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30 maggio  2018

 

L’ombra lunga del Maggio ‘68

di Jérôme Roos

Traduzione di Maria Chiara Starace

 

Les manifestants de la CGT se rassemblent sous des banderole de “La Vie ouvrière” et “Etudiants-ouvriers unité” le 13 mai 1968 à Paris au départ du grand défilé unitaire organisée de la République à la place Denfert Rochereau par la CGT, la CFDT, FO et la FEN, qui ont également lancé un mot d’ordre de grève générale.
Demonstrators of the French leftist union CGT gather 13 May 1968 in Paris at the peak of the 1968 movement, at the start of the unitarian demonstration organized between the “place de la République” to the “Place Denfert Rochereau” by the French workers unions CGT, CFDT, FO and FEN which also calls for a general strike. (Photo credit should read /AFP/Getty Images)

 

29 maggio 1968. I fuochi stanno ancora bruciando senza fiamma nelle strade di Parigi. Il Quartiere Latino non è più delimitato dalle barricate, ma l’economia francese è paralizzata: centinai di fabbriche sono state occupate e quasi 10 milioni di operai, cioè due terzi della forza lavoro nazionale, sono in sciopero. A un incontro particolarmente “combattivo” dell’unione studentesca nazionale di due giorni prima, con la partecipazione di circa 50.000 persone, una serie di oratori hanno rifiutato qualsiasi tentativo di compromesso, e hanno chiesto il rovesciamento del governo. Per un breve momento e per la prima e unica volta nella storia post-bellica un paese capitalista avanzato si trova sospesa sul precipizio della rivoluzione. E allora che arriva la notizia.

 

Charles De Gaulle è sparito.

Violente reazione si diffondono nella società francese. Si dice che il presidente si sia rifugiato nella sua residenza di campagna a Colombey-les-Deux-Églises, probabilmente per riconsiderare il discorso sulle sue dimissioni, ma il suo elicottero non è mai arrivato alla sua destinazione ufficiale. Il governo, acefalo e ignaro di dove si trovasse il capo di stato, è nel caos. “E’ fuggito dal paese!” esclama incredulo il Primo Ministro Georges Pompidou, mentre i ministri più importanti e i loro assistenti cominciano frettolosamente a escogitare i piani per la loro fuga – chiedendosi apertamente quanto riusciranno ad andare lontano in macchina se le riserve di carburante saranno saccheggiate dai rivoluzionari.

 

Quella sera viene fuori che De Gaulle – in quello che in seguito ha liquidato come “un lapsus momentaneo” era andato di nascosto alla base militare francese a Baden-Baden per incontrare il Generale Massu, comandante delle forze di occupazione francesi nella Germania Occidentale, per assicurarsi dell’appoggio dell’esercito. Il giorno dopo, il presidente appare alla radio nazionale per rivolgersi ai Francesi. In quattro minuti  liquida rapidamente qualsiasi voce di sue dimissioni imminenti, sciogliendo l’assemblea nazionale e indicendo, invece, nuove elezioni parlamentari. Nel giro di poche ore centinaia di migliaia di  contro-contestatori borghesi si riversano  negli Champs Élisées;  qualche settimana dopo i Gollisti vincono le elezioni parlamentari in maniera schiacciante. La rivoluzione viene sconfitta alle urne.

 

Ciò nonostante, le “scosse di assestamento” del maggio ’68 continuano a riverberarsi per decenni, scatenando una profonda trasformazione nella struttura economica, nei valori culturali e nelle relazioni sociali della società occidentale, specialmente nei domini dei diritti civili, dei diritti delle donne, della consapevolezza ecologica e del multiculturalismo. Oggi, non c’è alcun dubbio che viviamo all’ombra lunga del 1968, dato che il tardo capitalismo (dal 1945 in poi) che le lotte sociali contemporanee continuano a essere modellate in modi importanti dalla sua eredità ambivalente.

 

La “Rivoluzione mondiale” del 1968

Per comprendere la rilevanza duratura del Maggio ’68 per i nostri tempi, dobbiamo mettere la rivolta francese nel suo appropriato contesto storico mondiale. In un qualche modo, gli événemnts de mai (gli avvenimenti di maggio) erano semplicemente una delle espressioni più visibili e più spettacolari di un più ampio ciclo di lotte che si svolgeva on tutto il mondo – risalendo fino alle guerre anti-coloniali in Algeria e in Vietnam e comprese la Rivoluzione Cubana, il Black Power e i movimenti per i Diritti civili, le dimostrazioni contro la guerra e le rivolte studentesche da Berkeley a Berlino, l’opposizione ungherese e cecoslovacca  a Mosca, e le proteste s studentesche a Città del Messico. Gli avvenimenti in Francia, presumibilmente, hanno segnato il clou di questa ondata di rivolta popolare che alcuni hanno chiamato “Il Lungo 1968” e che il sociologo americano Immanuel Wallerstein ha notoriamente descritto come “una rivoluzione mondiale.”

 

Ciò che ha reso così significativo il Lungo ’68, è stato precisamente il fatto che sia avvenuto al  punto di svolta tra due ere storiche, arrivando in coda ai trente gloriouses (i trenta gloriosi) del capitalismo industriale, cioè i trenta anni della sfrenata espansione economica subito dopo la II Guerra mondiale e proprio prima dell’alba della nostra era di capitalismo globalizzato e finanziarizzato, i cui con torni hanno cominciato a soltanto a delinearsi in seguito alla crisi del 1973, dando, infine luogo a una nuova era di sviluppo capitalista caratterizzato dalla rapida ascesa del neoliberalismo e dalla riaffermazione del potere borghese in tutto il mondo.

 

Fondamentalmente, le forme prevalenti di lotta sono state profondamente modellate da questa congiuntura storica. Da una parte, il Lungo 1968 ha costituito l’ultima grande esplosione di rivolta proletaria industriale in Occidente. Naturalmente, c’è stata molta militanza operai nei decenni successivi, ma le estese mobilitazioni del maggio ’68 non hanno mai avuto rivali come volume e determinazione. Dall’altra, la rivolta ha anche segnato la nascita di quelli che il sociologo francese Alain Touraine che insegnava a Nanterre nel maggio ’68, avrebbe in seguito definito les nouveaux mouvements sociaux  (i nuovi movimenti sociali).

 

Mentre il primo, il classico movimento dei lavoratori, è stato motivato principalmente da preoccupazioni materiali ed economiche, come salari più alti e migliori condizioni di lavoro, Touraine e i suoi colleghi hanno visto nei nuovi movimenti sociali un nuovo insieme di preoccupazioni “post-materiali” che comprendono problemi di identità, di diritti civili e di auto-realizzazione individuale. E’ stato esattamente dal confluire dei due movimenti che sono le rivolte del 1968 hanno tratto il loro carattere unico, espresso nella mobilitazione simultanea degli studenti radicalizzati della classe media e di una classe operaia industriale ribelle. Contemporaneamente, però, è stata precisamente l’incapacità di queste forze sociali diverse a superare i loro interessi e visioni del mondo contrastanti che alla fine hanno lasciato lo rivolta vulnerabile alla cooptazione.

 

La controrivoluzione neoliberale

La rivolta francese del maggio ’68 è stata stroncata sul nascere da un insieme di contro-mobilitazione della destra, di rozzo elettoralismo da parte del Partito Comunista e di concessioni materiali da parte del governo alla classe operaia. All’inizio degli anni 70, però, è stato chiaro che il capitalismo occidentale in generale restava impantanato in una grossa crisi che era sia strutturale che ideologica nella sua natura, esprimendosi sotto forma di stagnazione economica e di inflazione altissima  da una parte, e da una profonda mancanza di legittimità dall’altra. In breve, i potenti movimenti sociali, i sindacati e i partiti di sinistra facevano richieste redistributive per il sistema democratico che i leader politici semplicemente non potevano soddisfare all’interno dei confini di un’economia capitalista stagnante.

 

E’ stato in questo contesto che gli estremisti all’interno dell’establishment accademico, aziendale e politico hanno lanciato la loro controffensiva finale. E’ iniziata, naturalmente, con il coup d’état (colpo di stato) di Pinochet in Cile, appoggiato dagli Stati Uniti nel 1973, che rovesciò il governo democratico socialista di Allende, e che fu indubbiamente l’esperimento elettorale più riuscito della sinistra durante il Lungo 1968. Da lì il  contraccolpo  presto si è esteso al cuore capitalista. Nel 1975, la Commissione Trilaterale pubblicò un rapporto The Crisis of Democracy, (La crisi della democrazia) che sosteneva che le economie stagnanti dell’Occidente, le società tormentate dai conflitti e i sistemi politici paralizzati, soffrivano di un “eccesso di democrazia” e che soltanto un assalto ai diritti sociali e al potere organizzato del lavoro potevano ripristinare la vitalità delle democrazie capitaliste.

 

Con la Thatcher e Reagan, il Regno Unito e gli Stati Uniti presto risposero all’invito. Nel frattempo, il voltafaccia di  Mitterand all’inizio degli anni ’80, dalla sua ricerca di un impegno socialista ispirato in parte da quello di Allende, all’accettazione completa dei principi del libero mercato, esaltarono la fine del Lungo 1968 in Francia. A metà degli anni ’80, la controrivoluzione neoliberale  era in pieno svolgimento in vaste zone del globo, grazie, non in piccola parte, ai Programmi di Adeguamento Strutturale che vennero energicamente imposti ai paesi in via di sviluppo dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario Internazionale durante la crisi internazionale del debito.

 

Nel mondo occidentale, la controrivoluzione degli anni ’80 raggiunse due obiettivi politici fondamentali: ha infranto con successo il potere organizzato del lavoro – non spingendo da una parte l’uso della forza nel suo assalto ai sindacati, e allo stesso tempo cooptando con successo alcuni degli elementi dello stile di vita più individualista ed edonista della generazione del ’68. Un impegno superficiale nella “politica dell’identità” e nella “consapevolezza ecologica”  fu in parte integrato in una concettualizzazione tecnocratica della politica che effettivamente riduceva lo scopo della democrazia liberale soltanto alla gestione stabile dell’economia capitalista.

 

Allo stesso tempo, anche la controrivoluzione neoliberale perseguiva tre   per la crisi economica che aveva afflitto i paesi dell’OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) in tutti gli anni ’70. Primo, la “soluzione tecnologica” della  

containerizzazione, e dell’informazione e la tecnologia della comunicazione hanno reso possibile una vasta espansione del commercio e della finanza internazionale. Secondo, una “soluzione spaziale” apriva i confini nazionali al libero flusso del capitale, permettendo  la delocalizzazione  della produzione industriale  a Est.   Terzo, una “soluzione finanziaria” deregolamentava i mercati del credito per scatenare il potere della finanza per famiglie, ditte e governi, rendendo disponibili risorse future sotto forma di credito a basso costo per nascondere i salari stagnanti, i profitti decrescenti, e il gettito fiscale limitato. Intanto, la crisi strutturale del capitalismo, e i problemi di legittimazione furono temporaneamente risolti a spese del potere popolare che portò a un accumulo di debito, disuguaglianza e frustrazioni popolari all’interno del sistema.

 

All’inizio degli anni ’90, il crollo del comunismo di stato e dell’Unione Sovietica relegarono il marxismo e la lotta di classe nell’immondezzaio della storia; da allora in poi abbiamo dovuto, invece,  vivere in un mondo interconnesso e pacifico alla “fine della storia”, un mondo in cui i “liberi mercati” avrebbero regnato supremi e in cui le sole battaglie che restavano da combattere sarebbero state quelle tra un centro-destra culturalmente conservatore e un centro-sinistra culturalmente progressista, su problemi semplicemente “ post-materialistici”, come l’aborto, i matrimoni tra gay e che cosa fare riguardo al buco nello strato di ozono. Questo doveva diventare il culmine della Terza Via, in cui gli esponenti social-democratici e della sinistra liberale dei valori sessantottisti, come la Clinton e Blair, accettarono il dogma prevalente della liberalizzazione del mercato, per diventare le figure rappresentative indiscusse di una generazione del ’68 oramai completamente depoliticizzata.

 

La crisi del capitalismo globale

Il sogno durò per circa un decennio – fino a quando il mondo venne fatto tremare dagli attacchi dell’11 settembre e dal Progetto per un Secolo Americano, neoconservatore, proposto dell’amministrazione Bush. Il neoliberalismo era dipeso sempre da uno stato forte per “rendere la società adatta al libero mercato,” ma la recente ossessione per la sicurezza nazionale ha estremizzato questa dipendenza dall’autorità statale. Durante la Guerra al Terrore, il commercio globale e i mercati finanziari sono arrivati ad essere inclusi in un progetto draconiano di sicurezza dei confini, di sorveglianza di massa e di intervento all’estero.  Quando il mondo occidentale si è messo contro le popolazioni musulmane in patria e all’estero, anche lo spirito culturale attenuato e pienamente cooptato del ’68 si è trovato sotto un attacco prolungato della estrema destra xenofoba, che, per ironia cominciò a brandire alcuni dei suoi successi – per esempio, i diritti delle donne, come un randello con ci bastonare il vicino musulmano e smantellare la società aperta e multiculturale dell’era post ’68.

 

E’ stato, però, realmente, soltanto con il fallimento della Lehman Brothers nel 2008, esattamente 10 anni fa questo autunno, che le illusioni neoliberali di una fine democratica e capitalista della storia, sono state regolarmente distrutte. Con uno straordinario piega presa dagli avvenimenti, il decennio iniziato con la crisi finanziaria globale doveva essere caratterizzata dalla vendetta di Marx: come è chiaro per tutti, e anche come pubblicazioni dell’establishment, tipo The Economist  sono state costrette a riconoscere nel 200° anniversario della nascita di Marx, all’inizio di Maggio, il capitalismo resta soggetto a periodi crisi potenzialmente catastrofiche , a disuguaglianza incontrollata, ad alienazione diffusa, e, ogni tanto, anche a violente sollevazioni rivoluzionarie.

 

Tuto ciò è diventato molto evidente nel 2011, quando le rivolte popolari, spinte in gran parte da preoccupazioni socio-economiche causate da forte disoccupazione giovanile e dai prezzi alle stelle del cibo e dell’energia, scoppiarono nel mondo arabo, destituendo i dittatori in Tunisia e in Egitto ed espandendosi come un incendio incontrollato in Nord Africa e in Medio Oriente. Presto lo “spirito di (piazza) Tahrir” attraversò il Mediterraneo, quando milioni di Spagnoli e di Greci – ispirati dalla Rivoluzione Egiziana – occuparono le piazze delle loro città per protesta contro le misure di austerità imposte dai prestasoldi europei e dal Fondo Monetario Internazionale. Vari mesi dopo, il Movimento Occupy Wall Street conquistò per breve tempo il mondo, e negli anni successivi rivolte in  nazioni come la Turchia e il Brasile dimostrarono che neanche i mercati emergenti in rapida crescita erano immuni dal malcontento sociale.

 

Dopo il 2011, è diventato chiaro che nel mondo globalizzato e finanziarizzato di oggi,

la lotta di classe è viva e vegeta, anche se le sue forme sono cambiate in molti modi importanti come conseguenza delle trasformazioni del capitalismo e del lavoro negli scorsi quattro decenni. Le attuali lotte di classe ruotano contro l’opposizione tra coloro che possiedono il capitale e coloro che devono vendere il loro potere  lavorativo per sopravvivere, ma non avvengono più esclusivamente nel momento della produzione (presumibilmente non sono mai avvenute , ma questo, tuttavia, è stato per lungo tempo il sito privilegiato di lotta per le tradizioni dominanti marxiste e anarchico-sindacali). Anche le lotte di oggi si svolgono fondamentalmente nel rapporto tre debitori e creditori, tra affittuari e padroni, tra contribuenti e finanziatori dello stato. In breve, il campo d’azione è diventato molto più ampio e molto più complesso da navigare.

Inoltre, come gli attivisti coinvolti nel movimento delle donne, nei movimenti per i rifugiati e i migranti e nel movimento per le vite dei neri, hanno sostenuto in modo convincente in anni recenti, anche le forme contemporanee di lotta di classe non dovrebbero essere considerate isolate rispetto alle lotte concomitanti contro il patriarcato, l’imperialismo ai confini con gli USA o i privilegi dei bianchi e la supremazia bianca. Mentre quest’ultima esiste sotto forma di strutture relativamente autonome e di logica di dominio, sono tuttavia profondamente intrecciate con – e alla fine inseparabili da – le relazioni sociali capitaliste del nostro tempo.

Un’idea fondamentale che emerge  da questo nuovo ciclo di lotte, quindi, è quella che era già presente tra alcuni degli elementi più radicali del Lungo ’68 – cioè la consapevolezza che le dinamiche della lotta di classe non possono essere semplicemente opposte come alternativa. Per riuscire, entrambe le forme di lotta devono essere intraprese insieme, contemporaneamente, e permettendo l’autodeterminazione e una relativa autonomia di quei gruppi che continuano a soffrire di molteplici forme di oppressione. In breve, l’obiettivo politico della lotta anti-capitalista non può essere limitato a una forma interpretata alla lettera di uguaglianza socio-economica, né le rivendicazioni di emancipazione possono essere limitate al dominio liberale degli “uguali diritti”. La politica rivoluzionaria del ventunesimo secolo sarà a favore della liberazione collettiva dai sistemi di dominio che si intersecano.

 

Il prossimo disordine globale 

Oggi ci troviamo a un ulteriore punto di svolta tra un vecchio mondo che sta morendo e uno nuovo che non può ancora nascere, con tutti i tipi di sintomi patologici che emergono dalla rottura. E’ ora chiaro che la controrivoluzione liberale alimentata dal credito verso il 1968 sta rapidamente perdendo energia. Dopo il crollo del 2008, soltanto un’ondata di salvataggi da parte delle banche e la creazione di denaro attuata dai principali governi del mondo e dalle banche centrali, potrebbero fornire al sistema capitalista una nuova prospettiva di vita. Ora, quel che restava della legittimità dell’establishment neoliberale sta svanendo come la nebbiolina al sole del mattino, mentre segni di una crisi generale incombente emergono dappertutto.

 

L’umore prevalente nei movimenti sociali di oggi è, quindi, molto diverso da quello del ’68. Non è certo di ottimismo svincolato dal potere dell’immaginazione, né si si fa alcuna illusione sull’esistenza di una spiaggia al di sotto dei sanpietrini (era uno slogan scritto con lo spray sui muri di Parigi nel ’68, n.d.t.). Il nostro momento storico sembra invece caratterizzato da un senso senza precedenti di urgenza. Con l’ascesa della destra storica e le minacce esistenziali che pongono il cambiamento del clima e la distruzione ecologica, questa generazione sa che non si può permettere che le sue lotte soccombano alla nostalgia e che vengano cooptate e sdrammatizzate allo stesso modo dello spirito del ’68. Davanti a un  futuro potenzialmente distopico, la sinistra mantiene ancora una piccola finestra di opportunità di ribaltare la situazione, ma soltanto se riesce a imparare ad andare oltre alcune dei retaggi ambivalenti che ha ereditato. Come diceva uno slogan comparso su un muro di Atene nel 2008: “Ffanculo al maggio ’68. Combattete ora.”

 


Da: Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

www.znetitaly.org

Fonte: https://zcomm.org/znetarticle/the-long-shadow-of-may-68

 

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