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7 gennaio 2018

 

Ci sono un liberale, un fascista e un comunista

di Matteo Persico

 

In televisione, nei giornali e in radio: ogni discorso politico verte su questi tre signori. Ma siamo davvero sicuri ci sia una qualche differenza sostanziale?

 

Dall’incipit sembra quasi di sentire una barzelletta, una di quelle che fa ridere gli anziani ma a noi, che la sentiamo ininterrottamente da troppi anni, non fa altro che nausearci. “Ci sono un liberale, un fascista e un comunista” rappresenta il minimo comune denominatore di ogni discorso politico che si sente fare sui giornali e sulle televisioni di questo nostro belpaese. Che sia La7, che sia la Rai, sentirete solo liberali e comunisti inveire contro i fascisti perché negano diritti e libertà, fascisti che attaccano comunisti e liberali perché traditori della patria, comunisti che si infervorano perché la loro rivoluzione è senza dubbio quella con la maggiore dignità politica.

È così che il teatrino parossistico viene allestito ogni mattino in tutte le televisioni italiane, da qui a quando è nata la televisione stessa. Un tutti contro tutti che s’impone solo per gli starnazzi e i gridolini, i cui decibel superano troppe volte il limite consentito dal buon costume. Peccato che la realtà sia ben diversa ed è ciò di cui oggi vorremmo occuparci. Il presupposto è tale: più che litigare ed urlarsi contro con quanto fiato hanno in gola, i tre protagonisti dovrebbero baciarsi sulla bocca con la passione di due universitari alla prima sbronza. Perché quei tre signori lì, per quante ingiurie si siano diretti e per quante cattiverie continuino insistentemente a rivolgersi, sono in verità amanti il cui matrimonio ha superato ormai da tempo le nozze di platino. Liberale, fascista, comunista: c’è forse una qualche differenza sostanziale?

 

Ma scendiamo ora nel dettaglio. Occupiamoci anzitutto degli amici liberali e dei loro tanti difettucci. Per spiegare al meglio le nostre ragioni ci vediamo costretti a partire da una precisazione necessaria attorno al concetto di libertà. La libertà di cui il liberista si erge a paladino è una libertà di tipo individuale e materiale. Nella visione liberale la libertà consiste nella possibilità di ciascuno di perseguire (anche egoisticamente, perché no) il proprio fine materiale. Alla libertà individualisticamente intesa, si oppone la libertà spirituale: essa trascende la materialità e permette allo spirito di compiersi in una dimensione che non appartiene alla mera immanenza materialistica. In parole povere, una libertà che permette al soggetto di avere un obiettivo esistenziale diverso dal sanare il mutuo della casa o acquistare la tanto bramata Mercedes Classe C.

La tendenza, nel secolo appena concluso, è stata spesso quella di tacciare di intellettualismo degno del peggior idealista ottocentesco chi osasse difendere il tema della libertà spirituale. E allora via! Tutti di corsa ad occuparsi solo di materialismo e materialità, di economia e nient’altro che economia. Che poi, per carità, nessuno vuole mettere in dubbio che l’economia sia un tassello immancabile nel raggiungimento della libertà spirituale, è forse il primo di una lunga serie di passi in grado di condurci ad essa. Tuttavia fermarsi al solo materialismo significa arrendersi al primo gradino, dove il gioco non vale più la candela e diviene fine a se stesso. Questo è il grande limite delle teorie liberali, sia economiche che morali. Il puntare sul solo materialismo egoistico non ha fatto altro che esacerbare una situazione già di per sé critica, riducendo l’economia al solo tornaconto personale e appiattendo la moralità ai capricci dei desideri libidici dell’individuo.

 

La libertà liberale diviene allora libertà economica priva di libertà morale, una libertà priva di un valore intrinseco. Eppure i liberali hanno provato più e più volte a convincere il popolo del contrario, cercando di instillare l’idea che esista un’analogia diretta tra moderazione democratica, ragionevolezza illuministica e liberalismo.Votate moderato per salvare la democrazia e le libertà, questo è lo slogan. Ma quali libertà? Lelibertà economiche dell’uomo liberale, dell’Homo Oeconomicus. Purtroppo è triste constatare che, come rilevato poco fa, il gioco non valga la candela. Salvare e salvaguardare le libertà economiche di un popolo che spesso ne è totalmente sprovvisto, si traduce nel tentativo di preservare i privilegi di una parte della popolazione (classe, ordine o categoria che sia). Chi è povero resta povero, chi è ricco resta ricco. Ma anche in questo caso non è tutto oro quel che luccica. A rimetterci non sono solo i poveri sprovvisti a priori delle libertà economiche, perfino i ricchi non traggono tutti i vantaggi promessi dal materialismo ortodosso.

Già Verga anticipò questa deriva quando, nel descrivere la morte di Mazzarò nel Mastro Don Gesualdo, affermò lapidario che la proprietà non muore con la morte dell’individuo e non vive della sola vita dell’individuo. Ed ecco nuovamente Mazzarò che quando gli dissero che era tempo di lasciare la sua Roba (proprietà privata), per pensare all’anima, uscì nel cortile come un pazzo, barcollando, […] e strillava: roba mia, vientene con me! Dunque la libertà liberale è il tentativo vano di distrarre l’individuo delle classi privilegiate dall’angoscia esistenziale di Heideggeriana memoria. Nella democrazia odierna, il liberalismo della destra e della sinistra promette. Promette di preservare le libertà (economiche) di tutti, dei poveri che pensano di esserne provvisti ma che in realtà non ne hanno, dei ricchi che lentamente appassiscono convinti di non dover nutrire il proprio spirito perché già sazi delle loro ricchezze.

 

Una delle accuse che più spesso viene mossa dai liberali è diretta ai cosiddetti fascisti (o quel che ne resta). Anche in questo caso va presupposta una considerazione: bisogna chiedersi a quali fascisti siano dirette le plurime accuse di violazione delle libertà. I liberali attaccano i fascisti nostalgici di quello che fu il fascismo reale, o attaccano tutti i fascisti, inclusi quelli di matrice social-rivoluzionaria? La risposta è semplice: non importa. Il grado di ignoranza raggiunta dalla politica e dalla società civile contemporanea non permette quelle diversificazioni che renderebbero la discussione più utile ed efficace. Dunque i liberali attaccano il fascismo in quanto tale, ignari del fatto che un fascismo in quanto tale non esiste. Tuttavia, per una questione di comodità, anche noi intenderemo come fascisti i soli gruppi di nostalgici della politica mussoliniana.

Come già rilevato da Antonio Gramsci, le veementi critiche liberali contro il fascismo mussoliniano rappresentano uno dei più grandi cortocircuiti della storia. I liberali che criticano il fascismo sono grossomodo i liberali che criticano loro stessi. Sotto la definizione di Rivoluzione passiva, Gramsci identificò immediatamente la vera natura del fascismo mussoliniano: preservare l’egemonia della classe dominante davanti alle scosse rivoluzionarie dei movimenti progressisti. Il fascismo aveva quindi in primissimo luogo un fine di polizia, inteso come “controllo” e “coercizione”, a livello politico quanto a livello economico. Nel tentativo di apportare trasformazioni alla struttura economica, il fascismo non modifica le gerarchie sociali vigenti; si trova dunque a dover mediare tra due istanze, attuando una forma di compromesso, dove a spuntarla erano soprattutto i grandi gruppi industriali i cui cartelli e monopoli non furono mai veramente messi in discussione.

 

Un’anima liberale dunque si ergeva nel cuore del fascismo più nero, un’anima liberale che diviene tangibilissima se leggiamo il documento della Carta del Lavoro, entrata in vigore nel 1927. Nella fattispecie, il carattere fortemente liberale delle politiche fasciste si rende evidente nell’articolo IX, che recita:

l’intervento dello Stato nella produzione economica ha luogo soltanto quando manchi o sia insufficiente l’iniziativa privata, o quando siano in gioco interessi politici dello Stato. Tale intervento può assumere la forma del controllo, dell’incoraggiamento o della gestione diretta.

Un testo simile è quanto mai contraddittorio per una forza politica che aveva propagandato in lungo e in largo la possibilità di una Terza Via che non fosse né liberale né bolscevica. Di caratteri comunisti qui non ve n’è l’ombra, questo va ammesso, ma dei caratteri liberali non si può dire lo stesso. L’iniziativa privata non solo non subisce un ridimensionamento, ma viene quasi assunta come presupposto stesso dello stato fascista.

L’ideale fascista si era inizialmente prefissato di unire individuo e Stato come fossero una cosa sola, abbattendo così la distanza tra società civile e Stato, tra particolare e universale. Dopotutto era proprio questo il sogno della filosofia attualista di Gentile che, per lungo tempo, aveva condizionato la gran parte degli intellettuali di regime. Il fascismo aveva inoltre promesso che tale unificazione di individuo e Stato si sarebbe ottenuta non per mezzo dello Stato totalitario, soluzione promossa dai bolscevichi che tanto metteva paura agli industriali, ma per mezzo della corporazione.

 

Dunque non l’individuo che sovrasta lo Stato come nel liberalismo, non lo Stato che surclassa l’individuo come nel comunismo di stampo sovietico, ma un rapporto di simbiotica parità e unità tra i due estremi. Come sappiamo, il sogno fascista cadde in un nulla di fatto con il fallimento dell’esperimento corporativista, il quale fallì proprio per la netta preferenza del fascismo nei confronti del liberalismo industriale. Per unire individuo e Stato il fascismo avrebbe dovuto annullare del tutto le spinte egoistiche dell’individuo, le quali trovano la loro causa primaria nella proprietà privata. Tuttavia, per poter abolire la proprietà privata, sarebbe stato necessario uno Stato simile a quello bolscevico, capace di annullare la proprietà privata con un atto di forza. Ciò avrebbe fatto ricadere il fascismo nell’aporia dello Stato totalitario il quale, più che abolire la proprietà privata, finisce per divenire detentore unico della stessa.

Tornando a noi, ora possiamo capire il motivo per cui le accuse dei liberali ai fascisti siano prive di fondamento. Nel suo vano tentativo di risanare il rapporto individuo/Stato, il fascismo non ha fatto altro che scivolare in un vortice di concessioni sempre maggiori verso le classi dominanti che lo hanno condotto, dopo diversi anni, ad una perfetta identificazione con il mondo industriale. Le libertà economiche delle classi dominanti, che tanto stanno a cuore ai liberali, non furono mai messe in discussione dal fascismo durante tutto il ventennio. Quei rari casi di opposizione alla deriva liberale e liberista, come ad esempio la teoria corporativista della Corporazione proprietaria di Ugo Spirito e Arnaldo Volpicelli, vennero tacciati di andare “oltre” il corporativismo fascista e di eccedere nel comunismo.

 

Proprio nei confronti del comunismo vorremmo dirigere le nostre ultime attenzioni. La sua presunta superiorità morale rispetto a qualsiasi altra teoria economico-filosofica ha sempre spinto i suoi sostenitori a ritenerla la soluzione a tutti i mali del mondo provocati dal liberismo e dall’egemonia borghese. Per contro, i liberali (ma non solo loro) non appena sentono parlare di comunismo iniziano a tremare come foglie e ad invocare l’anima dei grandi del liberismo, da Smith a Ricardo, affinché li proteggano. Insomma, vanno nel panico. L’ideale comunista, che per la serietà con cui viene discusso dai comunisti e temuto dai liberisti non è mai stato evidentemente giudicato una vera e propria utopia priva di fondamento, sollecita gli animi di tutti gli schieramenti, generando un vortice di amore/odio senza precedenti.

Quello che molti però ignorano è un fatto evidente: come il fascismo, anche il comunismo non è altro che un figlio illegittimo del liberismo la cui eredità, suo malgrado, continua tutt’oggi a pesargli sulle spalle. Per approfondire meglio questa teoria (che per alcuni risulterà senz’altro una provocazione) dobbiamo tornare ai primi del ‘900, quando si accese il dibattito su una delle teorie più importanti avanzate dal mondo liberale: la teoria dell’homo oeconomicus. In economia liberale, l’homo oeconomicus è un soggetto astratto dotato di una razionalità perfetta (intesa come precisione nel calcolare spese e guadagni) che la applica solo in vista del raggiungimento e della cura dei suoi interessi individuali. In altre parole, l’homo oeconomicus è un uomo dotato di una grande capacità di calcolo che ha come unico fine quello di ottenere egoisticamente il massimo del proprio interesse personale.

 

Questo, secondo le teorie classiche dell’economia, è l’unico modello di uomo esistente. In ogni era, in ogni epoca e in ogni secolo non è mai esistito altro uomo all’infuori di questo. Accettata quasi all’unanimità nell’800 (ad eccezione dei pensatori socialisti), nei primi anni del ‘900 iniziano a montare fortissime accuse contro questa controversa teoria.Tra i critici dell’homo oeconomicus si annoverano ovviamente anche i comunisti, la cui posizione può essere riassunta nel giudizio espresso nei Quaderni da Gramsci. Secondo il filosofo sardo, l’homo oeconomicus è una teoria che ha una sua validità, l’unico errore dei liberali è di averla eternizzata. L’homo oeconomicus esiste, ma solo in questa epoca, sarebbe un errore ritenere l’uomo intrinsecamente egoista e borghese.

Dunque l’homo oeconomicus viene rigettato dai comunisti a livello contenutistico (il suo essere intrinsecamente egoistico) e per il suo carattere assoluto. Per il resto viene accettato. Potremmo aggiungere, senza fare torto a nessuno, che l’homo oeconomicus è una similitudine di ciò che nel lessico marxista viene definito rapporto di produzione. L’homo oeconomicus rappresenta quindi l’insieme dei rapporti che regolano l’economia (struttura) in questo preciso momento storico e che il comunismo ha intenzione di soppiantare. Potremmo riassumere tutto il discorso con una frase emblematica: ogni società ha il suo homo oeconomicus. Ricordate bene questa affermazione, sarà di vitale importanza per il proseguo del nostro ragionamento.

 

A differenza di alcuni filosofi “spiritualisti”, legati più alla classica filosofia idealista “di destra”, i comunisti non negano mai in toto il valore dell’homo oeconomicus. Esiste, ma non è sempre stato egoista. Sorge spontanea una domanda: perché mai tutta questa cura, da parte di Gramsci e dei teorici del comunismo, nella difesa, seppur con qualche modifica, di una teoria ultra-liberale? Semplicemente perché se non si accetta anche solo a livello formale l’homo oeconomicus, viene meno qualsiasi sostegno alla teoria marxista del materialismo storico. Affermare, come fa Ugo Spirito e altri filosofi di estrazione attualista, che l’uomo non è primariamente “economico” e ha soprattutto interessi non materiali, significa invalidare tutto il marxismo. Significa altresì affermare che tutta la dialettica storica non si basa solo, come aveva detto Marx, sulla lotta di classe per l’egemonia della struttura, ma che deve tener conto primariamente di qualche altro elemento. L’homo oeconomicus nella versione gramsciana, come similitudine dei rapporti di produzione, è ciò che invece permette di mantenere integra l’idea di frazionamento della società civile e quindi della lotta di classe come unico vero motore del movimento dialettico della storia.

È a questo punto che però sorgono i problemi che invalidano tutta la teoria marxista. Il frazionamento della società civile e l’identità di classe che vengono presupposti dal marxismo, implicano l’idea che ogni classe sia individualmente unica e diversa dalle altre (altrimenti non ci sarebbe identità di classe). Risulta palese come le considerazioni liberiste sull’unicità dell’individuo sopravvivano all’interno della lotta di classe, dove non si cerca di annullare l’individualità nella totalità. Anzi, la totalità della società civile viene portata a ulteriore frammentazione all’interno della lotta. Tuttavia, ed è qui che avviene un ulteriore errore dettato dalla superbia, i marxisti ritengono che il proletariato, una volta giunto al potere, rinuncerà all’egemonia conquistata con la rivoluzione per liberare ogni individuo dalle iniquità dello Stato. Ma ciò è impossibile, ed è reso impossibile proprio da uno dei presupposti del materialismo storico: l’homo oeconomicus.

 

L’uomo primariamente “economico” non ha e non potrà mai avere la forza di rinunciare al potere e all’interesse, perché l’homo oeconomicus è inscindibile dalla sua realtà egoistica, è esso stesso l’interesse economico. La pretesa dei marxisti di “tenere buona” una delle teoria economiche che sono alla base del liberalismo classico, non ha fatto altro che minare nelle fondamenta lo stesso marxismo, esponendolo alla mercè dei pericoli legati all’individualità, su tutti la proprietà privata. È il caso infine di soffermarci su questo ultimo punto: poiché nel materialismo storico all’uomo appartengono anzitutto solo caratteri economici, e poiché i caratteri dell’individualismo liberale vengono preservati nell’identità di classe e nella lotta di classe, allora il modello di uomo “comunista” sarà del tutto impossibilitato a rinunciare alla proprietà privata, visto che egli stesso, in quanto uomo “economico”, è la proprietà privata. Da qui, da questo piccolo particolare teorico, derivano tutti i fallimenti del comunismo reale, dal comunismo sovietico a quello cinese. Quest’ultimo è anzi la più grande prova “vivente” della profonda anima “liberale classica” del comunismo, dove la proprietà privata non viene distrutta ma viene solo soppressa momentaneamente nel momento rivoluzionario per poi uscire fuori nuovamente, più amplificata che mai, nella  fase dittatoriale ma concentrata nelle mani di una piccolissima fetta di popolazione.

L’unico uomo capace di fare a meno della proprietà privata, perché è su questo che in fin dei conti si sta discutendo, è un uomo che, per quanto possibile, sia slegato dalla realtà economica e materiale su cui il comunismo e il liberalismo si fondano. Un uomo “spiritualis” (ma basterebbe forse già solo il non nuovo homo socius) capace di trovare non nella materialità ma nella totalità, filosoficamente intesa, la propria ragione di vita, sia essa immanente (nella socialità, nella politica, nella comunità), sia essa trascendente (il che non indica necessariamente la fede in una divinità). Solo così, sempre ammesso che sia una via percorribile, l’uomo potrà fare a meno del proprio egoismo, dell’interesse. In due parole, della proprietà privata.  Il fascismo gentiliano aveva in progetto di creare un uomo simile, capace di unire individuo e Stato per superare il materialismo. Per farlo però Gentile non ha mai ritenuto essenziale il superamento della proprietà privata. Anzi, per Gentile e il fascismo fu sempre inammissibile anche solo parlare, per grande gioia di Croce, di abolizione della proprietà privata. Mancò in fondo l’ultimo passo per realizzare l’uomo spiritualis, l’ultimo passo ma anche il più coraggioso. Fu proprio la mancanza il coraggio a far crollare la terra sotto i piedi a Gentile e al fascismo. Mancanza che li fece ricadere, senza troppe conquiste, nel liberismo più classico. E fu così che la spinta rivoluzionaria del comunismo e del fascismo implose in un rinnovata anima liberista.

 

Avevamo iniziato raccontando una barzelletta, dove “Ci sono un liberale, un fascista e un comunista” che starnazzano e s’insultano a vicenda. Il resto della barzelletta abbiamo provato a narrarla nel modo migliore possibile, cercando di farvi ridere del paradosso e riflettere sulle contraddizioni. L’immagine con cui vogliamo lasciarvi è quella di un padre i cui figli, nel loro periodo adolescenziale, cercano di ribellarsi in ogni modo. Il primo figlio, il comunismo, cerca lo scontro diretto attraverso la rivoluzione, mentre il secondo, ilfascismo, cerca un accordo per via corporativa. Entrambi tuttavia, dopo qualche tenera concessione da parte del padre (il liberismo, per chi ancora non lo avesse capito), non possono fare altro che arrendersi all’evidenza: essi sono pur sempre figli dello stesso padre, sangue del suo stesso sangue, e per quanto vorranno negarlo non potranno mai lavare via ciò che rappresentano, la dimensione materialistica dell’individuo e dell’egoismo.

In poche parole, liberismo, comunismo e fascismo non nascono con lo stesso obiettivo ma finiscono inevitabilmente per condividerlo: la difesa della proprietà privata. Questa è la battuta che chiude la barzelletta. Ora dovreste ridere. Non ridete? Buon per voi, avete finalmente capito che non c’è proprio nulla da ridere e che forse, dopo tutto questo tempo, è arrivato il momento di andare avanti, perseguire strade nuove senza fossilizzarsi sui soliti assunti ideologici. Dicasi altrimenti, ricominciare finalmente a fare filosofia.

 

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