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8 gennaio 2018

 

Il 1968 e la leggenda dell’occasione perduta

di Gianfranco de Turris

 

Facciamo un po’ di chiarezza su uno dei momenti più deleteri della nostra storia nazionale.

 

Nel 2018 cade un anniversario che sarà una ghiotta occasione editoriale: un profluvio di articoli, interviste, inchieste e libri farà l’apologia del Sessantotto, nonostante che nel corso dei decenni non siano state poche le opere e le testimonianze che lo abbiano smitizzato da cima a fondo, ma non le si vorranno ricordare. L’atmosfera odierna, grazie alla demagogia delpoliticamente corretto, è tale che, oltre alle ricostruzioni di comodo, solo i reduci avranno la parola per esaltare uno dei momenti più deleteri della nostra storia nazionale. Un parere, il mio, personale ma condiviso da altri e che si basa su fatti oggettivi. Chiaro che tutto quel che qui si dirà in negativo per parecchi sarà visto in positivo e quegli stessi fatti oggettivi interpretati al contrario, ma ciò non toglie che certe cose si debbano dire, magari anche non condivise da chi si definisce ancora oggi di destra. Ma tant’è, ce ne faremo una ragione.

 

Inizio con un ricordo personale. Poiché ricordo che il presidente del consiglio era Mariano Rumor, doveva essere la seconda metà del 1974: allora ero ancora praticante del Roma, il quotidiano di Napoli, lavoravo nella redazione di Piazza San Silvestro, e commentai alcune sue affermazioni sulla “contestazione”: senza che lo potessi immaginare mi venne messo da Piero Buscaroli, il direttore che mi aveva inopinatamente assunto, come editoriale, e non avevo ancora nemmeno fatto l’esame da giornalista! Sostenevo la tesi oggi ovvia, anche se non da tutti ammessa e accettata, che quanto in Italia stava avvenendo e che si stava trasformando in vera e propria lotta armata, era iniziato come rivolta generazionale, ma soprattutto ne deducevo che fosse la rivolta della generazione nata durante o subito dopo l’ultimo conflitto, allevata nei valori usciti vincitori dalla seconda guerra mondiale, quelli “democratici” su quelli “dittatoriali”, e ciò significava una loro chiara sconfitta: i giovani non credevano più nella società, che oggi definiremmo liberal-democratica e/o progressista, che si era imposta nel mondo occidentale dopo il 1945. E che, in Italia, i governi prima democristiani e poi di centrosinistra non erano riusciti a dar loro valori significativi cui credere e per cui combattere. Punto. Insomma, la disfatta di un certo tipo di democrazia occidentale in cui i “figli” si rivoltavano contro i valori dei “padri”, dando così ragione a chi in tali valori in fondo non vi aveva molto creduto come unica chance dell’Occidente.

Non ho cambiato idea da allora e penso che Julius Evola, morto proprio in quell’anno, avesse avuto veramente ragione sostenendo che la “contestazione” (la quale generò – non dimentichiamolo mai – la guerra civile strisciante degli “anni di piombo”) era nella sostanza una violenza bruta, senza scopo, senza una vera ratio, vespe che si agitavano confuse sbattendo contro le pareti di un barattolo di vetro; e che se idee aveva, queste idee nascevano esattamente dall’interno della società, del “sistema”, che avrebbero voluto abbattere, non era quindi una visione del mondo del tutto avversa ad essa, esterna ad essa, come avrebbe dovuto essere per risultare credibile ed efficace: e che infatti – si può aggiungere dopo mezzo secolo – non sono riuscite ad abbattere nonostante, in Italia, le centinaia di morti e le migliaia di feriti che il terrorismo, soprattutto di matrice comunista, causò. I risultati furono però altri…

 

Video: https://youtu.be/uUc8TNYfW2w

 

La vera “rivolta dei giovani contro i vecchi”, e il loro sistema di potere, di “casta” si direbbe oggi, universitario e politico durò appena sei mesi, dalla fine del 1967 al marzo 1968 – cioè il periodo iniziale di una “contestazione” che si protrasse in Italia, unica nazione europea, per dieci anni e più – prima della “saldatura” (o presunta tale) studenti-operai e della iniziale egemonizzazione da parte del PCI, prima che il tutto cadesse in mano alle frange del comunismo più estremo e radicale, ostile allo stesso partito di origine o riferimento. Era il partito armato. In quei sei mesi, in cui non vi furono in genere troppe discriminazioni politiche e giovani di destra occupavano le università accanto a giovani di sinistra, oppure si spartivano le facoltà da occupare, ed effettivamente Evola si leggeva accanto a Marcuse pubblicamente e senza ostracismi, si esaurì una illusione, quella appunto che si potessero unire le forze non centriste e non conformi per “contestare” da un lato il regime partitocratico e di centrosinistra imperante dal 1963 (non dimentichiamolo mai: L’Avanti! titolò “Da oggi tutti più liberi”…), dall’altro uno stile ed un modo di pensare “borghesi”. Poi vi fu la decisione ufficiale del MSI di opporsi alle occupazioni e poi vi fu a Roma la cosiddetta battaglia di Valle Giulia.

Devo dire che non mi sono mai esaltato per quell’evento che ancora infiamma i suoi reduci: non mi sono mai sentito dalla parte dei “contestatori” di destra o sinistra che fossero, ma da quella delle forze dell’ordine. Sarà una mia tara congenita quella di non essere un “rivoluzionario” ed un esagitato, ma guardando una nota fotografia – quella che ritrae il carabiniere visto di fronte che impugna la bandoliera per difendersi da alcuni giovani aggressori visti di spalle – beh, io stavo con quel carabiniere, anche se era un “servo dello Stato” e se rappresentava un Potere in cui in fondo non mi riconoscevo affatto…

 

L’illusione era quella che la Destra, sempre all’opposizione dal 1946, potesse avere un ruolo vero, concreto, fattivo, determinante e orientativo nella rivolta generazionale che stava nascendo e imponendosi nelle piazze e nelle scuole dove le formazioni giovanili del MSI erano sempre state forti. Impossibile. L’ho sempre detto e lo confermo dopo cinquant’anni: al livello ormai raggiunto la Destra non aveva le forze ed i numeriper imporsi, per fare con le sue idee e la sua organizzazione la – come ho scritto spesso – “mosca cocchiera” di quella complessissima situazione che si era messa in moto, e che oggi – in base al ricordo – si tende a semplificare. La Destra di allora (ma quale poi?) poteva anche avere le idee giuste (quali poi?), ma non avrebbe avuto la possibilità d’imporle né direttamente né indirettamente perché la Sinistra era più articolata, agguerrita, organizzata, numerosa e convincente, aveva troppi mezzi e finanziamenti, spalleggiatori e difensori fra politici, intellettuali, giornalisti, fra cultura e stampa. La Destra esattamente il contrario.

Il fatto è che quella illusione è diventata un mito, no, anzi, più esattamente una leggenda, la leggenda metropolitana dell’occasione perduta, della occasione mancata che è andata montando negli anni durante rievocazioni scritte e parlate sino a diventare quasi una certezza di cui rammaricarsi e addirittura fare pubblici (e un po’ ridicoli) mea culpa. L’occasione non ci fu se non – forse – durante quei sei mesi iniziali di confusione inaspettata per il Potere ed i mass media, frastornati dagli eventi, e quindi non si perse nulla, non si può recriminare su nulla perché la sua conclusione, la politicizzazione a sinistra ed oltre, erapraticamente inevitabile considerando la situazione sociologica e culturale della gioventù di allora ed il peso diversissimo dei partiti nell’Italia degli anni Sessanta e Settanta. Senza contare la pregiudiziale antifascista che s’impose in modo decisivo dopo Valle Giulia e che si tramutò rapidamente, complici i mass media, in odio forsennato, discriminazione, caccia all’uomo morale e fisica.

 

Inoltre, c’è un fatto concreto che evidenzia come le cose non potessero andare diversamente da come sono purtroppo andate. Basti far caso alla sorte ed alla involuzione di tutti coloro i quali, partiti da “destra” continuarono ad agitarsi perché pensavano di essere dei veri “rivoluzionari” e non dei “borghesi” come quelli del MSI, guardie bianche del Potere capitalista, democristiano e socialista, vale a dire i cino-fascisti, i nazi-maoisti (oggetto degli strali sarcastici e critici di Julius Evola) che provarono invano a condizionare i “compagni”. Che fine hanno fatto? Una pessima fine ideologica e fattuale. Ieri, ma ancora oggi i loro superstiti si considerano sempre rivoluzionari in servizio permanente effettivo anche se teorico. Per non parlare di quelli che sboccarono nel terrorismo, nella lotta armata, nelle rapine, negli omicidi, nei processi, nella galera e nella morte violenta. Per ottenere che cosa? per raggiungere quali scopi? Nemmeno quello di poter dire noi c’eravamo…

La “contestazione” in Occidente, nata negli USA e giunta in Europa, partiva dalla rivolta nei campusuniversitari contro la guerra in Vietnam, e si saldò con la “rivoluzione culturale” di Mao, avendo come referente ideologico soprattutto Marcuse, filosofo tedesco-americano sino ad allora ignoto. La deriva era quella: progressista, di sinistra, ultra-comunista, sotto sotto anarchica. Non si poteva minimamente pensare ad altri sbocchi: in nessuna nazione occidentale vi fu una “contestazione” che partì da destra o che proponesse valori di destra, men che meno tradizionali, che abbia avuto uno sbocco positivo. La deriva generale era quella.

 

Sicché, la “contestazione” italiana non ha quasi raggiunto scopi politici (il “sistema” ha traballato, ma poi è rimasto in piedi ed anzi si è rafforzato), ma di certo altri più diffusi e che potremmo definire metapolitici sì, scardinando molte altre cose: il costume, le abitudini, il modo di vivere, di essere e di pensare, la morale, la famiglia, i rapporti interpersonali, addirittura le buone maniere, per non parlare del concetto di autorità. Ha inciso soprattutto sulla scuola e l’università e sul modo di fare istruzione: e questo combinandosi con l’abbandono del concetto di autorità ha condotto all’abisso di incultura e di inciviltà che pone l’Italia negli ultimi gradini della classifica europea. Inoltre, questa mentalità mescolandosi inestricabilmente in tempi recenti con il “politicamente corretto” e relativa demagogia e lassismo, fa capire la ratio delle decisioni della ministra Fedeli del governo Gentiloni, rossa di capelli e di idee, con l’abolizione del voto in condotta e l’obbligo di promozione nelle scuole medie, e con la riduzione da cinque a quattro anni delle scuole superiori.

Ragazzi italiani sempre più ignoranti e manipolabili secondo quanto denunciava un’icona dei progressisti, quel Don Milani secondo cui l’incultura era un’arma nelle mani dei potenti. Su altri piani il Sessantotto ha alla lunga fallito: si veda lo slogan “vietato vietare” e la strombazzata “libertà sessuale” che, in una società dove il Potere regolamenta tutto nella vita dei cittadini ed è caduta in un grottesco neopuritanesimo, hanno segnato il passo, rivelandosi illusioni e tornando addirittura indietro.

 

A parte ciò, si può però dire che alla fine, di tutto questo caos, si sono avvantaggiati come sempre soltanto quei sessantottini che hanno sostituito la loro casta baronale a quella vecchia, scalzandola e insediandosi al suo posto facendo così il lavaggio del cervello ai giovani degli anni Ottanta e Novanta che poi sono diventati a loro volta insegnanti ma soprattutto padri e madri dei ragazzi di oggi e che ne difendono – leggere i giornali il caso del liceo romano “Virgilio” – tutte le castronerie che commettono a scuola. L’effetto negativo più evidente di quella troppo lunga stagione sta in quanto oggi noi tutti abbiamo sotto gli occhi, dopo cinquant’anni – giusto il tempo convenzionale di due o tre generazioni – nella famiglia, nella scuola e nel vivere quotidiano. Un disastro di educazione e di cultura. Un fallimento totale. E non c’è proprio necessità di portare prove specifiche, perché le conosciamo tutti benissimo.

Simili derive, bisogna pur ricordarlo agli immemori, erano state previste e denunciate dai giornalisti e dagli intellettuali che scrivevano sulle riviste di destra di allora: da Il Borghese di Mario Tedeschi a Lo Specchio di Giorgio Nelson Page, da Il Conciliatore di Piero Capello a L’Italiano di Pino Romualdi, da LaDestra di Claudio Quarantotto a Intervento di Fausto Gianfranceschi. Per non parlare di quotidiani oggi dimenticati come il Roma e La Notte, o ancora esistenti come Il Tempo e Il Giornale, La Nazione e Il Resto del Carlino. Ma fu tutto inutile. Però, se qualcuno volesse rinfrescarsi la memoria, vennero pubblicati alcuni libri che riunivano certi interventi dell’epoca, almeno a dire: anche se tutti ci cascarono, noi no… Una dozzina di anni dopo, agli inizi dei Novanta, giunse paradossalmente un terremoto promosso dalla magistratura: Tangentopoli, questa sì che scardinò il sistema italiano, comunque sempre a favore della Sinistra parlamentare che ne avrebbe approfittato a mani basse se non fosse spuntato all’improvviso il Cavalier Berlusconi a rompere le uova nel paniere. Ma questa è tutta un’altra storia.

 

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