Traduzione di Mario B.

New Eastern Outlook 

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Gen 05, 2017

 

La guerra di Siria è stata sempre e solo l’inizio

di  Tony Cartalucci

 

Con la liberazione di Aleppo nella Siria settentrionale, sembra che il governo di Damasco sia sulla strada giusta per mettere fine al terribile conflitto che ha causato quasi sei anni di distruzione nel paese.

Ma pensare che il conflitto siriano sia sul punto di essere risolto, significa ritenere che sia stato combattuto in un vuoto geopolitico, disconnesso dai piani delle altre potenze regionali e mondiali.

In effetti, la guerra per delega che l’Occidente ha fomentato in Siria, durante gli anni di preparazione che l’hanno preceduta era stata considerata solo come un prerequisito per uno scontro con l’Iran e un più ampio conflitto globale, finalizzato ad impedire la rinascita della Russia e l’ascesa della Cina.

L’Egemonia Statunitense tenta di eliminare le Superpotenze Emergenti

 

Con la fine della Guerra Fredda, gli Stati Uniti hanno cercato di imporre e mantenere stabilmente il proprio ruolo di unica superpotenza mondiale.

Il Generale dello US Army Wesley Clark, in un talk show televisivo andato in onda nel 2007 su Flora TV, intitolato, “A Time to Lead,” [E’ il momento di condurre, in inglese] rivelò questo piano post Guerra Fredda facendo riferimento ad una conversazione che aveva avuto nel 1991 con l’allora Sottosegretario alla Difesa USA Paul Wolfowitz, affermando (grassetto aggiunto):

Dissi al Signor Segretario, deve essere abbastanza soddisfatto del comportamento dei soldati nell’operazione Desert Storm. E lui rispose, beh sì, ma non proprio, disse, perché la verità è che noi avremmo dovuto sbarazzarci di Saddam Hussein e non l’abbiamo fatto. Questo avvenne subito dopo la sollevazione sciita del marzo del ’91 che noi avevamo provocato e nella quale non impegnammo le nostre truppe e non intervenimmo. E lui disse, ma abbiamo imparato una cosa, disse, abbiamo imparato che possiamo utilizzare le nostre forze armate in Medio Oriente senza che i Sovietici ci fermino. Disse, e adesso abbiamo circa cinque o dieci anni per ripulire tutti quei regimi clienti dei Sovietici; Siria, Iran, Iraq, – prima che una prossima superpotenza possa essere in grado di sfidarci.

Quello che viene rivelato nella dichiarazione del generale Clark è un piano chiaro e specifico, iniziato dopo la Guerra Fredda e che si è realizzato con Desert Storm, il conflitto nei Balcani, l’invasione e l’occupazione da parte degli Stati Uniti dell’Afghanistan, l’invasione e l’occupazione, anche queste da parte degli USA, dell’Iraq, e per finire, l’aumento della capacità di proiezione della potenza militare statunitense come richiesto dalla “Guerra al Terrore” a seguito degli attacchi di New York e Washington DC dell’11 settembre 2001.

Dell’orgia di “regime change” di origine americana fanno parte non solo le guerre elencate qui sopra, ma anche le cosiddette “rivoluzioni colorate” che hanno avuto luogo nell’Europa dell’Est. Tra queste elenchiamo le attività di Otpor! tra il 1998 e il 2004 in Serbia, la “Rivoluzione delle Rose” del 2003 in Georgia, e la “Rivoluzione Arancione” del 2004-2005 in Ucraina.

Chi era coinvolto in queste operazioni di regime change di matrice statunitense, sia nel Dipartimento di Stato USA che nell’industria privata americana (le corporation mediatiche e i giganti dell’IT come Facebook e Google), così come gli “attivisti” provenienti dalle rispettive nazioni, nel 2008 iniziarono ad addestrare i leader delle opposizioni in tutto il mondo arabo in preparazione delle “Primavere Arabe” del 2011 progettate dagli USA.

Lo stesso Dipartimento di Stato USA, in un comunicato stampa del 2008 [in inglese] ammise di organizzare un “Summit dell’Alleanza dei Movimenti Giovanili”:

Quest’Alleanza di Movimenti Giovanili ha le sue radici organiche, nel senso che già i movimenti giovanili di tutto il mondo che fanno uso delle tecnologie digitali dei media online e della telefonia mobile interagivano per condividere le procedure più efficaci. Il Dipartimento di Stato ha agito da facilitatore, contribuendo alla formazione di una struttura di supporto a questa tendenza e istituendo delle collaborazioni con realtà quali Facebook, Howcast, Google, MTV, e la Columbia Law School.

L’argomento a cui ci si riferiva nella discussione rilasciata alla stampa erano le stesse tattiche utilizzate come copertura per operazioni di regime change inevitabilmente violente in Egitto, Libia, Siria e Yemen. Uno sguardo alla composizione del “Summit dell’Alleanza dei Movimenti Giovanili” del Dipartimento di Stato USA rivela molti dei gruppi che, al loro ritorno nei paesi d’origine in Medio Oriente, hanno capeggiato le proteste. Tra questi, il Movimento Giovanile del 6 Aprile in Egitto.

Alla fine, anche il New York Times, in un articolo intitolato “U.S. Groups Helped Nurture Arab Uprisings,” [Gli Stati Uniti hanno contribuito alla nascita delle rivoluzioni arabe, in inglese] ammise:

Secondo alcune interviste delle ultime settimane e comunicazioni diplomatiche rivelate da WikiLeaks, alcuni soggetti e certi gruppi direttamente coinvolti nelle rivolte e nelle riforme che hanno sconvolto la regione, tra cui il Movimento Giovanile del 6 Aprile in Egitto, Il Centro per i Diritti Umani in Bahrain, e attivisti di base come Entsar Qadhi, un giovane leader in Yemen, hanno ricevuto addestramento e finanziamenti da gruppi quali l’International Republican Institute, il National Democratic Institute e la Freedom House, una organizzazione no-profit per i diritti umani con sede a Washington .

L’obiettivo, sia degli interventi militari diretti che delle “rivoluzioni colorate” congegnate dagli USA, era precisamente quello di realizzare ciò che il Generale Clark aveva affermato che gli strateghi politici statunitensi avevano cercato di realizzare sin dal termine della Guerra Fredda – l’eliminazione di stati che operassero indipendentemente e che potessero divenire rivali dell’egemonia globale americana.

La Siria: solo un’altra fermata sul percorso

La distruzione dell’Iraq, la guerra del 2006 di Israele contro Hezbollah nel Libano meridionale, e gli incessanti sforzi per isolare e rovesciare il governo di Teheran, facevano tutti parte di questo singolo piano. Andando indietro di vari anni nella lettura dei documenti di strategia politica americana, è evidente l’ammissione che la chiave per il fine ultimo del rovesciamento dell’Iran fosse la distruzione di Hezbollah in Libano e l’eliminazione della Siria come suo alleato.

Nel 2007, il giornalista Seymour Hersh, vincitore del Premio Pulitzer, nel suo articolo “The Redirection: Is the Administration’s new policy benefitting our enemies in the war on terrorism?,”[Il Ri-orientamento: la nuova politica dell’Amministrazione sta forse favorendo in nostri nemici nella guerra al terrorismo? In Inglese] rivelò (grassetto aggiunto):

Per minare l’Iran, che è prevalentemente sciita, l’amministrazione Bush ha deciso in effetti di rivedere le proprie priorità in Medio Oriente. In Libano, il governo ha cooperato con il governo dell’Arabia Saudita, che è sunnita, in operazioni clandestine che hanno lo scopo di indebolire Hezbollah, l’organizzazione sciita sostenuta dall’Iran. Gli USA hanno anche preso parte ad operazioni clandestine contro l’Iran e la Siria suo alleato. Un sottoprodotto di queste attività è stato il rafforzamento di gruppi estremisti sunniti che sposano una visione militante dell’islam, sono ostili all’America, e favorevoli ad Al Qaeda.

Nel 2009 un think tank politico, sponsorizzato dalle corporation finanziare americane, la Brooking Institution, pubblicò un rapporto di 170 pagine, intitolato, “Which Path to Persia?: Options for a New American Strategy Toward Iran” (PDF) [Quale Via per la Persia? Opzioni per una nuova strategia Americana nei confronti dell’Iran. In inglese], nel quale propone svariate opzioni, tra cui quella di mandare Israele ad attaccare l’Iran per conto di Washington. Il report afferma (grassetto aggiunto):

…gli Israeliani potrebbero desiderare l’aiuto statunitense in vari ambiti. Israele potrebbe essere più propenso a sopportare i rischi di una ritorsione iraniana e la condanna internazionale di quanto non lo siano gli Stati Uniti, ma non è invulnerabile, e potrebbe richiedere un certo coinvolgimento da parte degli Stati Uniti prima che sia pronto a colpire. Per esempio, gli Israeliani potrebbero voler aspettare finché non abbiano in mano un accordo di pace con la Siria (sempre che Gerusalemme creda che ciò sia possibile), che li aiuterebbe ad assorbire il contraccolpo da parte di Hezbollah e potenzialmente di Hamas. Di conseguenza, potrebbero desiderare che Washington si impegni a fondo nella mediazione tra Gerusalemme e Damasco.

È chiaro che non sia stato raggiunto alcun “accordo di pace”, e che invece si sia orchestrata la totale distruzione della Siria. Molte delle proposte presentate nel rapporto della Brookings Institution riguardanti l’innesco di un conflitto e il regime change in Iran sono invece state utilizzate contro la Siria.

Con la distruzione a guida USA della Libia nel 2011 tramite l’utilizzo di militanti legati ad Al Qaeda, e la trasformazione della città di Bengasi nella Libia orientale in un trampolino di lancio logistico per il confine tra Turchia e Siria, l’invasione per delega della Siria ha avuto inizio nel momento in cui erano già in corso scontri nei centri urbani di questa nazione.

Nel 2012, i militanti hanno fatto irruzione attraverso il confine turco-siriano e hanno invaso la città di Aleppo. La guerra di distruzione che ne è seguita ha devastato la nazione, vi ha trascinato dentro gli alleati della Siria – Hezbollah e l’Iran, e anche la Russia, e avrebbe potuto indebolire a sufficienza la coalizione in preparazione dell’espansione del conflitto verso est in direzione dell’Iran e perfino della Russia meridionale.

Guarda chi c’è in carica, giusto in tempo per la guerra con l’Iran…

Il Presidente eletto Donald Trump si è circondato non solo di duri filo-israeliani come David Friedman, ma anche di una cerchia di persone che – per anni – hanno spinto per la guerra con l’Iran tra cui Stephen Bannon di Breitbart News e il generale dei Marines in pensione James Mattis.

Una cerchia di strateghi politici della stessa specie avrebbe senza dubbio attorniato la candidata alle presidenziali del 2016 ed ex Segretario di Stato Hillary Clinton, se avesse vinto le elezioni e fosse entrata in carica – il suo periodo come Segretario di Stato infatti è stato utilizzato per la distruzione della Libia e della Siria, prerequisiti proprio per questa guerra.

In sostanza, Washington si sta posizionando per un confronto più ad ampio spettro con l’Iran proprio nel momento in cui la sua guerra per delega con la Siria sembra aver completato il proprio corso – e si sarebbe posizionata in questo modo indipendentemente da chi avesse vinto le elezioni presidenziali.

Con tutta probabilità, gli strateghi politici USA avevano previsto che la Siria sarebbe caduta molto più velocemente e a un costo minore. Con la Russia che ha impiantato una significativa presenza militare nella nazione, con le forze armate siriane che hanno maturato un’esperienza molto efficace di combattimento, e con l’Iran e le formazioni di Hezbollah che hanno fatto anch’esse esperienza di combattimento in un conflitto regionale, muoversi per una guerra con l’Iran non sarà un compito facile.

Forse è stato per questo, che il presidente eletto Trump è stato presentato come un potenziale “alleato” della Russia, e le accuse di “hackeraggio” delle elezioni americane da parte della Russia sono state utilizzate per mettere a tacere i media alternativi con la scusa di combattere le “fake news” [notizie false]. Mettendo la museruola ai media alternativi, sarebbe così difficile per gli strateghi statunitensi creare nuovamente una grossa provocazione – come consigliato nel report “Which Path to Persia?” della Brookings – al fine di giustificare l’estensione del conflitto Siriano nel territorio dell’Iran e il coinvolgimento in esso dell’America?

Si dovrebbe inoltre notare che sistematicamente – durante tutto il corso del conflitto siriano – Israele ha attaccato le infrastrutture di Hezbollah in Libano e in Siria. I politici israeliani stanno probabilmente tentando di mantenere una zona cuscinetto tra loro stessi e chi potrebbe contrattaccare per ritorsione contro un’offensiva israeliana sostenuta dagli USA ai danni dell’Iran – proprio come la Brookings aveva proposto nel 2009.

Le elezioni non sconfiggeranno l’egemonia USA, ci sarà soltanto un equilibrio multipolare delle forze

Gli interessi particolari degli Stati Uniti, sin dalla fine della Guerra Fredda, si sono consumati nell’affrontare ed eliminare qualunque minaccia alla propria percezione di egemonia globale. Come il generale Wesley Clark aveva avvertito da anni, gli USA perseguono un unico piano sin dagli anni ‘90, indipendentemente da chi sieda alla Casa Bianca e da quale sia la retorica utilizzata per vendere le miriadi di guerre e “rivoluzioni colorate” necessarie per raggiungere e mantenere l’egemonia globale.

Nel momento in cui la Russia e la Cina reintroducono un bilanciamento globale delle forze, contrastando l’aggressività statunitense e facendo tornare indietro l’egemonia americana ad un ruolo più proporzionato e multipolare nel palcoscenico mondiale, gli USA reagiscono cercando sempre di più il confronto diretto con Mosca e Pechino, e una sempre più violenta campagna di guerre per delega e di operazioni di regime change nel mondo.

L’illusione che un’elezione presidenziale possa far deragliare questo preciso programma che è in atto da decenni è pericolosa. In realtà l’unico ostacolo tra gli interessi particolari degli USA e il raggiungimento dell’egemonia globale risiede in centri di potere concorrenti. Tra di essi ci sono stati-nazione come Russia e Cina, o movimenti nascenti come quello dei media alternativi, modelli economici alternativi e dirompenti, e movimenti politici costruiti sul potere e l’influenza che tali movimenti otterranno. Tali alternative possono minare la potenza e l’influenza incontrastata di cui attualmente godono gli Stati Uniti e i monopoli corporativo-finanziari che dominano il loro panorama politico.

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