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20 novembre 2018

 

L’illusione sovranista

Salvatore Cannavò

vicedirettore de Il Fatto quotidiano e direttore editoriale di Edizioni Alegre

 

l tentativo di costruire una nuova sovranità democratica e popolare affascina una parte della sinistra. Ma la nazione come terreno privilegiato dell’azione politica offre troppe ambiguità. Invece di rivendicare confini servirebbe parlare di autogoverno e democrazia. 

Con il suo ultimo libro, Sovranismi Alessandro Somma, docente del diritto comparato all’università di Ferrara, autore di diversi libri sul tema (da Rottamare Maastricht alla Dittatura dello spread, tutti per Derive Approdi), continua il percorso che aveva intrapreso in lavori precedenti: costruire una teorizzazione democratica e di sinistra del sovranismo. Compito impegnativo, che gli vale l’attenzione di una parte della sinistra italiana come dimostra la presentazione del libro alla Camera organizzata da Patria e Costituzione, la formazione creata dal deputato Stefano Fassina, già Pd ed eletto con Liberi e Uguali, in cui si immagina di costruire una risposta più efficace ai diktat europeisti. E di sfidare con migliori argomenti la forza populista e nazionalista rappresentata da Lega e M5S.

Scopo del libro, come evidenziato già nelle prime pagine, è quello di disegnare «una via democratica al recupero della sovranità nazionale» evitando di «lasciare alle destre la riflessione su questi aspetti». Per farlo, da buon docente di diritto Somma àncora il concetto di sovranità nazionale alla Costituzione, ricorrendo al principio della «sovranità nello Stato» cui fanno riferimento le costituzioni moderne. La Costituzione italiana, scrive, enuncia molto chiaramente elementi di sovranità popolare tramite alcuni dei suoi articoli principali. Stabilisce «il suffragio universale per l’elezione della Camera (art. 56) e del Senato (art. 58)», si precisa che «ogni membro del parlamento rappresenta la nazione (art. 67)», sancisce che la «giustizia è amministrata in nome del popolo art. 101», fino ad arrivare a diritti squisitamente politici come associarsi in partiti e «concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale (art. 49)» o richiedere referendum per abrogare leggi (art. 75). Ma la «sovranità nello Stato» presuppone anche la «sovranità dello Stato». Quest’ultima è attualmente vincolata, limitata e condizionata da una sovranità superiore, quella europea, che nel modo in cui è stata costruita travalica il diritto internazionale così come è stato costruito in ambito Onu, dove la partecipazione a organismi internazionali trova il suo fondamento e il limite nella sovranità degli stati. Con l’Unione europea questi limiti sono oltrepassati e divelti in una costruzione che Somma giudica «irriformabile». Occorre dunque un sovranismo «democratico» e «sociale» con il ritorno ai confini nazionali per «ripristinare i controlli sulla circolazione dei fattori produttivi»: capitali innanzitutto, ma anche merci e, aggiunge l’autore, persone definendo «insidiosa» la loro libera circolazione. «Rinazionalizzare le politiche economiche» è il «presupposto irrinunciabile per riattivare la sovranità popolare» in una prospettiva che si vorrebbe comunque non «nazionalista» ma ancora europeista e fondata sulla democrazia economica. Somma cerca più volte di mettere a contrasto la sovranità e il nazionalismo, sintomo di un problema che viene avvertito, quello di sovrapporre la rivendicazione sociale e democratica con gli impulsi che muovono il moderno populismo nazionalista.

Polanyi e il doppio movimento

Il libro è interessante anche per il recupero delle intuizioni di Karl Polanyi. In particolare per il riferimento alla categoria del «doppio movimento» che caratterizza il capitalismo moderno tramite l’oscillazione tra la spinta al mercato autoregolato, e quindi al liberismo senza freni e, ancora, a una dinamica «cosmopolitica», contro la tendenza alla «politicizzazione del mercato», al ritorno alla dimensione nazionale come strumento di protezione sociale. È questa oscillazione che nel caso del ventennio tra il 1920 e il 1940, ha rappresentato un momento drammatico della storia europea.

La categoria di Polanyi offre un’utile sintesi politica dei movimenti economici e sociali. Ma sarebbe interessante affiancarla con un’altra strumentazione in grado di leggere lo sviluppo capitalistico che potremmo definire un altro «doppio movimento». Da una parte c’è l’andamento del processo di accumulazione capitalistico, a partire dalla curva dei tassi di profitti, dei cicli di sovrapproduzione che spiegano gli andamenti espansivi e recessivi e che sono importanti dal punto di vista storico. Si pensi all’ esaurimento progressivo dei margini di profitto e al ruolo del debito come strumento di sostegno dell’accumulazione o all’erosione del compromesso keynesiano e, ancora, al ruolo degli Stati come regolatori del neoliberismo, analisi quest’ultima ben interpretata da Pierre Dardot e Christian Laval ne La nuova ragione del mondo e che lo stesso Somma non sottovaluta.

D’altra parte, l’altro movimento importante da leggere è quello della lotta di classe. Gli avanzamenti, gli arretramenti, le conquiste e le sconfitte, il senso di sé, la consapevolezza da parte di un moderno proletariato, costituirebbero un secondo movimento utile a collocare in una prospettiva più ampia e interessata dal punto di vista di sinistra, l’obiettivo di «una via democratica al recupero della sovranità nazionale» evitando che questo terreno sia battuto solo dalle destre.

Il modello Trump

Solo così, andando oltre Polanyi, si può cogliere che la dimensione nazionale come contrasto del mercato autoregolato costituisce lo sbocco della lunga fase neoliberista e della sua crisi e che questo declino non corrisponde automaticamente a un ritorno alla fase “gloriosa” del compromesso keynesiano, ma a una nuova fase, in parte non definibile – e quindi l’uso del termine populismo nelle più varie accezioni – di matrice nazionalista. Chiusura delle frontiere, ritorno dei dazi, protezionismo economico, misure gestite da forze politiche non di sinistra e quindi da uno stato che sceglie il profilo autoritario, come spiega bene il modello Donald, e si mette al servizio del neoliberismo stesso. Si guardi all’esperienza italiana recente: le spinte sociali al massimo arrivano a una funzione assistenziale o caritatevole dello stato (reddito di povertà) senza mettere in discussione gli assetti neoliberisti. Il rilancio del dibattito sulle privatizzazioni lo dimostra ampiamente.

Questo risultato, che dalla crisi neoliberista sfocia in un liberismo nazionalista, si spiega ovviamente a partire dalla crisi epocale della sinistra liberale che dopo l’illusoria ascesa degli anni Novanta ha conosciuto solo disfatte che, a loro volta, hanno prodotto demoralizzazione e disgregazione sociale. La scomparsa dei socialisti in Francia, il declino socialdemocratico in Germania, la parabola renziana in Italia, la tragedia brasiliana, in cui gli errori del Pt si combinano con il ritorno della destra reazionaria, stanno lì a confermare i danni prodotti dall’illusione liberale e dallo snaturamento delle caratteristiche di fondo della sinistra storica. La sua ritirata – che non costituisce l’oggetto di questo articolo – è un elemento chiave per comprendere l’ascesa del populismo nazionalista.

L’Ue non riformabile

Questa soggettività ha avuto gioco facile ad affermarsi in seguito al sostanziale fallimento dell’opzione europeista. Su questo punto non ci sono dubbi. L’Unione europea ancora negli anni 2000 sembrava delineare il futuro continentale e che, nonostante le sue strettoie, sembrava promettere un orizzonte di prosperità e benessere. Ma dopo la crisi scoppiata nel 2008 e mai finita, ha iniziato un processo di crisi e lacerazione in cui  il “si salvi chi può” degli Stati ha fatto premio sulla solidarietà inter-statale e i sistemi di potere dei singoli paesi, pure proiettati su un mercato mondiale, hanno chiesto, ognuno al proprio Stato, di fare il proprio dovere: mettere al sicuro il proprio capitalismo minacciato dalla crisi. Salvataggio delle banche, crescita dei debiti nazionali, politiche di supporto alle esportazioni sono stati gli imperativi che i paesi egemoni, Germania in testa, hanno scaricato sui loro alleati. L’Unione ha cessato di essere uno schema di gioco possibile se non nella forma, probabile e non certa, di una entità a misura della Germania e quindi del nocciolo duro che da questa potrebbe sorgere. Ipotesi quanto mai incerta viste le difficoltà della Grosse Koalition e la crisi durevole della Spd. È vero, dunque, che questa Ue non è riformabile e che il gioco dello strappare risultati al tavolo del Consiglio europeo non possa essere perseguibile da una politica di sinistra. In una opzione europeista di tipo nuovo, bisognerebbe pretendere l’azzeramento dei trattati e ridiscutere da capo.

Per questa ragione non fa scandalo neppure l’ipotesi di non essere più nell’euro. Solo , appunto, “non essere più” è un po’ diverso da dichiarare di vole “uscire” perché indica un posizionamento diverso. Il caso della Grecia di Tsipras insegna che se si vuole giocare una partita vincente contro lo strapotere dei parametri dei trattati, occorre essere disposti ad andare fino in fondo. Disposti, cioè, a mettere nel conto anche la non adesione alla moneta unica e quindi ad attrezzarsi per reggere allo scontro. È quella l’unica pistola carica che un governo di sinistra può poggiare sul tavolo nel momento in cui va alla trattativa. Sapendo che non è una soluzione facile e che l’idea della svalutazione competitiva che ne può derivare, non è immediatamente risolutiva della crisi di fiducia nel sistema bancario e dell’impoverimento salariale. Prepararsi a reggere l’urto di una esternità all’euro, cosa che la Grecia non ha fatto, disegna una traiettoria simbolica, e quindi politica, diversa dall’annunciare l’uscita in nome di un ritorno alla sovranità nazionale che porta con sé l’intero apparato ideologico del moderno nazionalismo.

Qui veniamo alle divergenze con il testo. La proposta, abbiamo visto, è la dimensione nazionale come terreno per recuperare sovranità democratica, anzi una sovranità sociale, e luogo di azione per una politicizzazione del mercato. Del resto, cosa altro c’è a disposizione della politica se non gli stati nazionali? Non fu forse improvvida la categoria dell’Impero elaborata da Toni Negri e Michael Hardt all’inizio degli anni 2000 e, non a caso, corretta nelle elaborazioni successive?

La nazione è di sinistra?

Ma la dimensione nazionale non può essere banalizzata, la sinistra non può non vedere che su questo terreno si è giocata anche una partita a perdere. Può essere facile richiamare gli anni Venti del Novecento, il fascismo e il nazismo. È l’argomento più utilizzato dalla sinistra targata Pd per contrastare il populismo leghista e, in parte, quello del M5S. Sarebbe facile attestarsi a questa critica, ma la discussione è più complessa. Per molti la nazione è naturalmente progressista, nasce con la Rivoluzione francese che ne fa un concetto costituente. Eppure quanta amarezza si riscontra nel Lucien Fevre della Storia d’Europa quando constata che proprio quella categoria di “nazione” si incaricherà, nella sua realizzazione ottocentesca, di distruggere il sogno europeista incubato dal Settecento. Il punto è che la nazione diventa un concetto di cui si appropria la borghesia capitalista in rapida ascesa nell’Ottocento e sulla cui base vengono fondate le imprese coloniali e poi l’imperialismo, come coglie con grande nettezza Lenin nel suo Imperialismo.

Le rivoluzioni progressiste, e comuniste, si sono certamente svolte attorno e dentro la nazione ma, citiamo ancora Lenin, quanta ansia riponevano i rivoluzionari russi nell’imminente scoppio rivoluzionario in Germania (che poi non avvenne)? L’obiettivo della conquista del potere statale, in un contesto di isolamento ha portato ripetutamente a sovrapporre il tema della statualità con quello della nazionalità cercando nella seconda dimensione un involucro protettivo delle difficoltà della prima. Le scommesse nazionali anche hanno incubato e alimentato una soluzione di progressista e rivoluzionaria, sono state deficitarie sul fronte della partecipazione democratica e, infine, su quello dello scontro con un capitalismo che, Impero o no, resta comunque globale e multinazionale.

L’intuizione più significativa e pregnante di Marx é stata proprio quella sulla dimensione internazionale del capitale. Senza tornare al dibattito sul «socialismo in un paese solo», le esperienze recenti dell’America latina, il nuovo «socialismo del XXI secolo», nel loro rimanere chiuse nei confini nazionali, magari sperimentando forme di sovranità democratica, alla fine non hanno retto al confronto con gli equilibri internazionali. L’economia del «petrolio in un paese solo» non ha permesso al Venezuela di sostenere la democrazia. Ha perso anche il compromesso keynesiano con il suo welfare state che, anche per evidente responsabilità dei dirigenti socialdemocratici, non ha retto allo scontro generale con il “movimento” del capitale.

La nazione, come luogo di azione politica, come campo di gioco, è un terreno scivoloso per una ragione di fondo: rappresenta una dimensione che cementa una identità omogenea e “liscia” in cui le increspature e le differenze, soprattutto quelle di classe, passano in second’ordine. Il popolo e il territorio prevalgono su tutto il resto, soprattutto in fase di crisi. Una identità in cui il tutto non prevede un “fuori” e tutto quello che si pone “fuori” rischia di scivolare rapidamente nelle categorie del traditore o del diverso: anomalie che al massimo vanno circoscritte e guardate a vista, certo non comprese nel discorso nazionale. Il termine sovranismo si sposa con le visioni nazionaliste di destra e distorce la categoria ben più ricca e dirimente della sovranità. Per questo quella sovranista diventa una narrazione difficile da maneggiare. Ecco perché la distinzione tra “uscire dall’euro” e “non essere più nell’euro”, dove la prima indica una strategia nazionalista e protezionista e la seconda esprime una sfida e di uno scontro che si è disposti ad accettare. Una questione di narrazione per costruire una identità diversa e aggregare un diverso popolo.

Nazione e migranti

La nazione ha costituito alla lunga un ostacolo al movimento della lotta di classe e si è invece sintonizzata più facilmente sul movimento del capitale. Questo limite si vede principalmente sul tema più delicato di tutti, quello dell’immigrazione. Il libro parla delle migrazioni come di una «insidia»: questo è estremamente pericoloso. Perché la dinamica migratoria si inscrive oggi in una dinamica più ampia dello scontro di classe. Non si tratta solo di agitare temi, pure importanti, di civiltà e di umanità da contrapporre al razzismo e all’odio (ma che comunque a sinistra hanno un peso rilevante). A una sinistra che voglia stare dalla parte del lavoro contro il capitale non può sfuggire che i migranti sono il prodotto di un ordine mondiale al servizio della divisione interna alla classe.

Se siamo d’accordo su questo, la soluzione passa per una strada obbligata: costruire l’unità tra queste figure del lavoro e dello sfruttamento, non la contrapposizione. È esattamente quello che Marx rimproverava ai lavoratori inglesi quando se la prendevano con quelli irlandesi. Riprendiamo la citazione che Mauro Vanettiusa per smontare le banalizzazioni di Diego Fusaro: «Questo antagonismo viene alimentato artificialmente e accresciuto dalla stampa, dal pulpito, dai giornali umoristici, insomma con tutti i mezzi a disposizione delle classi dominanti. Questo antagonismo è il segreto dell’impotenza della classe operaia inglese, a dispetto della sua organizzazione. Esso è il segreto della conservazione del potere da parte della classe capitalistica. E quest’ultima lo sa benissimo» (Lettera di Marx a Meyer e Vogt 1870)

Non è un caso, insomma, se il tema dell’immigrazione si inserisce spesso in questa discussione e spesso la inquina. Perché la nazionalità come viatico all’espansione della democrazia è un terreno scivoloso, forse un’illusione dal punto di vista dei fatti storici.

Una comune illusione

Alla illusione sovranista, dunque, si può tranquillamente opporre una prospettiva che in molti giudicheranno altrettanto illusoria: un internazionalismo in cui inverare forme nuove di sovranità democratica. Si può infatti convenire che occorra alimentare una sovranità basata sulla partecipazione, una sovranità popolare che ecceda le istituzioni dello stato e che, almeno, valorizzi al massimo quanto, ad esempio, è contenuto nella nostra Costituzione. Ma più che sovranità, storicamente riferita ad aggregati composti da uomini bianchi, è forse preferibile parlare  di democrazia dell’autogoverno per una effettiva autodeterminazione nelle scelte e negli orientamenti di fondo con formule miste di democrazia diretta e rappresentativa o in modo da garantire, per dirla con l’autore, una «partecipazione continua». Democrazia animata da una identità di classe in grado di rompere con gli equilibri del capitalismo e delle sue attuali manifestazioni.

Questa modalità potrebbe essere rivendicata anche su scala sovranazionale, almeno europea, nelle forme possibili e non certamente dentro le istituzioni di questa Unione. È un orizzonte fedele a quello che fu il movimento altermondialista e che può apparire illusorio solo perché mancano i soggetti sulle cui gambe potrebbe marciare. Ma è una strada che protegge e rappresenta di più i valori di fondo che ci interessa affermare, la prospettiva di un confronto serrato e possibilmente vincente con il movimento del capitale, all’altezza della globalizzazione di merci, capitali e lavoratori e capace di raccogliere la sfida di una sovranità democratica e partecipata.

 

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