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15 Settembre 2018 

 

Ieri blue whale, oggi blackout: perché i media dovrebbero smettere di alimentare la psicosi dei suicidi giovanili

di Irene Cosul Cuffaro

 

Dopo i recenti fatti di cronaca si è tornati a parlare di adolescenti che si tolgono la vita per sfida, ma il fenomeno è reale o gonfiato dall'informazione? Il rischio di emulazione è in ogni caso alto

 

La notizia del quattordicenne milanese trovato impiccato nella propria camera lo scorso 6 settembre ha riportato agli onori delle cronache il tema delle web challenges estreme. Un episodio analogo era accaduto a febbraio, quando un altro adolescente venne trovato in fin di vita a Tivoli, strangolato dal cavo della sua Playstation, e poi morto qualche giorno dopo all'ospedale Gemelli. 

Dopo la Blue Whale, dunque, si è tornati a parlare di queste agghiaccianti quanto pericolose (e talvolta letali) sfide che girano in internet. Stavolta è il turno del "blackout", il cui scopo consiste nel rimanere il più tempo possibile senza respirare sino ad arrivare allo svenimento per provare il brivido di entrare nello stato confusionale dato dal rallentamento delle attività celebrali. Ridurre volontariamente l'afflusso di ossigeno al cervello per trarre piacere è una pratica antica, già presente in Grecia nell'epoca classica, nelle civiltà precolombiane e tutt'oggi utilizzata da alcuni come pratica erotica che ha talvolta portato a tragici epiloghi.

La sua evidente pericolosità non ha ostacolato però il diffondersi nel web di video e tutorial che spiegano agli interessati come soffocarsi, tanto da far nascere sfide tra i giovani. Non è ancora certo che la morte di Igor sia collegata al "blackout", ma dall'analisi del suo telefono risulta che il ragazzo abbia guardato video su Youtube in cui se ne faceva riferimento. Nel frattempo la Procura di Milano ha ordinato il sequestro dei siti e aperto un fascicolo contro ignoti con l’ipotesi di reato di istigazione al suicidio.

Come si arrivati a questo punto? E soprattutto, di chi è la responsabilità? Negli adolescenti di tutte le epoche la voglia di trasgressione e di spingersi al limite è sempre stata presente, così come a vari livelli la loro influenzabilità. Ciò che è cambiato oggi è l'amplificazione di questi fenomeni, come spiega il dottor Michele Oldani, psicologo e docente di fondamenti di psicopatologia dell'età eveolutiva alla scuola Li.S.T.A di Milano: «La trasgressione può essere anche sana,per un adolescente non sentire la voglia di osare non sarebbe normale. L'adolescenza è periodo in cui ci si vuole spingere all'estremo e ciò porta anche ad atteggiamenti lesivi. Mentre però prima la trasgressione veniva mostrata a un gruppo ristretto, oggi col web questa esibizione è amplificata. Il web è un espansore. La sua forza può essere sia positiva che distruttiva».

Una considerazione trasferibile anche sui mass media. Basti pensare alla psicosi collettiva nata dopo il servizio de Le Iene sulla Blue Whale nel maggio del 2017, rivelatosi poi pieno di dati errati e immagini la cui fonte non era stata verificata. Anche per il Blackout l'informazione non sta mostrando la sua faccia migliore, essendo già stati pubblicati decine di articoli anche sui maggiori quotidiani contenenti spiegazioni della pratica nel dettaglio e video amatoriali di giovani che cadono a terra privi di sensi. «Queste vicende andrebbero analizzate con più obiettività, invece c'è questa modalità scandalistica usata dai media che tende a rendere tra i giovani queste pratiche e questi siti ancora più seduttivi», spiega il dottor Oldani.

Il rischio di emulazione è infatti alto, soprattutto tra i ragazzi, perfino in casi estremi come il suicidio. Dello stesso parere è Ivano Zoppi, fondatore e presidente di Pepita Onlus, cooperativa sociale formata da educatori esperti in interventi educativi e sociali e in percorsi di formazione in scuole, Comuni, oratori e parrocchie: «La stampa dovrebbe suscitare meno curiosità e contenere il pericolo. Non voglio parlare di colpa, ma di responsabilità. Sicuramente c'è un grande vuoto valoriale e assenza di punti riferimento per i ragazzi. I genitori non impongono più regole, sono loro stessi dipendenti dai social. Non si possono lamentare delle conseguenze se mettono dei telefonini in mano a bambini di cinque o sei anni». Ma anche la scuola dovrebbe assumersi le sue responsabilità: «È necessario avviare programmi continuativi, no conferenze di un ora una volta ogni tanto. Bisogna inserire programmi nella didattica e i docenti devono avere apposite competenze e insegnare temi come il rispetto verso se stessi. Il bullismo non è il problema, ma la conseguenza del problema».

Gli episodi di suicidi tra i giovani sono fortunatamente un fenomeno marginale che si nutre dell'emotività del grande pubblico. Anziché discutere seriamente di come affrontare i disagi degli adolescenti, simili a quelli delle generazioni precedenti ma in un contesto completamente diverso, si finisce invece per fare del sensazionalismo su episodi sporadici per soddisfare il voyeurismo del popolo, come conferma il dottor Oldani: «Al di là delle denunce e dello scandalismo, sarebbe bene intercettare questo bisogno di trasgressione. Come per esempio è stato fatto a Napoli con dei ragazzi a rischio in quartieri difficili con il parkour. Il successo è stato enorme perchè ha trasformato questo desiderio di limite, lo ha incalanato dandogli dei confini, trasformandolo in equilibrio».

 

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