nella sua essenza, la sua misericordia e la pace”. Egli conclude con una difesa dei passi del Corano in cui si parla di violenza affermando che, nell’islam, “l’uso della violenza è codificato” e che “la guerra è strettamente difensiva, mai offensiva”. Parole che lasciano insoddisfatti gli esegeti cristiani.

È dunque con circospezione che viene affrontato il tema dell’esegesi. Sappiamo quanto i musulmani siano reticenti a sottoporre il Corano a una analisi storica e critica. Si dirà, ed è un bene, che “una cattiva interpretazione conduce a una cattiva interpretazione dell’altro” e, in alcuni casi, alla violenza, nella misure in cui l’altro diventa “il nemico ontologico”. Di valore diverso, nessuno degli interventi di ieri ha approcciato il tema da una prospettiva diversa. Erano tutte finalizzate a penetrare il vortice ideologico, politico e religioso che agita il mondo nel suo attuale turbinio.

 

 

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