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23 Ago 2017

 

Migranti: parola d’ordine regionalizzare, ma la Ue non è concorde

di Elena Leoparco

 

Alla riunione informale dei ministri dell’Interno dell’Ue, tenutasi a Tallinn il 6 luglio, l’attenzione è stata tutta concentrata sull’Italia. Il motivo principale di tale interesse è chiaro alla comunità internazionale: l’Italia si trova a dovere gestire, con pochi alleati al proprio fianco e senza una vera strategia condivisa, l’intensa pressione dei migranti che dal Mediterraneo centrale spingono per varcare la frontiera europea.

 

La quiete apparente nel flusso proveniente dalle coste libiche e diretto verso la Penisola nei giorni precedenti la riunione è stata rapidamente controbilanciata dagli arrivi dei giorni seguenti: nel solo mese di luglio, 11.397 persone sono giunte in Italia seguendo le rotte di terra e di mare. Facendo un confronto con la Grecia, un altro dei principali punti di approdo dei migranti in Europa, si percepisce con maggiore chiarezza l’impatto degli arrivi in Italia. Nei porti dell’Egeo, infatti, nello stesso mese di luglio, gli arrivi sono stati complessivamente 2.200: meno della metà degli individui che hanno raggiunto l’Italia nella sola giornata del 14 luglio, picco massimo del mese con 5.115 arrivi.

 

Un’occasione per l’Italia di farsi ascoltare
Davanti a questi numeri, era inevitabile quindi che si cogliesse l’occasione della riunione di Tallinn per portare in cima all’agenda i temi dell’immigrazione. L’Italia, con il sostegno della Commissione europea e l’aiuto di Francia e Germania, è riuscita a esporre le proprie richieste relative alla gestione comune della pressione migratoria in atto, ottenendo anche l’approvazione di alcune delle proposte presentate al consesso.

 

Conseguito il via libera dalla Commissione a ricevere più fondi dai partner europei con l’obiettivo d’insediare in Libia un centro di coordinamento marittimo internazionale, un altro passo avanti è stato fatto verso l’adozione di un codice di comportamento per le Ong che operano salvataggi in mare; e ulteriore focus è stato dato al progetto d’implementazione del fondo di garanzia Ue-Africa. A ciò si aggiunge anche l’accoglimento della richiesta di creare un coordinamento per il rilascio dei visti per i Paesi che si impegnano a contrastare l’immigrazione clandestina e la sottoscrizione di accordi di riammissione con l’Unione. Infine, Roma è riuscita a portare a casa anche l’impegno degli altri Paesi ad ampliare le quote di ricollocamento dei richiedenti asilo sbarcati in Italia.

 

La doccia fredda su un nuovo approccio per Triton
La doccia fredda dall’Unione è arrivata invece per ciò che riguarda la possibilità di modificare quanto previsto nel modulo di impegno della missione navale europea Triton. La richiesta italiana era chiara: “regionalizzare” l’approdo dei migranti tratti in salvo nel Mediterraneo. Ma sulla proposta è piovuto il “no” secco di Francia, Spagna, Belgio, Olanda, Lussemburgo e Germania.

 

Il rifiuto all’apertura dei porti dichiarato dagli Stati a Tallinn ha quindi rappresentato il non facile punto di partenza di un altro meeting internazionale: quello dell’11 luglio a Varsavia. Nella sede di Frontex si è discusso delle modalità di cambiamento della missione Triton, che dal 2014 ha sostituito “Mare Nostrum” e si occupa del pattugliamento e del salvataggio dei migranti nel Mediterraneo.

 

La posizione di Frontex sulla missione è apparsa subito evidente: Triton è una missione italiana, guidata dalla Guardia Costiera italiana, con ufficiali italiani su tutta la flotta navale ed aerea, con organi di controllo italiani che regolano lo smistamento delle imbarcazioni. Ne consegue che il coinvolgimento degli altri Stati è teoricamente fattibile, ma praticamente difficile da realizzare.

Lo ha ribadito la portavoce dell’agenzia Frontex, Ewa Moncure, e anche il commissario per l’immigrazione, Dimitri Avramopoulos, che hanno poi corretto il tiro affermando la necessità per l’Europa di impegnarsi di più, dimostrando solidarietà all’Italia.

 

Il ruolo delle Ong e la loro regolamentazione
Il trattato di Triton, firmato tre anni fa, prevede l’obbligo per l’Italia di occuparsi dei migranti anche se giunti a bordo di navi straniere. Malta invece, porto più vicino alla Libia, ha solo l’obbligo di occuparsi dei migranti soccorsi o individuati nelle proprie acque. Per l’Italia, dunque, è fondamentale riuscire a regolamentare l’attività delle navi delle Ong, prima che il soccorso dei migranti in mare da parte loro si trasformi in una sorta di “corridoio umanitario” non autorizzato.

 

Da tali dinamiche, parte la stesura di un Codice di condotta per le Organizzazioni non governative che operano salvataggi in mare: tredici prescrizioni richieste dal Viminale, che le Ong devono impegnarsi a rispettare, pena l’interruzione delle attività. La mancata sottoscrizione del documento o l’inosservanza degli impegni previsti “può comportare”, si legge nel comunicato del Ministero dell’Interno italiano, “l’adozione di misure da parte delle autorità italiane nei confronti delle relative navi, nel rispetto della vigente legislazione internazionale e nazionale, nell’interesse pubblico di salvare vite umane, garantendo nel contempo un’accoglienza condivisa e sostenibile dei flussi migratori”.

 

Al momento, però, non tutte le organizzazioni che salvano vite in mare hanno firmato il Codice. Alcune Ong hanno giustificato l’astensione sostenendo che la priorità per un’organizzazione umanitaria è quella di salvare vite umane: la firma del Codice potrebbe quindi renderle meno indipendenti nell’azione. Resta poi il dubbio sui modi in cui il Codice verrà implementato a bordo di ciascuna nave, aspetto di non poca rilevanza sul quale non è ancora stata fatta sufficiente chiarezza.

 

La crisi del diritto d’asilo in Europa
Sullo sfondo degli ultimi avvenimenti, è facilmente rintracciabile una crisi del diritto d’asilo che l’Europa vive ormai da vent’anni, e che non sembra al momento trovare una via di soluzione condivisa. Ad una certa resistenza nel riconoscimento dello status di rifugiato, si aggiunge la difficoltà di distinguere tra richiedenti asilo e altri tipi di migranti, ai quali si associa la nascita di una nuova categoria: coloro che non sono espellibili, né regolarizzabili, con le conseguenti difficoltà di rimpatrio nel rispetto dei diritti dell’uomo.

 

Agli accordi di Dublino del 1990 va sicuramente attribuito il merito di aver cercato di condurre gli Stati europei a dare risposte solidali nell’ambito della protezione internazionale, ma appare evidente che l’obiettivo sia ancora lontano dall’essere raggiunto. A fronte dell’aumento del numero delle domande d’asilo presentate nel tempo, l’Europa ha risposto con misure rigorose che hanno reso sempre più difficile l’accesso ai confini dell’Unione. Barriere all’ingresso, restrizioni procedurali, politiche di dissuasione, politiche restrittive di ammissione allo status di rifugiato: sono davvero queste le soluzioni per regolare i flussi migratori? Probabilmente, la soluzione si trova altrove, in una maggiore apertura delle frontiere a categorie più ampie di migranti, allo scopo di permettere loro di gestire in sicurezza la mobilità nello spazio di andata e ritorno.

 

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