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martedì 22 maggio 2018 

 

Maggio 1968, l'eco di una rivoluzione

di Roberto Righetto 

 

A cinquant’anni di distanza due saggi, uno di Morin e l’altro di Gobbi, fanno emergere le aspirazioni profonde che si rivelarono decisive per la «contestazione»

 

«La France s’ennuie»: è il titolo di un editoriale del quotidiano Le Monde del 15 marzo 1968. L’autore, il giornalista di politica interna Pierre Viansson-Ponté, descrive la vita pubblica francese caratterizzata sostanzialmente dall’ignavia. Mentre nelle altre nazioni europee, dalla Germania all’Italia alla Spagna, i cittadini scendono in piazza per manifestare le loro rivendicazioni, o per protestare per la guerra in Vietnam, quelli francesi sembrano immobili, come paralizzati. Annoiati. Il buon notista politico non può prevedere cosa accadrà soltanto una settimana dopo, all’università Paris-Nanterre. È qui che nasce il “movimento 22 marzo”, costituito da giovani che inizialmente scendono in piazza proprio per il Vietnam e poi, dopo gli arresti della polizia, occupano le sale dell’ateneo. Viene sottoscritto un manifesto «per combattere gli esami e i titoli che ricompensano coloro che accettano il sistema e per fondare un’università critica». Il sistema, appunto, è spiazzato. E non trova di meglio che chiudere l’università in attesa che gli animi si placano. Ma così non è: la miccia è accesa. È l’inizio del Sessantotto.

 

L’evento che fa diventare la contestazione una sorta di rivoluzione accade il 3 maggio alla Sorbona: 400 studenti occupano il cortile dell’università in segno di protesta per la chiusura di Nanterre. Di fronte alla reazione esagerata delle forze dell’ordine, la rivolta si allarga e coinvolge sempre più giovani. L’intero Quartiere Latino diventa teatro della lotta. Il tutto culmina, come rileva Edgar Morin, «in una prodigiosa comune studentesca». Giovane professore, il sociologo coglie immediatamente che non si tratta di un movimento che chiede di cambiare le forme d’insegnamento, ma la società intera. Lo scrive subito, già nel mese di maggio, sulle colonne di Le Monde, e coglie «il rifiuto della vita borghese, considerata come meschina e mediocre» e la «contestazione globale di una società adulterata». Ora quel testo di Morin, assieme ad altri suoi scritti, appare in italiano per i tipi di Raffaello Cortina editore (Maggio 68. La breccia, pagine 128, euro 11). Nella prefazione scritta oggi, egli aggiunge che «le aspirazioni profonde di quegli adolescenti rispetto a quel mondo di adulti erano: più autonomia, più libertà, più comunità». E rimarca giustamente l’aspetto di gioco e di serietà insieme del movimento: «La festa del Maggio era molto di più di un divertimento, era come la manifestazione di un bisogno di esistenza fino ad allora rimosso dentro o attraverso la società normale, la politica normale. Nello stesso tempo, però, il Maggio fu pienamente politico». Si aprì una “breccia” non più richiudibile, un momento di passaggio o, per dirla con Malraux, «una crisi di civiltà». 

 

C’è chi, cinquant’anni dopo, vede «nel Maggio ’68 più il trionfo della società dei consumi che la sua contestazione». L’analisi è di Régis Debray, e certamente contiene del vero.

L’aspetto libertario di rivoluzione dei costumi, con l’esplosione della cultura hippy e della sessualità non più repressa, è quello che probabilmente più ha trionfato della protesta giovanile. Che non ha avuto sbocchi politici, anche perché l’establishment della sinistra di allora l’ha ingabbiata facendo prevalere la versione marxista tradizionale rispetto al comunismo libertario che essa rivendicava. E solo in parte spirituali, nonostante l’interpretazione di figure come Olivier Clément e Maurice Clavel che nel movimento videro giustamente un anelito al fondo religioso, il desiderio di fraternità e di comunità. Alfine, come sottolinea un altro sociologo francese, Gilles Lipovetsky, il ’68 prefigura il fenomeno dell’individualismo contemporaneo. Da testimone d’eccezione e da analista disincantato contemporaneamente, Morin ripercorre le varie fasi di quel mese magico, prendendo atto che la componente maoista diventerà sempre più minoritaria e che partito e sin- dacato comunisti avranno la meglio, giungendo a un accordo col governo di Pompidou e sacrificando le richieste giovanili. Fortunatamente, in Francia non sgorgherà una deriva terroristica come in Italia e Germania: molti di questi giovani anzi prenderanno sempre più atto del fallimento del marxismo (anche dopo l’arrivo in Europa di Arcipelago Gulag) e, ispirati dal convertito Clavel, daranno vita ai “nouveaux philosophes”. 

 

Come si vede, molti e diversi sono stati gli effetti del ’68. Ma è interessante seguire passo passo, attraverso un altro volume appena uscito del giornalista Roberto Gobbi, Maggio ’68. Cronaca di una rivolta immaginaria( Neri Pozza, pagine 174, euro 12,50), gli eventi salienti di quel mese. Gli scontri, i protagonisti, le varie fasi della protesta sono ricostruiti metodicamente, con un fil rouge che attraversa i singoli episodi, quello dell’immaginazione.  Per dirla con il teologo Michel de Certeau, è stato il momento della «presa della parola» da parte di una generazione che non sopportava più gli schemi dominanti. Lo si vede dagli slogan che Gobbi riporta, dal più emblematico «L’immaginazione al potere» a «Siate realisti: prendete per realtà i vostri desideri», «Corri compagno, il vecchio mondo è dietro di te», «Io decreto lo stato di felicità permanente ». La parola “felicità” appunto è la più declamata: le assemblee diventano una sorta di enorme seduta di psicoanalisi in cui i giovani si mettono a nudo e parlano di tutto. 

 

Non solo di politica, ma delle loro emozioni, delle loro aspirazioni, del mondo nuovo che vorrebbero costruire. Il cortile della Sorbona diventa il regno di una felicità organizzata: nascono giornali, si vendono libri, spuntano ritratti e manifesti. È un’esplosione creativa che vede insieme ragazzi e ragazze. Queste ultime in particolare assumono per la prima volta un ruolo da protagoniste (tanto da far dire a Morin che nel ’68 vi sono i prodromi del femminismo). Se i leader della rivolta sono maschi, dal carismatico “Dani il rosso”, Cohn-Bendit, al presidente del sindacato studenti Jacques Sauvageot, cattolico, fino ad Alain Gueismar, il giovane segretario del sindacato degli insegnanti che diventerà uno dei “megafoni” del Maggio, le due icone della rivolta sono femmine. Una è Caroline de Bendern, una mannequinche si trova quasi per caso coinvolta nelle manifestazioni e la cui immagine sulle spalle di un manifestante mentre sventola una bandiera del Vietnam diventa la fotografia più nota del Maggio francese, tanto da esser definita «la Marianne del Maggio ’78»; un’altra è Dominique Grange, che desidera fare la cantante e che comporrà una sorta di inno del ’68, Chacun de vous est concerné (Ognuno di voi è coinvolto), considerata la “canzone del ’68” e che sarà poi rimusicata e cantata da Fabrizio De André. Quello che manca in questi due volumi è l’attenzione all’ansia religiosa dei giovani del ’68, quella che i già citati Clément, Clavel e de Certeau, ma anche André Frossard, padre Jean Daniélou e l’arcivescovo di Parigi François Marty, seppero intravedere e che indubbiamente ne costituì un aspetto fondamentale. Essi diedero in qualche modo vita a una “jacquerie dello spirito” che ebbe non poco influsso, assieme al Concilio, sui cambiamenti avvenuti nella Chiesa nei decenni successivi.

 

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