Da L’Antidiplomatico.it

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17 ottobre 2018

 

“Il neoliberismo produce miseria e povertà. E’ ora di nazionalizzare”.

Fabrizio Verde intervista Luciano Vasapollo

 

Intervista de l’AntiDiplomatico al direttore scientifico del Centro Studi Trasformazioni Economico-Sociali del sindacato USB in vista della manifestazione del 20 ottobre a Roma per le nazionalizzazioni

Finalmente in Italia si torna a discutere di nazionalizzazioni. A determinare il ritorno d’attualità di questo argomento cruciale per l’economia di una nazione hanno sicuramente contribuito le polemiche suscitate dal tragico crollo del Ponte Morandi a Genova. Evento che ha palesato il fallimento totale della privatizzazione delle autostrade italiane. Assurte a simbolo del fallimento di una strategia politica ultra-ventennale. 

È datato 1993 infatti, all’epoca c’era il governo Amato, l’avvio della strategia che ha portato lo Stato a ritirarsi dall’economia. In ossequio ai dettami del neoliberismo. Dove tutto deve essere lasciato alla gestione della cosiddetta mano invisibile del mercato. Il fallimento di una siffatta teoria economica è sotto gli occhi di tutti. Con un’Italia in piena devastazione economica e sociale.

Di un tema centrale e ineludibile, quale le nazionalizzazioni, per qualunque forza politica voglia risollevare le sorti del paese e le condizioni di vita della classe operaia e delle larghe messe popolari abbiamo deciso di discuterne con Luciano Vasapollo, direttore scientifico del Centro Studi Trasformazioni Economico-Sociali del sindacato USB; professore di Analisi Dati di Economia Applicata alla «Sapienza» Università di Roma, Delegato del Rettore per le Relazioni Internazionali con i Paesi dell’America Latina e dei Caraibi; e professore all’Università de La Habana (Cuba) e all’Università «Hermanos Saíz Montes de Oca» di Pinar del Río (Cuba); autore del libro “Pigs. La vendetta dei maiali”, insieme a J.Ariolla, R.Martufi – che segue Pigs. Il Risveglio dei maiali –  in cui si approfondisce la discussione sulla necessità della rottura della gabbia dell’Unione Europea e si avanza una proposta politica che allude ad un area alternativa Euro/Mediterranea sganciata dai dispositivi di dominio, rapina e sudditanza della borghesia continentale europea.

Professore, la parola nazionalizzazione è tornata al centro del dibattito pubblico dopo che per un lungo periodo questa è sembrata una bestemmia. Quali obiettivi si propongono quelle forze politiche che daranno vita alla manifestazione incentrata proprio sulle nazionalizzazioni il prossimo 20 di ottobre a Roma?

Al centro degli obiettivi di questo appuntamento di mobilitazione c’è il rilancio della parola d’ordine – un vero e proprio programma di medio periodo – della Nazionalizzazione dei settori strategici della produzione.

C’è voluta la catastrofe di questa estate del ponte Morandi a Genova per riportare all’ordine del giorno – del dibattito pubblico e dell’agenda politica – l’autentico disastro sociale prodotto dalla lunga stagione di privatizzazioni, dismissioni, esternalizzazioni e depauperamento del patrimonio industriale ed infrastrutturale del nostro paese. Una sequenza che ha pesantemente segnato il corso economico del capitalismo italiano almeno negli ultimi 25 anni provocando non solo una deregolamentazione del lavoro e dei diritti ma anche un peggioramento della quantità e della qualità dell’offerta dei servizi pubblici ed essenziali.

Infatti – volendo periodizzare questa fase di ristrutturazione del Sistema/Italia – possiamo datare dal periodo di vigenza del governo Amato (1993) l’avvio della lunga serie di privatizzazioni che hanno modificato il volto e la struttura del capitalismo tricolore unitamente al complesso delle relazioni produttive, economiche e normative dell’Azienda/Italia.

Abbiamo vissuto una intera fase della storia economica in cui soggetti finanziari famigerati come Société Générale, Rothschild, Crédit Suisse, JP Morgan, Goldman Sachs (ossia la cupola dei poteri forti del capitalismo internazionale) hanno fatto ‘il bello ed il cattivo tempo’ cannibalizzando la struttura industriale italiana, dettando le condizioni della sua svendita, le conseguenti politiche anti-operaie da applicare verso i lavoratori interessati da questi processi ed imponendo la linea di condotta da seguire la quale – seppur con approcci differenziati – è stata supinamente accettata ed applicata supinamente dal susseguirsi dei vari esecutivi di governo nel corso di questi decenni.

Del resto il consumarsi di alcune vicende simbolo degli ultimi anni – Alitalia, Ferrovie, Sip/Telecom ed Ilva in primis – hanno riproposto uno scenario economico in cui vige, unicamente, la logica del profitto a tutti i costi, l’abbandono di ogni parvenza di clausola sociale, l’assenza di una qualsivoglia forma di programmazione con una idea di sviluppo generale utile per la collettività ed il trionfo del feroce totem ultraliberista della “centralità del mercato”.

 

Il tutto è avvenuto in una congiuntura politica dove i processi di centralizzazione e concentrazione dei settori più forti della borghesia continentale (annidati attorno al nocciolo duro dell’Unione Europea) hanno favorito e spinto le dinamiche di spoliazione, ridimensionamento e declassamento dell’economia del nostro paese in direzione di una generale svalorizzazione della forza lavoro e della sua qualità salariale, normativa e professionale. Un processo scientificamente pianificato che è stato funzionale alla nuova divisione del lavoro e delle sue filiere lungo tutta la Eurozona in un contesto oggettivo di accelerazione di tutti i fattori della competizione internazionale tra blocchi e potenze globali.

Come siamo arrivati a questo punto?

Il conflitto sociale e la forza del movimento operaio crescevano e quando l’ammortizzatore dello Stato sociale e delle nazionalizzazioni non sono più serviti, il grande capitale nazionale e transnazionale, e quindi anche gli Stati Uniti, hanno giocato in Italia l’arma del terrorismo e del fascismo. Ricordiamo la stagione delle stragi impunite, i tentativi di colpo di Stato. Non c’è un capitalismo buono e uno cattivo. Il capitalismo usa i suoi strumenti in funzione dei rapporti di forza. Quando i rapporti di forza erano positivi per i lavoratori il capitale ha dovuto concedere le nazionalizzazioni e lo Stato sociale. Una volta sconfitto il movimento operaio ha operato una ‘normalizzazione’ cancellando tutte le conquiste strappate attraverso decenni di lotta.

In questo scenario quale è stato il ruolo dell’Unione Europea, una costruzione basata sul neoliberismo?

Il ruolo dell’Unione Europea è quello definito dall’ortodossia neoliberale. L’UE non è nata come luogo dei popoli o per assicurare ai popoli una maggiore democrazia. Questa sta funzionando esattamente per come è stata concepita. La struttura di quella che possiamo definire la gabbia europea è fondata sui trattati che ne rappresentano l’architrave e l’essenza stessa, a partire da quelli di Roma del ’57 fino ad arrivare al famigerato “Fiscal Compact”. Un architrave, quello dei trattati, che ha prodotto un sistema di governo post-democratico negli stati membri con la relativa espulsione della sovranità democratica e popolare, la distruzione dello stato sociale, la privatizzazione dei servizi pubblici, la precarizzazione e flessibilizzazione del lavoro, distruggendo quel diritto al lavoro che crea una “vita degna per sé e per la propria famiglia”, come recitato dalla nostra stessa Costituzione. I trattati, infatti, sono completamente incompatibili con essa, soprattutto con i principi fondamentali che garantiscono stato sociale, salute, tutela dell’ambiente e diritto al lavoro. Da qui si percepisce la grande volontà posta in campo negli ultimi anni per cambiarla, per fondarla sulla libera concorrenza di mercato, anche se in realtà è già stata minata alla radice con la famosa introduzione del pareggio di bilancio, articolo 81. L’attuale formulazione dell’articolo, difatti, impedisce di realizzare politiche economiche espansive, rivolte al bene pubblico, al sociale, fuori dall’egida del profitto e del pareggio di bilancio; cosa di cui incominciamo a vedere le conseguenze con la caduta del ponte Morandi a Genova. Il testo affronta la problematica dell’”Europa a due velocità”, “centro- periferia” che sta ridefinendo i rapporti tra i paesi del centro a guida franco-tedesca e quelli del sud, relegando quest’ultimi ad essere in ultima istanza fornitori di manodopera e servizi perlopiù turistici e di ristorazione.

Una situazione che ha visto i paesi PIGS particolarmente penalizzati.

I paesi cosiddetti PIGS sono stati massacrati attraverso la logica del credito-debito che rafforza la sudditanza dei paesi periferici nei confronti dei paesi del centro. La vicenda greca in tal senso è paradigmatica.

Professore, affrontiamo un tema caldo e spesso agitato come uno spauracchio: l’Italia dovrebbe uscire dall’euro?

È utile ribadire che la questione dell’uscita dall’euro e dall’Unione Europea non è da noi concepita in chiave nazionalista, cioè di generica, impropria, inadeguata e dannosa sovranità nazionale ma ha una dimensione immediatamente di classe perché è un passaggio, se storicamente affrontato da una soggettività politica consapevole e capace di svolgervi una funzione, in grado di porre le basi per una inversione dei rapporti di forza lavoro-capitale nel polo imperialista europeo.

La creazione dell’euro è stata accompagnata dall’intensificazione del mercato unico e dalla divisione europea del lavoro, andando verso una formazione sociale su scala europea – attualmente, un quarto del PIL dei paesi dell’Europolo viene valutata per mezzo del mercato comune e la specializzazione settoriale intraeuropea si trova in una fase di deindustrializzazione accelerata della periferia dell’area. Nonostante questo processo non sia ancora stato completato, la frammentazione monetaria dell’Euro-zona è una possibilità reale, ciò che non lo è, è tornare a monete nazionali che lungi dal rappresentare una sovranità (monetaria) recuperata, non potrebbero non essere che simboli monetari di territori politicamente ed economicamente frammentati e dipendenti dall’area di influenza del capitale europeo. Se i paesi della periferia europea vogliono riprendere il controllo sull’attività produttiva, lo potranno fare solo in modo congiunto e mediante un processo di rottura con il modello delle finanze private e con lo spazio monetario asimmetrico di adesso. L’uscita dall’euro è una opzione politica più che economica e può essere un passo verso la soluzione dei gravi squilibri strutturali delle economie periferiche, che non sono squilibri finanziari, ma produttivi: una base industriale in declino, uno spreco enorme di forza lavoro, una concentrazione scandalosa della ricchezza e del patrimonio. Però come sfida politica generale, supera il grado di autonomia decisionale di qualsiasi paese danneggiato dalla politica che soggiace al patto originario dell’euro.

Uscire dall’euro proponendo una nuova moneta per Paesi con strutture produttive più o meno simili sarebbe l’unica alternativa realizzabile, che permetterebbe sia di mantenere un margine di negoziazione con le istituzioni comunitarie e con la Banca Centrale Europea sia di creare un nuovo blocco politico istituzionale capace di realizzare un modello di accumulazione favorevole ai lavoratori.

 

Quindi c’è vita oltre l’euro e l’Unione Europea…

Riveste, a questo proposito, particolare importanza – per i suoi auspicabili risvolti politico/pratici nei confronti delle lotte popolari e dei movimenti sociali – il Programma di Alternativa di sistema: uscire dalla UE, dall’Euro, costruire l’Area Euromediterranea, recentemente adottato dalla Piattaforma Sociale Eurostop, il quale individua nelle lotte per imporre la Nazionalizzazione dei settori strategici dell’economia un punto programmatico serio e costitutivo per quell’indispensabile accumulo delle forze e strutturazione di un nuovo movimento operaio e popolare in grado di imporre un’altra economia ed una nuova configurazione geo/politica dei popoli del Mediterraneo.

Non bisogna aver paura d’immaginare di valicare il limite dell’esistente. Quindi la necessità di costruire l’Area Euromediterranea per smontare la paura del salto nel buio che quotidianamente ci viene propinato a reti unificate da un’informazione in malafede e spesso ignorante. Per contrastare, inoltre, ed invertire nonché scalzare le presenti e nuove mire neo-coloniali che producono migliaia e migliaia di immigrati ed emigrati, affermando un progetto nel quale l’autodeterminazione dei popoli è la base per un’alleanza internazionalista che non ricada o scambi l’internazionalismo nel globalismo borghese, fatto di genti apolidi che se la prendono sistematicamente con il loro vicino più povero come causa di tutti mali.

 

Per chiudere vorrei chiederle un giudizio sull’attuale governo che ha compiuto alcuni timidi passi in discontinuità con il passato.

Il nostro governo è molto contraddittorio. Dal punto di vista sociale si propongono le nazionalizzazioni, anche di settori strategici e di società come Alitalia. Noi sosteniamo queste nazionalizzazioni. Per questo motivo sabato 20 saremo in piazza per incalzare il governo su questo tema strategico per l’economia italiana. A noi non interessa nulla se siano Di Maio o il Movimento 5 Stelle a proporre le nazionalizzazioni. Le esigiamo come misura necessaria a risollevare le sorti economiche dell’Italia e della popolazione piegata da oltre vent’anni di neoliberismo sfrenato. Così come siamo favorevoli allo sforamento dell’assurdo vincolo di bilancio imposto da Bruxelles per implementare il reddito di cittadinanza ed abolire la legge Fornero. Vigileremo affinché il governo operi per migliorare le condizioni di vita della classe lavoratrice e della popolazione italiana. Dall’altra parte invece ci sono ministri e forze di governo eversive, non solo sovversive. Che non hanno a cuore le sorti del paese né buone relazioni internazionali. In primis la Lega con le sue politiche razziste e xenofobe.

Altro esempio è costituito dalla recente partecipazione del ministro dell’Economia e delle Finanze, Giovanni Tria, a una riunione con altri 14 ministri delle finanze di diversi paesi satelliti di Washington convocata dal Segretario al Tesoro degli Stati Uniti, Steven Terner Mnuchin, per discutere del Venezuela. Un’ingerenza inaccettabile negli affari interni di Caracas. Giovanni Tria, indicato come parte di quell’area ‘grigia’ del governo cosiddetto giallo-verde, che risponde direttamente al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, altro non ha fatto che schierare l’Italia contro un paese sovrano che tra mille difficoltà cerca di superare una difficile congiuntura economica, e vincere una guerra economica senza quartiere scatenata da quella che è, al momento, la prima potenza mondiale. Confermando che il governo di Roma è quantomeno schiacciato sulle posizioni guerrafondaie di Donald Trump.

 

Fatemi dire, infine, che questo paese non ha opposizione. Perché il PD è il primo colpevole di tutte le leggi liberticide, le privatizzazioni e le concessioni alle multinazionali. Pensiamo alle cosiddette liberalizzazioni promosse da Pierluigi Bersani. I criminali bombardamenti effettuati contro la Serbia quando a capo del governo italiano c’era Massimo D’Alema. Questi dirigenti, che hanno svenduto e distrutto la sinistra italiana, hanno spalancato le porte del paese alla Troika. Non hanno alcun legame con la classe operaia e lavoratrice, perché rispondono solamente agli interessi di determinati settori del capitale internazionale.

Questo è un paese che attualmente è senza governo ed opposizione. L’unica opposizione è quella delle strade, l’opposizione è quella dei pochissimi mass-media liberi e indipendenti, e quella di sindacati come l’USB, dei movimenti sociali e di forze come Potere al Popolo che cercano di organizzarsi e darsi una prospettiva. Una prospettiva che insieme a Eurostop e altri movimenti indichiamo nell’uscita da Euro e NATO, per la creazione di un’ALBA Euromediterranea, che abbia come modello l’esperienza latinoamericana. Quindi nazionalizzazioni, sviluppo autodeterminato e democrazia economica a carattere socialista.

 

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