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lunedì 6 agosto 2018

 

Il M5s e il Parlamento danno il colpo finale all’art 18 dello Statuto dei Lavoratori

di Kocis

 

E’ avvenuto lo scorso 1 agosto, in Parlamento - Camera dei Deputati - durante la discussione sul cosiddetto “ Decreto Dignità”. 

 

In un contesto puramente surreale, nel raccordo tra le vicende e i ruoli politici di “ieri” e l’oggi, il pronunciamento è stato lapidario nei riguardi dell’emendamento presentato dai deputati di LEU: 13 SI (Leu), 317 NO (….forze di governo), 191 astenuti ( Pd, Forza Italia).

Si sono tristemente saldate le maggioranze del prima 4 marzo e le opposizioni di “ieri” che ora sono diventate maggioranze. In particolare, dati i numeri parlamentari, con il contributo preponderante del Movimento 5 Stelle, ormai spoglio dei contorsionismi dialettici profferiti sull’argomento nel corso degli ultimi anni.

 

Quindi, è stata ancora definitamente ribadita, a “furor di popolo parlamentare”, la cancellazione dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori. Già estromesso, come validità per i nuovi assunti, dal PD con il “Jobs Act” del 7 marzo 2015, dopo le importanti (in negativo) modifiche introdotte con la Legge Fornero 92/2012.

 

Eppure l’art.18 della legge 300/1970 - Statuto dei Lavoratori – ha sempre rappresentato il faro di riferimento nel riconoscimento della dignità morale e sostanziale delle lavoratrici e dei lavoratori. Un principio elementare di giustizia civile e sociale nei luoghi di lavoro con più di 15 dipendenti. Conquistato dal movimento dei lavoratori e dalle organizzazioni sindacali costrette a rinnovarsi strutturalmente sull’impeto rivendicativo del movimento di operai e impiegati, con le innovative e intense lotte di richieste attuate nel corso dell’ultimo biennio degli anni sessanta, tese a migliorare le dimesse (e sottomesse) condizioni di vita lavorative e i diritti, rimasti pressoché inalteratedalla nascita della Repubblica. Un passo di modifica molto importante era stato fatto con la legge – 604 - sui licenziamenti individuali del 15 luglio 1966.

 

Così recita il preambolo iniziale dell’art.18 (Reintegrazione nel posto di lavoro):

“Ferma restando l'esperibilità delle procedure previste dall'art. 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, il giudice, con la sentenza con cui dichiara inefficace il licenziamento ai sensi dell'art. 2 della legge predetta o annulla il licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo ovvero ne dichiara la nullità a norma della legge stessa, ordina al datore di lavoro di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro.”.

 

Inoltre: “Il giudice con la sentenza di cui al primo comma condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento di cui sia stata accertata l’inefficacia o l’invalidità stabilendo un’indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello sella effettiva reintegrazione e al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali dal momento del licenziamento al momento dell’effettiva reintegrazione”.

 

Quindi fu attuata una regola già vigente nel codice civile, mai inserita nella normativa che regolava il rapporto di lavoro. Se non si è commesso un atto tra quelli ascrivibili nella fattispecie dei reati, il “reo” nulla deve pagare.

 

Il concetto operativo della “giusta causa” – licenziamento individuale che può essere impugnato - è stato sempre specificato in maniera appropriata nei Contratti di Lavoro, fin dalla resa operativa dell’art. 18 della Legge 300. In appropriato riferimento all’art. 2119 del Codice Civile.

 

Per esempio nel comparto Metalmeccanico riguardo il “licenziamento senza preavviso” viene puntualizzato che “ n tale provvedimento incorre il lavoratore che provochi all’azienda grave nocumento morale o materiale e che compia, in connessione con lo svolgimento del rapporto di lavoro, azioni che costituiscono delitto a termine di legge”. Ci sono poi le casistiche del “licenziamento con preavviso”.

 

Dunque, se in sede di ricorso giudiziario viene dimostrato la non congruità dell’accusa, il giudice intima (intimava) la reintegrazione nel posto di lavoro. 

 

Elementare, si potrebbe dire, in una Società dove vige il riconoscimento e l’applicazione del Diritto che vale per i cittadini in qualsiasi altra circostanza.

 

Con l’introduzione del “Jobs Act” la reintegrazione nel posto di lavoro vige solamente per i licenziamenti considerati discriminatori. Avvenuti per ragioni riconducibili a ragioni di razza, sesso, lingua, salute, o durante il periodo di congedo matrimoniale, maternità, paternità.

 

Eppure, se dovessimo analizzare le sentenze che hanno comandato il reintegro nel corso dei circa 45 anni di vigenza dell’art. 18, i casi di licenziamenti ingiusti sono proprio tantissimi.

 

Ma non si tratta ovviamente solo di numeri. Il dato fondamentale è rappresentato dal fatto che la parte debole, i lavoratori dipendenti, senza l’art. 18 sono tenuti potenzialmente sotto la “mannaia” dell’eventuale ripicca, per ragioni dovuti ai comportamenti sindacali o per la richiesta di riconoscimento del giusto diritto, dell’equità, della salubrità del luogo di lavoro, per la difesa dell’integrità fisica, morale e psicologica.

 

Un bel ritorno al Medioevo, nel mondo del lavoro in Italia, compreso i “ mille” precariati che spezzano le giuste attesa di vita di milioni di lavoratrici e lavoratori.

 

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