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19/05/2010

 

Dalla loro roccaforte di New York gli Ebrei americani controllano il mondo?

di Francesco Lamendola  

 

Ve ne sono oltre 2 milioni, il che significa che più di un newyorkese su 4 è un ebreo e che uno su 6 degli ebrei del mondo è un newyorkese

 

Vi sono due maniere per esercitare un potere politico: conquistarlo ed esercitarlo in prima persona, oppure raggiungere nell’ombra, avanzando pazientemente e sistematicamente, delle posizioni importanti al fianco dei potenti, onde esercitare su di loro un influsso più o meno discreto, più o meno velato, ma pur sempre determinante.

Si prenda, come classico esempio di questa seconda strategia, il libro veterotestamentario di Ester; e si vedrà come anche una donna, nel contesto di una monarchia assoluta come quelle del Medio Oriente antico, possa svolgere la funzione decisiva di promotrice degli interessi di una minoranza religiosa, spazzando ogni ostacolo davanti ad essa, meglio di come avrebbe potuto fare un politico sperimentato o un esercito in assetto di guerra.

Ester è la sposa del re Serse e suo zio Mardocheo la spinge a chiedergli grazia, mettendo a nudo le perfide macchinazioni del ministro Aman. Ester prende l’iniziativa e la situazione si capovolge: Aman viene messo a morte sullo stesso patibolo che aveva fatto preparare per Mardocheo, dopo essersi dovuto umiliare davanti a quest’ultimo; Mardocheo viene esaltato e, addirittura, nominato primo ministro al posto di Aman. Per finire, gli Ebrei operano un vero e proprio massacro preventivo: insorgono in tutte le province dell’Impero persiano e, con l’aiuto dei satrapi e dei funzionari regi - tutti timorosi di Mardocheo - uccidono, in un gigantesco bagno di sangue, tutti coloro che avevano preparato la loro rovina.

È un immenso “pogrom” ante litteram, nel quale la furia degli Ebrei non risparmia uno solo dei loro potenziali nemici; “pogrom” del quale il sovrano, Serse, si compiace in modo straordinario, arrivando a domandare ed Ester quali altri desideri abbia da esprimergli, poiché egli non desidera altro che soddisfarli («Ester», 9, 5-16):

 

«Così i Giudei colpirono di spada tutti i loro nemici: fu un vero massacro, un autentico sterminio: fecero dei loro nemici quello che vollero. Nella sola cittadella di Susa i Giudei uccisero 500 uomini, oltre i dieci seguenti: Parsanata, Dalfon, Aspata, Porata, Adalia, Aridata, Parmasta, Arisai, Aridai e Jezata, tutti figli di Aman, figlio di Amadata, nemico dei Giudei; ma non saccheggiarono le loro sostanze.

Il giorno stesso, essendo stato riferito al re il numero degli uccisi in Susa, Serse disse ad Ester: “Nella sola cittadella di Susa i Giudei hanno messo a morte 500 uomini oltre ai dieci figli di Aman. Che cosa avranno fatto nelle altre province del regno! Ed ora, dimmi, che cosa domandi? Tu sarai esaudita.  Qual è ancora il tuo desiderio? Sarà appagato”. Ester rispose: “Se così piace a te, sia concesso ai Giudei di eseguire ancora domani in Susa il decreto, come hanno fatto oggi, e di appendere al patibolo i cadaveri dei dieci figli di Aman”. Il re ordinò che così fosse fatto: il nuovo editto fu subito proclamato in Susa, e i cadaveri dei dieci figli di Aman vennero appesi al patibolo. I Giudei si radunarono dunque anche il quattordici del mese di Adar e uccisero in Susa altri trecento uomini, senza però saccheggiare i loro beni. Gli altri Giudei che dimoravano nelle province del regno, radunatisi per difendere la loro volta e mettersi al sicuro dai loro nemici, uccisero 75.000 dei loro persecutori, ma non ne saccheggiarono i beni.»

 

Certo che, per essere stata un’azione puramente difensiva, si direbbe che essa abbia rivelato, a dir poco, una straordinaria prontezza e capacità offensiva da parte delle vittime designate; per cui sorge spontanea la domanda su chi si tenesse pronto a sgozzare chi: tanto più che la storia, come tutti sanno, la scrivono i vincitori, mentre i vinti non hanno voce in capitolo.

Né giova obiettare che il Libro di Ester non può essere considerato come una vera fonte storica, prevalendo in esso - e di gran lunga - l’intento didascalico e religioso: perché resta comunque come una insigne testimonianza della mentalità di una minoranza attiva, intelligente e ambiziosa, capace di impadronirsi della politica di un vasto impero grazie alla sua capacità di insinuarsi presso il trono dei potenti.

Per cui, passando dall’Antico Testamento ai giorni nostri, sorge spontanea la domanda: qual è, oggi, il cuore dell’Impero, e come si potrebbe fare per insinuarsi accanto ai suoi governanti, onde volgere le loro menti e le loro decisioni in favore di una minoranza attiva, intelligente ed ambiziosa - che, guarda caso, è proprio la stessa di cui parla il Libro di Ester?

Non vi è dubbio che il cuore dell’Impero è la metropoli americana per eccellenza, New York; nella quale la presenza ebraica è forte, compatta e spregiudicata, non meno di quanto lo fosse quella dei correligionari di Ester al tempo del re persiano.

Secondo il censimento del 2009, New York possiede 8.391.000 abitanti; di essi, un buon venticinque per cento è costituito da Ebrei, vale a dire circa due milioni e mezzo, distribuiti nei cinque quartieri di Manhattan, Brooklyn, Harlem, Staten Island e Queens : più di quanti ve ne siano a Tel Aviv e Gerusalemme messe insieme.

Benché vecchio di quasi cinquant’anni, resta sostanzialmente valido anche per i nostri giorni (tranne, secondo noi, che nelle conclusioni) il ritratto della presenza ebraica a New York delineato dal famoso giornalista francese Raymond Cartier - che non è affatto sospettabile, si badi, di nutrire sentimenti antisemiti - nel suo libro «Le cinquanta Americhe» (titolo originale: «Les cinquante Amériques», Paris, Librairie Plons, 1961; traduzione italiana di Roberto Ortolani, Milano, Garzanti, 1962, 1966, pp.387-390):

 

«Il posto di New York nel mondo ebraico è molto più importate che nel mondo nero. Vi si trovano oltre 2 milioni di israeliti, il che significa che più di un newyorkese su 4 è un ebreo e che uno su 6 degli ebrei del mondo intero è un newyorkese. “New York - dicevano talvolta gli ebrei prima della fondazione di Israele - è la nostra Sion”. E gli anti-ebrei, sarcasticamente, correggevano e correggono ancora il nome della città: Jew York.

L’associazione fra New York e il ghetto ha lontane origini. I primi ebrei giunsero a Nuova Amsterdam con gli olandesi e la loro prima comunità americana, Shartith Israel, gli Avanzi d’Israele, vi fu fondata nel 1656. Passarono tuttavia oltre tre secoli prima della grande emigrazione che doveva fare di New York l’arco trionfale di una razza perseguitata su un magnifico terreno di conquista. Dal 1882 al 1914, quasi 2.500.000 ebrei sbarcarono alla Battery. Provenivano in grandissima maggioranza dai paesi dell’Impero russo e dell’Impero austro-ungarico. Erano certamente poveri almeno come gli emigranti non ebrei che giungevano con loro. Partendo da un piede di eguaglianza con questi ultimi, hanno conquistato una parte della ricchezza americana senza dubbio superiore alla loro percentuale numerica. Vivono attualmente negli Stati Uniti 5 milioni e mezzo di ebrei su una popolazione di un po’ meno di 180 milioni, e - per quanto non esistano statistiche precise - nessuno penserebbe a sostenere che si accontentino di meno del trentesimo della ricchezza nazionale.

L’assurdità inversa consisterebbe nell’affermare che gli ebrei posseggono l’America, come disse la propaganda hitleriana. Posseggono in esclusiva quasi completa due grandi industrie - quella dell’abbigliamento e il cinema - e hanno parti preponderanti e molto importanti nella radio, nei giornali, in tutti gli spettacoli, nella banca, nelle assicurazioni e nel commercio al dettaglio. Ma la metallurgia, l’automobile, il petrolio, i trasporti, l’industria chimica, ecc. non sono ebraici o lo sono soltanto in debole proporzione. Il suolo non lo è assolutamente. Si registrò, nel secolo scorso, qualche entusiastico tentativo per spingere verso l’agricoltura una parte del fiume ebraico che si rovesciava sugli Stati Uniti: qualche ortolano e pochi allevatori di pollame del New Jersey rimangono come ultime tracce di un tentativo fallito per allontanare una razza dalle sue vie secolari. […]

È generalmente ammesso che i newyorkesi che non siano ebrei sono antisemiti. Una collettività così numerosa, così ricca, così intelligente e così intraprendente non può non sviluppare intorno a sé un forte sentimento di ostilità. L’antisemitismo ha del resto in America radici forti e vive, per quanto non assuma un’espressione politica che raramente, timidamente e per così dire vergognosamente. È spesso associato all’anticattolicesimo nei movimenti estremi del protestantesimo e dell’americanismo. Il Ku-Klux-Klan si assegnò tre nemici: il negro, il cattolico e l’ebreo. Alcuni grandi capitalisti, il più ardito dei quali fu Henry Ford, manifestarono sentimenti antiebraici e, ancor oggi, un ricco petroliere del Texas, George W. Armstrong, è considerato il mecenate dell’antisemitismo. Il più noto tra i militanti di questo è il polemista Gerald L. K. Smith, editore del mensile “The Cross and the Flag” e promotore della Christian Nationalist Crusade. Smith e i suoi discepoli attaccarono Eisenhower durante la campagna elettorale del 1952, mentre Truman, con una ispirazione del resto infelice, tentava di sollevare diffidenze religiose e razziali contro il candidato repubblicano. Ma nulla di simile si è rivisto nelle ulteriori campagne elettorali.

Politicamente debole, l’antisemitismo americano riveste soprattutto la forma di una esclusiva sociale. In alcuni Stati, sulla porta di certi ristoranti, dinanzi all’ingresso di certe spiagge, un avviso brutale, “Christians Only”, significa agli ebrei che non sono i benvenuti. Altrove, in particolare nello Stato di New York dove la legge non consente tale sincerità, sotterfugi di linguaggio, “selected”, “restricted clientele”, “Christian surroundings”, “convenient Church goers”, ecc., dicono la stessa cosa con abilità. Ma, come i negri, più fermamente dei negri e con meno ragione dei negri, gli ebrei rispondono alla segregazione parziale con una contro-segregazione. Esistono alberghi, “country-clubs” (alcuni lussuosissimi), e perfino interi località di villeggiatura esclusivamente ebraiche. “Dietary laws” è la contropartita di “Christians surroundings”, l’avvertimento ai non ebrei di tenersi lontani.

Il sionismo ha dato alla questione ebraica nuovi aspetti e all’antisemitismo un0parma nuova. Gli ebrei sono così numerosi a Brooklyn e nel Bronx che gli interessi di Israele hanno maggior peso di qualunque altro problema esterno o interno. Ogni tiepidezza nei riguardi del sionismo è audacemente trasposta in antisemitismo. Il defunto ministro della Difesa, James Forrestal, preoccupato per le basi americane in Oriente e per il rifornimento di nafta alla flotta, consigliò prudenza nei confronti dei paesi arabi e sollevò contro di sé una campagna personale che ne accelerò la nevrastenia e il suicidio. Inversamente, gli antisemiti sostengono che gli ebrei antepongono il lealismo nei riguardi di Israele a quello nei riguardi degli Stati Uniti. Ogni anno, l’United Jewish Appeal fa per il nuovo Stato colossali collette che assumono talvolta la forma di una costrizione morale e quasi di una tassa. Le masse popolari ebree di New York sono sempre pronte a mobilitarsi per Israele.»

 

Dicevamo che l’analisi di Cartier è sostanzialmente obiettiva, ma non ci convincono le conclusioni che egli trae dagli stessi dati di cui si serve.

Che cosa vuol dire, ad esempio, affermare che è assurdo pensare che gli Ebrei posseggano gli Stati Uniti, e subito dopo ammettere che essi controllano in maniera capillare il cinema ed esercitano una preponderanza nella radio, nei giornali e nello spettacolo?

E come si può paragonare l’assenza del capitale ebraico dall’industria chimica, con la sua schiacciante superiorità nei settori dell’informazione e del cinema?

Stiamo parlando degli Stati Uniti, vale a dire della società moderna per eccellenza: in cui, come insegnano schiere di illustri semiologi e sociologi, chi controlla radio, televisione, cinema e carta stampata, controlla tutto il resto.

E che cosa vuol dire che il capitale ebreo non è presente nella proprietà del suolo? Nella prospettiva dell’egemonia politico-sociale, la proprietà del suolo è un elemento secondario, perché decisamente arcaico: quel che conta non è controllare il suolo e le abitazioni, ma i mass media che entrano ovunque con le loro immagini e le loro voci. In breve, quel che conta è controllare non lo spazio fisico, ma lo spazio virtuale.

Se poi si aggiunge, come Cartier fa di buon grado, che anche le banche, le società di assicurazioni e il commercio al dettaglio sono dominate dal capitale ebraico, o registrano una fortissima presenza di capitale ebraico, il quadro si fa ancora più chiaro. Gli Stati Uniti sono una potenza finanziaria: e chi controlla Wall Street, ha in mano le chiavi dell’intera economia e della politica americana. Questo è un fatto.

C’è poi un altro elemento, di cui Cartier non tiene il debito conto e che, del resto, ai suoi tempi non era ancora così evidente, come lo è oggi: vale a dire la decisiva presenza ebraica nella politica interna estera e nell’amministrazione centrale dello Stato. Uomini come Henry Kissinger e Paul Wolfowitz - tanto per citarne due - vengono dalla minoranza ebreo-americana ed il loro peso nella strategia politica statunitense è stato immenso.

Se il governo di Israele può contare, sempre e incondizionatamente, sul sostegno della Casa Bianca, in qualsiasi circostanza, magari per opporre un “veto” a qualche risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, ciò si deve al fatto che la comunità ebreo-americana di New York e le potentissime lobbies finanziarie, giornalistiche e televisive ebree sono in grado di esercitare una pressione inesorabile e costante sui Presidenti americani e sui loro governi.

E che cosa vuol dire Cartier quando afferma che i non ebrei di New York sono “antisemiti”, se subito dopo spiega che a loro ostilità non nasce da razzismo o da odio religioso, ma dalla invadenza della comunità ebrea in tutti i campi della vita economica e culturale e, più ancora, dal fatto che essa si sente prima di tutto solidale con Israele e poi, eventualmente, con la patria di adozione, ossia gli Stati Uniti?

Non solo.  Cartier riconosce onestamente che, per l’America, è divenuto quasi impossibile svolgere una politica anche solo parzialmente filo-araba, pena il linciaggio mediatico: quel linciaggio mediatico che spinse un ministro della Difesa alla depressione e al suicidio. Ciò significa che appoggiare una politica di buone relazioni con il mondo arabo è considerato dagli Ebrei americani come una forma di antisemitismo: se ne dovrebbe dedurre che sono gli Ebrei a bollare di antisemitismo qualunque cosa non sia, al cento per cento, filo-israeliana e filo-ebrea. Sono essi a spaccare l’opinione pubblica in sionista e antisemita: e si noti lo squilibrio concettuale che tale divisione implica. Essere sionisti, cioè favorevoli alla politica antiaraba di Israele, è, per loro, cosa assolutamente lecita e giusta; mentre prendere le distanze, anche solo in modo parziale e indiretto, dalla politica di Israele, equivale per essi a un atto di antisemitismo, ossia un atto di odio razziale e religioso contro il popolo ebreo.

E, ovviamente, su tutto pesa lo sfruttamento politico di quanto gli Ebrei d’Europa soffrirono sotto il regime nazista, fino alla tragedia della Shoah.

Occorre aggiungere che generazioni di registi cinematografici ebrei-americani, da Charlie Chaplin ne «Il grande dittatore» a Steven Spielberg in «The Schindler’s List», continuano instancabilmente a gettare legna sul fuoco di quello stato d’animo, per cui l’opinione pubblica mondiale viene tenuta sotto un ricatto morale permanente, affinché non si lasci cogliere dal dubbio circa la giustezza del destino riservato al popolo palestinese e, più in generale, circa la giustezza dell’idea sionista ed i suoi inevitabili effetti pratici?

 

 

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