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4 novembre2018

 

"Mai più alla guerra"

di Alfio Nicotra

Un ponte per...

 

C'è un solo titolo con cui dovrebbe essere celebrato il centenario della "vittoria" della I° Guerra Mondiale: "Mai più alla guerra". Ma non sarà il titolo scelto dalle cerimonie ufficiali, né credo, vi si avvicineranno con parole simili. Nonostante una larga storiografia e letteratura abbia descritto in dettaglio gli orrori e le responsabilità delle classi dirigenti dell'epoca, di quella che il Papa Benedetto XV definì "l'Inutile strage".

Basta passeggiare tra le tombe del sacrario di Redipuglia o soffermarsi un attimo a leggere la lista dei caduti scolpita sui marmi dei tanti monumenti in pressoché tutti i comuni d'Italia, per rendersi conto di quanta gioventù venne cancellata in tre anni di guerra di logoramento. E dietro a quei nomi immaginare il dolore di centinaia di migliaia di orfani, vedove e mutilati che la guerra lasciò in eredità.

"Di queste case Non è rimasto Che qualche Brandello di muro Di tanti Che mi corrispondevano Non è rimasto Neppure tanto Ma nel cuore Nessuna croce manca È il mio cuore Il paese più straziato": la stupenda poesia del soldato Giuseppe Ungaretti, "San Martino sul Carso", è probabilmente una delle più profonde testimonianze dei sentimenti diffusi tra i soldati al fronte. Così come ci restituisce quel clima l'intramontabile libro "Un anno sull'altipiano" di Emilio Lussu, da cui magistralmente Francesco Rosi ricavò il suo film "Uomini Contro".

Se poi vogliamo testare le innumerevoli testimonianze dello stato d'animo dei militari in trincea si può attingere a quel pozzo della memoria che è ormai diventato , su geniale intuizione del rimpianto Saverio Tutino, l'Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano. Tra tante lettere e storie lì racchiuse, la descrizione che il semianalfabeta Vincenzo Rabito, un "ragazzo del '99" siciliano spedito al fronte, fa del conflitto, merita sicuramente una menzione.

In particolare l'episodio del soldato austriaco, definito da Rabito come "il triestino", fatto prigioniero il giorno di Natale. Costretto a sentirsi la messa con i suoi carcerieri, alle parole del prete che invocava l'aiuto di Dio per sconfiggere il nemico e vincere la guerra, esplose in una fragorosa risata. "Evidentemente ci sono due "Padreterni" uno austriaco l'altro italiano" disse, avendo il giorno prima udito, dall'altra parte del fronte, un prete austriaco esclamare le stesse parole.

Personalmente ricordo da studente nell'ambito di una ricerca scolastica di aver intervistato un anziano reduce del primo conflitto mondiale ospite in una casa di riposo di via Gioberti a Firenze. "Ne ha uccisi più la spagnola e il freddo – mi disse- che il nemico". Parlò dei geloni ai piedi dovuti agli scarponi di cartone, dei commilitoni portati via dalla morte come acini da un grappolo. Nelle sue parole non c'era niente di retorico o di eroico in termini classici. Eppure per me era un eroe immenso essendo sopravvissuto non solo al nemico ma anche a un governo e ad una Monarchia (ma anche da industriali senza scrupoli) che lo avevano mandato a uccidere e morire senza mezzi e abiti adeguati.

Il legislatore ha provato nella scorsa legislatura a mettere mano, in occasione proprio dei 100 anni dall'inizio del conflitto, a uno degli aspetti più odiosi e controversi della gestione della disciplina militare al fronte e in particolar modo sulla pratica delle decimazioni. Mentre la Camera dei Deputati approvò praticamente all'unanimità il testo proposto dal Pd Giampiero Scanu e dalla deputata M5S Tatiana Basilio, al senato ha trovato un ostacolo insormontabile nell'allora presidente della Commissione Difesa il Pd Nicola Latorre.

Una occasione mancata di restituire un poco di giustizia a tanti, troppi giovani, che vennero assassinati per mano amica nel nome di quel "pugno di ferro" voluto da quel generale Cadorna – poi, dopo Caporetto, sostituito da Armando Diaz- di cui ancora si mantengono troppe caserme, piazze e vie dedicate a suo nome. Almeno allo stato attuale, nessuna forza politica ha pensato di ripresentare il testo della proposta di legge già approvata alla Camera nella scorsa legislatura.

Dispiace anche perché quella legge prevedeva l'apertura agli studiosi di tutti gli archivi delle Forze Armate compresi i carabinieri che, nel loro ruolo di polizia militare, avevano la funzione istituzionale di reprimere eventuali insubordinazioni e di organizzare i plotoni di esecuzione.

La I° Guerra Mondiale inoltre rappresentò un laboratorio dal quale il fascismo attinse a piene mani. Nella cosiddetta "mobilitazione industriale", con la quale si militarizzava la nostra economia, si sperimentò la sospensione del diritto di sciopero e delle attività sindacali che poi il regime di Mussolini rese permanente. Analogamente le pagine imbiancate con cui usciva "l'Avanti" a causa della censura, fu poi dal fascismo resa a sistema con il controllo della comunicazione e, in particolare, della libertà di espressione, di pensiero, di parola e di stampa.

La I° Guerra mondiale contribuì inoltre ad accentuare la divisione tra gli operai mobilitati nella produzione bellica (in larga parte al Nord) e i contadini del Sud costretti alla guerra di trincea al fronte.

Quanto alla I° Guerra mondiale come compimento del Risorgimento e dell'Unità d'Italia gli storici non hanno dato una rappresentazione univoca. In particolare la scelta di aggirare il parlamento, largamente contrario al conflitto, e il cambio repentino di alleanze internazionali dell'Italia, dall'Intensa con gli Imperi Centrali alla Triplice Intesa con il Patto di Londra, rimane uno degli episodi che evidenziano il sostanziale disprezzo verso la democrazia da parte di Vittorio Emanuele III e di Casa Savoia.

L'irrisione con cui gli interventisti presero di mira la famosa frase di Giovanni Giolitti "con la neutralità l'Italia potrà ottenere parecchio", è lì a dimostrare che forse era veramente possibile ottenere l'unità d'Italia senza partecipare alla carneficina mondiale.

Come un effetto a catena, la I° guerra mondiale si portò dietro una retorica militarista che tracimò nell'avventura totalitaria, nelle guerre coloniali (in cui l'Italia utilizzò massicciamente l'uso dei gas che fecero il proprio esordio in Europa durante il primo conflitto mondiale) e infine con la partecipazione dell'Italia alla II° Guerra Mondiale (anche qui, come per la prima, con una coltellata alla schiena, questa volta della Francia).

A differenza del primo dopoguerra, il secondo dopoguerra, volle costruire un sistema di relazioni internazionali basato sui principi dei diritti dell'uomo e della pace tra le nazioni. I Costituenti in Italia, vollero palesare, con parole inequivoche la propria distanza dalla guerra "come soluzione delle controversie internazionali e come offesa alla libertà degli altri popoli". Scrissero nell'art.11 volutamente la parola "ripudia" e non semplicemente la parola "rifiuta". Perché si ripudia un figlio, una moglie, un padre o un fratello, si ripudia cioè colui con il quale si ha un rapporto di sangue. L'idea stessa, che rischia ancora di far capolino nelle ricorrenze e nella retorica militare di questi giorni, di una guerra buona e giusta (la prima appunto) e di una sbagliata e ingiusta (la seconda), dovrebbe essere invece definitivamente essere bandita.

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