Fonte: Marcello Veneziani

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13/01/2018

 

Il ’68, quell’anno che pesa ancora

di Marcello Veneziani

 

Cinquant’anni fa, di questi tempi, prendeva corpo e aria la Contestazione globale, che poi diventò più semplicemente il ’68. Sarà il tormentone di quest’anno, ani è già iniziato.

Il ’68 fu l’ultima rivoluzione in Occidente anche se non fu cruenta, non buttò giù stati, poteri e regimi e non cambiò il sistema che voleva abbattere. Ma mutò radicalmente i costumi e il linguaggio, la scuola e l’università, la famiglia e il rapporto tra le generazioni, il sesso e il ruolo femminile.

Tutto questo non avvenne nel 1968, ma quell’anno fu considerato l’apice, il punto d’avvio, benché segnali lo avessero preceduto. Il ’68 fu un evento che designò poi un’epoca. Cambiò il mondo.

Se credete alle coincidenze simboliche, nel ’68 morirono tre simboli della vecchia Italia che credeva in Dio, nella patria e nella famiglia: Padre Pio, il santo da Pietrelcina, Giovannino Guareschi, il cantore del mondo piccolo di don Camillo e di Peppone, e Vittorio Pozzo, il mitico commissario della nazionale che vinse due campionati mondiali e faceva cantare ai calciatori prima di giocare gli inni patriottici. Era il loro doping, come le stimmate di Padre Pio e il Candido di Guareschi.

Con loro chiuse un programma-simbolo della vecchia tv educatrice, Non è mai troppo tardi, del maestro Manzi. Liquidati quei simboli, esplose la dissacrazione, il mondo globale, il tutto è politica, e il “non è mai troppo presto” del giovanilismo rampante. L’età non fu più una condizione anagrafica ma definì una classe, un’etnia, un potere.

Ma cosa fu poi il ’68? Povero di eventi, senza grandi catastrofi, accadimenti storici, cambiamenti di potere, il ’68 fu soprattutto un cambiamento radicale di mentalità. Una rivoluzione culturale, per fortuna non come quella esaltata dai sessantottini nella Cina di Mao, che costò qualche decina di milioni di morti.

Non vi farò perciò la storia di quell’anno che fu poca cosa. E nemmeno dei suoi capi e capetti. Cercherò invece di fare un bilancio delle sue eredità.

Per cominciare, il ’68 allargò il fossato tra le generazioni. Mentre i giovani abbattevano limiti e frontiere, innalzavano un muro tra il vecchio e il nuovo e tra i vecchi, detti allora matusa, e i giovani. Irruppe la politica in ogni ambito, anche nell’intimità e nel privato. S’inneggiò alla mutazione antropologica: cambiarono le facce, i vestiti, crebbero i capelli, le barbe, i toni di voce.

Ma tutto questo è solo superficie.

Piuttosto cosa accadde d’importante e di letale? Si ruppe il nesso tra diritti e doveri, tra piacere e fatica, tra desideri e sacrifici. Sorse la passione trasgressiva per l’illimitato, per l’inaccessibile. Un romanticismo puerile elettrizzò i giovani, la percezione di trovarsi all’alba di un nuovo mondo, dopo il boom economico e demografico, verso una svolta radicale.

L’immaginazione andò al potere. Fu quello il ’68 prevalente. Poi ci furono esiti minori, come l’estremismo politico che poi dette vita alla violenza e si spinse fino al terrorismo. O come l’opposto, l’ecopacifismo, che si alimentava però della stessa intolleranza e dello stesso spirito utopistico. O come l’abuso di droga. Crebbe pure il femminismo.

Il ’68 fu furiosamente antiborghese e anticapitalista ma di fatto servì alla borghesia per liberarsi delle ultime eredità cristiano-perbeniste, il senso dell’ordine e del decoro, il pudore e la buone maniere. E servì al capitalismo per liberarsi delle ultime resistenze al dominio assoluto del denaro, del profitto e del consumo.

Il ’68 colpiva la famiglia e l’amor patrio, l’autorità e il senso religioso, la tradizione e il senso morale; dunque svolgeva un compito utile al capitalismo, alla globalizzazione e alla borghesia cinica, che poi si scoprirà radical e progressista.

Il ’68 fu una spallata al mondo di ieri, verso la modernizzazione. Che la società non andasse al passo delle trasformazioni, era vero. La scuola e l’università, la famiglia e la società erano piene di contraddizioni, ipocrisie e anacronismi; ma quelle che uscirono poi dall’onda del ’68 furono peggio. Caos e demeritocrazia.

Il 68 parricida diventò infanticida, e dopo aver sognato la società senza padri, fondò la società senza figli. Il ’68 nacque collettivista, corale, orgiastico ma finì individualista, egocentrico, narcisista. Perché fu l’espansione illimitata del soggetto.

Le trasgressioni si fecero conformismo di massa, il lessico rivoluzionario si fece catechismo bigotto e dopo aver combattuto le ipocrisie del linguaggio borghese, si instaurarono le ipocrisie del linguaggio “corretto”. Anche il 68, come il Barocco, ebbe il suo rococò.

L’effervescenza di quegli anni non produsse opere creative degne di restare, ma un permanente atteggiamento da bambino perenne, capriccioso, imbronciato e incompreso, che attribuisce alla società le colpe personali e i limiti naturali.

La società fu meno repressa ma più sboccata, più aperta alle donne ma più sfasciata in famiglia, mise al centro i giovani ma a lungo andare non si rigenerò, non adottò ricambi, si fece la più vecchia del pianeta. Alla ragione preferì l’impulso, all’ordine il caos, alla storia l’evento immediato, alla cultura l’emozione, all’etica l’estetica.

Si selezionò di meno, i capaci e i meritevoli furono messi fuori gioco, crebbe al suo posto una società edonista, irresponsabile e giuliva, anche se intimamente depressa e disperata, piena di comfort e sconfortata. Declinarono le figure di riferimento, i docenti, i genitori, i sacerdoti, i militari, le forze dell’ordine, che caddero anzi nel discredito.

Questo lasciò il ’68 in Occidente, soprattutto in Italia.

Qualche passo avanti, molti passi indietro, e in basso. La liberazione promessa creò più alienazione e più frustrazioni. La società si fece più infelice, perse l’ingenuità degli anni sessanta, senza guadagnare la maturità di una vita adulta e consapevole.

E introdusse i cupi, plumbei anni settanta. Sul piano politico sostituì il comunismo con un radicalismo anarchico, individualista e libertario. Dal ’68 non ci siamo più ripresi.

 

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