http://www.affarinternazionali.it/

22 Set 2017

 

La scissione curda in una prospettiva storica

di Lorenzo Kamel

 

Con la possibile eccezione del poeta Ahmad-i Khani (1650-1707), non esiste alcuna fonte anteriore alla fine dell’Ottocento in cui una persona di etnia curda abbia espresso la consapevolezza di far parte di un popolo curdo. V’è un consenso quasi unanime fra gli storici sul fatto che i curdi – indicati in diversi documenti inglesi prodotti nella prima metà del Novecento come individui guidati da “tribesman”, [1]  oppure come “a tribe who keep very much to themselves” [2] – rappresentino un’entità a se stante (ovvero un popolo) da quasi due millenni. È altrettanto chiaro, tuttavia, che fu solo poco più di un secolo fa che essi, come gli arabi e i turchi, abbiano acquisito un senso etnico di identità. Ciò avvenne a scapito di un sentimento di appartenenza a una cittadinanza ottomana e a una data comunità religiosa, pur non risultando in alcuna evidente espressione di “lealismo politico”.

Identità transnazionali
Perché, dunque, i curdi, come molti altri gruppi etnici presenti nella regione, non si sono identificati come “popolo” fino a un passato relativamente recente? Anthony Smith fornì una risposta indiretta, concentrandosi “sui rudimenti di una nazione”, ovvero su una serie di aspetti identificativi così basilari, radicati e dati per acquisiti da non stimolare domande o curiosità da parte degli abitanti locali. Meron Benvenisti andò oltre e osservò che “the whole game of identity definition reflects the immigrant’s lack of connection. Natives don’t question their identity”.

Tra coloro che vivevano nella regione coesistevano diversi sensi di identità (connessi ad aspetti religiosi, territoriali, familiari, locali e transnazionali), senza alcuna contraddizione tra essi. Erano identità tanto distinguibili quanto sovrapponibili. Come notato da Barnett e Telhami, uno degli aspetti che differenzia il contesto mediorientale da altri “è che l’identità nazionale ha avuto un carattere transnazionale”.

È possibile notare – ed è corretto farlo – che i maggiori elementi di comunanza tra i curdi ruotino attorno a un polo etnico piuttosto che confessionale. Si tratta tuttavia di una constatazione meno rivelatoria di quanto possa apparire. Non è ad esempio in grado di far luce su gran parte del fluido vissuto storico della regione, oltre a non chiarire il motivo per il quale quando diversi imperialisti europei tentarono di creare uno stato curdo a Sèvres nel 1920, molti curdi combatterono al fianco di Atatürk per sovvertire l’accordo. Ciò ci ricorda che, nelle parole Nicholas Danforth, “le lealtà politiche possono trascendere e, di fatto, trascendono le identità nazionali in modi che oggi faremmo bene a considerare”.

Oltre la retorica dell’autodeterminazione
Scarso eco di queste considerazione è presente nei dibattiti riguardanti il referendum unilaterale previsto per il 25 settembre nella regione semi-autonoma curda del nord dell’Iraq. Ancora una volta, infatti, il referendum ha poco a che fare con le (sovente legittime) rimostranze curde e molto in comune con conflittuali agende geopolitiche.

I promotori del referendum si pongono come obiettivo quello di mettere in discussione l’equilibrio di poteri fra il governo centrale di Baghdad e la frammentata – oltre che marginalizzata e talvolta oppressa – comunità curda del nord dell’Iraq. C’è, tuttavia, dell’altro. La maggior parte dei sostenitori del referendum ambisce a prendere possesso di alcune aree che non sono parte integrante, o lo sono solo parzialmente, della regione curda.

Ciò include la provincia di Kirkuk – un’area etnicamente mista dove è situato circa il 40% delle riserve petrolifere dell’Iraq – così come la Piana di Ninive, abitata anche da molti cristiani. Questi ultimi, così come altre minoranze nel nord dell’Iraq, sono ancora soggette a varie forme di violenza e soprusi da parte delle forze di sicurezza curde, con modalità che “ricordano le misure oppressive adottate in precedenza contro i curdi stessi”.

L’eccezione israeliana
Questi e altri aspetti hanno contribuito a rafforzare la diffusa opposizione al referendum espressa dalla maggior parte degli attori attivi all’interno e all’esterno della regione. Ciò include gli Stati Uniti, la Russia e l’Unione europea, ma anche la Turchia e l’Iran, le due potenze non-arabe della regione che, sulla scia della comune opposizione al referendum, hanno avviato negli ultimi mesi una collaborazione sempre più efficace.

Israele, la terza potenza non-araba, costituisce la maggiore eccezione a questa generale tendenza. Come ha osservato il primo ministro Benjamin Netanyahu, il suo Paese “sostiene i legittimi sforzi del popolo curdo di poter realizzare il proprio stato”.

Si tratta, a dispetto delle apparenze, di un’affermazione priva di propositi idealistici. Se così fosse, le ambizioni dei palestinesi riceverebbero un trattamento simile: al contrario dei curdi iracheni, una larga percentuale di palestinesi vive da 50 anni sotto il controllo di un esercito straniero.

Più di un terzo dell’export proveniente dal nord dell’Iraq e spedito dal porto turco di Cyhan, ha Israele come destinazione finale. Uno studio pubblicato dal Financial Times, sul periodo fra maggio e agosto del 2015, ha notato che circa il 77% della richiesta media di carburante da parte di Israele proviene dal Kurdistan iracheno.

A ciò si aggiungano ingenti progetti – militari, energetici e legati alle comunicazioni – che sono stati finanziati da Israele nella regione soggetta al referendum. Infine, Israele (come anche l’Arabia Saudita) percepisce il referendum come un modo per mitigare le esistenti e potenziali ambizioni strategiche ed economiche dell’Iraq.

Ognuna di queste considerazioni fa luce sui motivi per i quali i curdi – con cui Israele ha manutenuto varie forme di collaborazione militare, di intelligence e di commercio dagli Anni Sessanta – sono percepiti da molti come un un asset strategico regionale, nonché come un baluardo contro le ambizioni di attori percepiti come antagonisti.

L’interesse iracheno
Il genocidio di Anfal del 1988, quando – nel contesto della guerra fra Iran e Iraq – circa 70-80.000 uomini, donne e bambini vennero massacrati in modo sistematico, è tuttora una cicatrice visibile nel Kurdistan iracheno e altrove. Tali atrocità di massa sono da ricondurre alle politiche criminali portate avanti da Saddam Hussein, così come al contesto storico del tempo (incluso, ad esempio, il ruolo attivo esercitato dai curdi durante l’attacco iraniano a Haj Omran, la città irachena conquistata dalle forze di Tehran il 23 luglio 1983).

È tuttavia importante sottolineare che questo tragico passato non fornisce una accurata lettura della ben più complessa e “fluida” storia dell’Iraq e dei suoi abitanti. È sufficiente menzionare che il sostegno di Haider al-Abadi – attuale primo ministro e sciita –  è oggi più alto fra la popolazione sunnita e che, più in generale, fra i 23 primi ministri che hanno ricoperto l’incarico nel Paese dal 1921 al 1958, 12 erano arabi sunniti, quattro arabi sciiti, quattro curdi sunniti, due cristiani e uno turcomanno.

È inoltre importante notare che Baghdad ospita ancora quasi un milione di curdi che non hanno mai sofferto violenze etniche o confessionali. Una percentuale significativa della popolazione di Basra è sunnita. Samarra, città a maggioranza sunnita, ospita due delle più importanti rovine sciite.

Le province di Salah ad-Din e Diyala, che i promotori del referendum ambiscono ad includere nel nuovo stato curdo, hanno per secoli rappresentato l’immagine di un Iraq multi-identitario, in cui la separazione di una o più delle sue componenti non può che generare ulteriori violenze e pulizie etniche.

Ciò a maggior ragione in considerazione del fatto che i curdi, come molte altre popolazioni presenti nella regione, vantano affiliazioni religiose – incluse ramificazioni che attingono, contemporaneamente, al’’interno delle confessioni sunnite e sciite – che esistono parallelamente a identità etniche o confessionali.

Tutto ciò non intende suggerire che il passato e il presente della regione debbano essere percepiti dalla prospettiva di nazionalismi privi di connotazioni confessionali o etniche, ma piuttosto che le specificità temporali e spaziali dovrebbero essere riportate all’interno delle loro originali dimensioni inclusive e che uno scenario à la Iugoslavia (1999) – dove l’uso improprio del principio di auto-determinazione, previa imposizione di omogeneità etno-religiose, sfociò in un genocidio – non è irrealistico.

L’imminente referendum, lontano dal promuovere “un polo di stabilità” nella regione, si oppone a qualsiasi dimensione inclusiva ed è basato su una obsoleta teoria secessionista, che propone come soluzione legittima una rigida omogeneità linguistica, etnica o religiosa.

Se approvato e implementato, esso coinciderà con una nuova catastrofe per il popolo iracheno, oltre che con un ritorno allo spirito del trattato greco-turco stipulato a Losanna nel 1922-3, quando la “razzializzazione” delle identità – e la confessionalizzazione etnica delle identità comuni – acquisirono, per la prima volta nella storia della regione, una validità legale.

Ciò conferma che ogni cittadino iracheno è tenuto, oggi forse più che mai, ad impegnarsi in sforzi finalizzati alla ricostruzione del Paese e a individuare il proprio peculiare modo per tornare nella storia, riscoprendo le permeabilità e le specificità che hanno scandito per millenni il vissuto locale di iklim-i Irak, l’antica e prospera “regione dell’Iraq”.

 

Note

[1] TNA FO 624/28/152. R.W. Bullard, British Legation, Tehran, 28 ottobre, 1942.

[2] TNA FO 624/28/240. Lettera dal Nawab di Bahawalpur al viceré e governatore generale dell’India, Lord Linlithgow, 15 dicembre, 1941.

 

top