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14 Luglio 2018

 

La triste verità: non c’è alternativa al populismo e le cose possono peggiorare ancora, se non ci si dà una mossa

di Fabio Chiusi

 

Le rivoluzioni del populismo si mostreranno presto per ciò che sono: illusioni. Ma all’orizzonte non ci sono alternative, se non le ambigue tecno-utopie della Silicon Valley e qualche leader sbiadito in cerca di rivincite. Il momento di ripensare la democrazia è ora. Altrimenti, presto, saranno guai

 

Se domani la marea dei cosiddetti “populismi” esaurisse il moto. Se venissero a galla i gusci vuoti delle promesse elettorali, delle cifre che non tornano: le clausole di un “contratto” di governo che non regge. Sembra un giorno lontano, ma verrà. Quando le rivoluzioni saranno diventate riforme, o aggiustamenti. Quando il bimbo Salvini avrà rotto il giocattolo dell’attenzione mediatica, a furia di sbatterlo qua e là come un Trump senza presidenzialismo. Quando per i Cinque Stelle tutti quella per distinguersi sarà — lo è già, in parte — una battaglia esistenziale. Quando i battibecchi tra ministri diventeranno scontri politici. Quando la sparizione del primo ministro sarà completata.

 

Può darsi ci vogliano mesi, forse anni. Può darsi che i rivali possano prendersela comoda. Che abbiano tempo per leccarsi le ferite, polemizzare internamente su come farlo, azzuffarsi sulla forma della lama che li ha trafitti, e infine provare a costruire un’arma più affilata, per la prossima contesa elettorale. Ma è altrettanto possibile, specie nell’era del consenso istantaneo, che i tempi siano ben più ridotti.

 

Magari non lo è, ma se il crollo fosse dietro l’angolo, che alternativa credibile, quale offerta politica davvero allettante sarebbe disponibile agli elettori? È una domanda che vale in Italia, ma non solo. Se le destre, i nazionalismi, i sovranismi e i (tecno)populismi hanno realizzato davvero, come si legge ormai ovunque, una più o meno effimera “egemonia culturale”, quale risposta strutturata, di sistema, possono offrire i loro oppositori? Una volta generalizzato il frame populista di lotta e di governo per cui da una parte ci siamo noi, il popolo, i buoni, e dall’altra loro, le élites, i cattivi, come se ne esce?

 

I modelli social-democratici e progressisti sembrano essere da tempo al bivio tra sposare quella premessa, e dunque diventare a loro volta populisti, o fallire. Quelli liberal e liberali altrettanto: anche qui le “rivoluzioni” promesse non sono mai arrivate, e si percepisce una certa stanchezza ideologica, di visione. Mark Fisher lo chiamava “realismo capitalista”, l’idea per cui sembra non poterci essere alternativa di sistema al modello socio-economico neoliberista imperante. Ma non serve scomodare la teoria critica, e sposarne il radicale anticapitalismo, per comprendere che individualismo, consumismo ed efficienza a ogni costo si traducono in realtà in enormi disuguaglianze sociali e nuovi, insidiosi monopoli.

 

A partire da quelli di Silicon Valley, particolarmente abili a colmare il vuoto ideale con la loro (sempre meno) scintillante utopia di automazione e connessione. Ecco, sembra che Mark Zuckerberg e colleghi siano rimasti l’ultima opposizione strutturata, ideologica, al ritorno dei muri, delle intolleranze, delle fobie e ossessioni razziste. Gli ultimi mohicani del mondo come villaggio globale, un’unica comunità intessuta dalla rete capace di vivere in armonia, nel rispetto delle differenze.

 

Ma la tecnologia non basta per fare una visione politica. L’alternativa ha bisogno di risposte più concrete. Faccio un esempio, che li riassume tutti: il reddito universale di base che molti nella Valley auspicano è inteso come una misura destinata a integrare o sostituire lo stato sociale? Solo nel primo caso abbiamo una risposta progressista allo stradominio dei padroni dell’automazione e degli algoritmi. Nel secondo, al contrario, abbiamo un modo libertario da destra per separare Stato e individuo. Una mancia pubblica, per lasciare poi sia il privato con le sue sole forze a trovare il modo di sopravvivere tra i robot e le discriminazioni automatiche.

 

Due visioni opposte, senza che si capisca da che parte debbano stare i capi di Stato digitali. Significa che i giganti tecnologici e la loro visione del mondo potrebbero essere alleati di un’alternativa di sistema al Nuovo Mondo Populista che viene, ma potrebbero anche adagiarvisi comodamente. Dopotutto, sono le forze politiche “tradizionali” a voler regolare più severamente le piattaforme digitali, non i “populisti”. A questi ultimi, infatti, i social network vanno bene così come sono: hanno imparato a usarli meglio. Per raggiungere direttamente l’elettorato, parlare la sua lingua, adottare i suoi codici e insieme sabotare l’agenda mediatica, costringere giornalisti e commentatori ad adottarne — anche solo per criticarlo — lo stile comunicativo.

 

Anche i canali di informazione “alternativa”, per quanto improvvisati o manipolatori, fanno parte di una lotta anti-sistema, per certi versi sacrosanta, verso un Vecchio Mondo che lentamente muore. Alle piattaforme lo status quo piace, è l’equilibrio in cui hanno potuto muoversi rapidamente e rompere cose, accumulando ricchezze faraoniche. Ma se poi invece anche il Nuovo cominciasse a morire, non sarebbe certo Silicon Valley a salvarlo. Se, insidiate da una realtà che prima o poi presenta il conto, le cosiddette “forze antisistema” dovessero smarrire l’appeal, perdendo fiducia prima ancora che consensi, che accadrebbe?

 

Molto probabilmente, gli occhi dell’opinione pubblica e di tanti potenziali elettori tornerebbero sul “sistema”, cioè a quel che resta della politica dei partiti. E sarebbero costretti a testimoniare, per l’ennesima volta e anche nel momento del bisogno, che non ne è rimasto nulla, a parte guerre di potere intestine e l’ego di leader sbiaditi, che non riescono a imparare dalle sconfitte. Se così fosse, se le opposizioni si facessero trovare impreparate per quel giorno, sarebbe un momento esiziale per la democrazia.

 

Senza una nuova classe dirigente, nuovi leader, ma soprattutto un nuovo metodo di deliberazione per costruire una loro rinnovata idea del mondo, i partiti tradizionali non hanno alcuna chance di scalzare i sovrani “populisti”, nemmeno quando si dovessero rivelare meno illuminati di come si erano dipinti. Potranno deriderne le gaffes, ma non sarà con la sagacia che recupereranno il consenso perduto. Da un lato perché, tra un appiglio pericolante e il vuoto, nessuno sceglie il vuoto. Ma dall’altro, e soprattutto, perché la rabbia sociale già oggi così chiaramente percepibile cercherebbe sfogo in ancora maggiore demagogia, promesse ancora più irrealizzabili, teoremi ancora più complottisti, propositi ancora più visceralmente rivoluzionari. Difficile, e non auspicabile, che uno qualunque degli schieramenti politici tradizionali possa soddisfare richieste di questo tipo.

Più semplice, invece, baleni in molti l’idea di sacrificare la democrazia, pur di riuscirci. Del resto, si sarebbe oramai rivelata inefficiente e inefficace — e non lo è già, dopotutto? E poi, esaurite le opzioni politiche, come cambiare davvero, altrimenti? Per questo è così importante che nasca un’opposizione seria, critica e ideologica, al progetto dell’internazionale “anti-sistema”. Un’opposizione che sfrutti il meglio della rivoluzione digitale per rendere davvero partecipativa la sua ricostruzione. E, insieme, che sia in grado di creare un’alternativa politica più ambiziosa di una mera guerra al nuovo che viene.

Non è di una battaglia di retroguardia o di nostalgie che c’è bisogno: c’è bisogno di rifare tutto, e di rifarlo presto e bene. Servono le idee, certo, ma ancora prima serve un metodo per piantarle, accudirle e farle sbocciare. Un modo per renderle davvero accessibili a tutti, di tutti. O la ragione anti-populista si rivolta, o finito il populismo non resta davvero più nulla. Se quel giorno, domani, mostrasse un vuoto nello spazio politico di una tale portata, allora sì che ci sarà da preoccuparsi.

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