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14 giugno 2017 

 

Il dramma del Vicino e Medio Oriente

di Giovanni Lippa

 

L'asse Qatar-Turchia è lo stesso che scricchiola rumorosamente in Libia, dove il presumibile ritorno sulla scena di Saif al Islam Gheddafi potrebbe chiudere il cerchio di una restaurazione, di governo e di popolo, che stabilizzi definitivamente l'area.

 

La complessità di un mosaico difficilmente si apprezza appieno se ci si concentra troppo sul dettaglio. Ciò vale sicuramente per il Vicino e Medio Oriente: dal Qatar alla Libia, passando per l’Iran e la Turchia, si gioca in queste ore una partita fondamentale per gli equilibri geo-politici dell’intera regione. Il grande Impero a stelle e strisce, da cui volenti o nolenti bisogna partire per non rischiare l’astrazione teorica, ha iniziato ad invertire la rotta. Sembra infattiabbandonata la svolta millennial di Obama e il suo goffo tentativo di uniformare il mondo arabo alla sensibilità (sic!) politica delle democrazie liberali: del discorso impegnato all’Università Al-Ahzar e delle primavere arabe non rimangono che macerie, di cui l’umanità sofferente purtroppo pagherà il prezzo per molti anni a venire. La Presidenza Trump ha riannodato le fila della politica estera americana, tornando all’alleato di sempre, l’Arabia Saudita; a cui – non a caso – la avvicinò uno dei più grandi doppiogiochisti della storia recente, Harry Saint John Bridger Philby, alias Sheikh Abdullah, che tanto bene figurerebbe nel panorama attuale. Un panorama fatto di zone di influenza che cambiano continuamente colore, di investimenti che sostituiscono le armi come strumento di conquista, di armi che devono comunque trovare nuovi mercati e di una impressionante opera di disinformazione.

 

Diciamolo chiaramente: nessuno, oggi, sarebbe innocente di fronte al proprio Dio, qualunque esso sia. Non lo sarebbe, in primis, per quella sporca guerra su commissione che è la guerra siriana, ignobile e inaccettabile quanto fu quella balcanica. Ai molti che si chiedono, pertanto, del legame tra Stati Uniti e Arabia Saudita, denunciandolo a gran voce come un insopportabile matrimonio di convenienza, bisognerebbe presentare il triste menù del mondo, più ricco di Prìncipi (e dei loro denari) che di princìpi. La guerra tra sciiti e sunniti ha assunto infatti una dimensione globale, che va ben oltre i conflitti nella regione, spaziando dall’Europa all’America Latina, fino all’Algeria, che, nel silenzio dei più, rischia di finire nel vortice della destabilizzazione. È un mondo, quello in cui viviamo, in cui scorre una forza sotterranea e impetuosa, che rivendica un suo spazio, nonostante i profeti del Nuovo Mondo vorrebbero annientarla: l’identità di popolo, e la sua sorella germana, la nazione. E si sprigiona ovunque, spazzando via tutto quello che trova sulla sua strada. È difficile per la filosofia mondialista comprendere appieno il ruolo della Russia, dell’Iran e della Cina senza assaporare le basi millenarie del pensiero e delle tradizioni di questi grandi popoli della storia umana, che faticano a rientrare nello stereotipo della democrazia occidentale. Non sorprende dunque che a pagarne le spese sia stato il Qatar, inafferabile ibrido di modernità e tradizione, tanto da non essere né l’uno né l’altro: e che ora rischia di affondare, insieme ad una “Terza Via” fatta di affari, Islam e modernità. Tutto ciò, neppure un anno dopo il fallito golpe in Turchia, talmente goffo da rappresentare benissimo l’inattuabilità (e il doppiogiochismo) delle politiche estere di Obama. L’asse Qatar-Turchia è lo stesso che scricchiola rumorosamente in Libia, dove il presumibile ritorno sulla scena di Saif al Islam Gheddafi potrebbe chiudere il cerchio di una restaurazione, di governo e di popolo, che stabilizzi definitivamente l’area.

 

 

Come un virus che infetta un organismo privo di anticorpi, il mondialismo senza patria ha finito perpolverizzare le fondamenta del vivere sociale, producendo morte e distruzione, esportandole poi per terra e per mare. Se avremo il coraggio di concentrarci su un oltre-uomo, qualunque credo egli abbracci, qualunque bandiera egli decida di sventolare, potremo edificare un’umanità che sappia superare le miserie di una vita asservita al capitale e al profitto. Rifiutando le logiche opportunistiche di quelli che Nietzsche chiamava “i legionari del momento” e che tanto abbondano nelle stanze di comando. E ripartendo invece dalla dignità del dissenso, rispetto a questo indegno spettacolo che vorrebbero propinarci come “mondo globale”.

 

 

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