Originale: TomDispatch.com

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8 marzo 2018

 

Dio lo vuole!

di James Carroll

traduzione di Giuseppe Volpe

 

Gli Stati Uniti possono star affondando nel pantano morale dell’era Trump, ma se pensate che il veleno di questo periodo sia iniziato con lui, rifletteteci. Il momento sul quale tuttora rimugino, il momento che credo abbia acceso il vasto disordine pubblico che è oggi il nostro mondo tutto statunitense, è stato quasi completamente dimenticato qui da noi. E c’è poco da meravigliarsi. E’ stato niente più che un cliché buttato lì casualmente, un effimero riferimento storico le cui implicazioni e conseguenze non significavano nulla per chi lo ha espresso: “Questa crociata”, ha detto il presidente George W. Bush a solo pochi giorni di distanza dagli attacchi dell’11 settembre, “questa guerra al terrorismo…”

Quella, tuttavia, si è dimostrata un’invocazione infernale che ha preparato la scena per tanto dell’orrore a seguire. Le Crociate furono, naturalmente, una catastrofe medievale secolare. La Guerra al Terrore di Bush, per contro, ha già seminato una devastazione paragonabile in appena 17 anni, determinando un caos quasi inimmaginabile all’estero e un collasso morale in patria impersonato dal presidente Donald J. Trump.

Nonostante i fili di causalità intessuti come su qualche maligno telaio che hanno determinato questa elezione – il culto della celebrità da reality show, l’intervento dell’ultimo minuto nella campagna del direttore dello FBI, la marachella dei russi, la vulnerabilità di Hillary Clinton all’autolesionismo e alla misoginia, anomalie dei collegi elettorali, nichilismo del Partito Repubblicano e un pubblico estremamente disincantato – la facilità con la quale una simile figura ha assunto il controllo delle leve del potere in questo paese dovrebbe comunque sbalordirci. Una qualche profonda malattia dell’animo doveva aver già determinato un soqquadro nel sistema immunitario della nostra democrazia, altrimenti lui non sarebbe stato immaginabile. Consideratelo come un sintomo, non come la malattia. Dopo che Trump alla fine lascerà l’Ufficio Ovale, saremo ancora un popolo devastato e il mondo continuerà a gemere sotto il peso della devastazione causato da questo paese. Come, allora, siamo arrivati a questo punto? Potrebbe essere utile un momentaneo sguardo al passato.

Un sogno febbrile di una guerra

“Questo è un nuovo genere di male”. Così disse il presidente quel 16 settembre, in piedi sul prato sud della Casa Bianca. “E il popolo statunitense sta cominciando a capire. Questa crociata, questa guerra al terrorismo, richiederà del tempo”. In quel modo, solo cinque giorni dopo gli attacchi dell’11 settembre George W. Bush elevò una banda di meschini nichilisti al rango di guerrieri storici mondiali. “E il popolo statunitense deve essere paziente”, proseguì. “Io sarò paziente”.

Lui, naturalmente, è sparito da tempo, ma quello che ha avviato quel giorno si sta tuttora sviluppano. Avrebbe potuto essere così diverso. L’11 settembre fu un momento tragico, ma le reazioni iniziali della maggior parte degli statunitensi a quelle torri crollate e al Pentagono danneggiato furono di empatia e di patriottismo. L’altruismo dei primi soccorritori trovò eco in una vasta e sorprendente manifestazione di altruismo nazionale. Le solite divisioni politiche tra destra e sinistra scomparvero e la bandiera, per una volta, diventò un vero simbolo di unità nazionale. La reazione globale fu simile. Da tutto il mondo, compresi avversari d’un tempo come Russia e Cina, vennero autentiche espressioni di sostegno e di simpatia, di affetto addolorato.

Ma in ogni espressione che il presidente avrebbe pronunciato in quelle settimane – “questa è una guerra… con noi o contro di noi… vivi o morti” – egli scelse di portare questo paese su un percorso molto diverso nel futuro.

Due giorni dopo aver evocato le Crociate, ad esempio, egli presiedette a un servizio religioso che, anche se ufficialmente definito “ecumenico”, si tenne nella neogotica Cattedrale Nazionale. “A solo tre giorni di distanza da questi eventi”, disse dal pulpito di quella chiesa, “gli statunitensi non hanno ancora la distanza della storia. Ma la nostra responsabilità nei confronti della storia è già chiara: reagire a questi attacchi e liberare il mondo dal male… Questo conflitto è iniziato quando e come lo hanno voluto altri. Finirà in un modo e in un tempo di nostra scelta”. In una sede specificamente cristiana, cioè, George W. Bush rispose agli attacchi criminali dell’11 settembre non appellandosi alla legge internazionale per portare i responsabili davanti alla giustizia, bensì con una dichiarazione di guerra cosmica mirata nientemeno che all’eliminazione del male islamista. Chiamarla “crociata” non fece che sottolineare il messaggio subliminale ma potente trasmesso dalle telecamere televisive che indugiavano sui molteplici crocefissi e figure insanguinati di Gesù Cristo della cattedrale. Elevata perché tutti la vedessero, quell’icona sacra trasmise un segnale non poteva essere mancato. Una nazione auto dichiarata laica doveva a quel punto essere una crociata, pronta a mostrare il carattere profondamente cristiano di una cultura eretta su devozioni trionfalistiche dalle sue radici Pellegrine alla vocazione apocalittica nucleare della Guerra Fredda.

Il messaggio di Bush fu ricevuto nel mondo arabo come ci si poteva aspettare. Là il suo riferimento a “questa crociata” fu reso come “questa Guerra della Croce”. Persino allora molti mussulmani la seppero più lunga che non considerare la caratterizzazione da parte del presidente del conflitto in arrivo come puramente casuale e di nessuna importanza, proprio come avrebbe in seguito ignorato l’insistenza dei leader statunitensi che le violente intrusioni del loro paese nel Grande Medio Oriente e in parti dell’Africa non erano in alcun modo ispirate “religiosamente”. Oggi, naturalmente, le sfrontate denigrazioni dei mussulmani da parte di Trump hanno reso chiaro quanto fossero nel giusto gli osservatori nel mondo islamico riguardo a ciò che stava dietro la nuova “guerra globale” di Washington.

All’epoca dello sprezzante uso della crociata da parte di Bush io fui uno dei pochi ad offendersi e a dirlo. Temevo che quell’inciampo in una guerra settaria, in uno “scontro di civiltà” – nel gergo di allora – potesse mettere in moto, come avevano fatto le Crociate originali, una dinamica che sarebbe andata oltre le intenzioni di chiunque, scatenando forze che potevano distruggere gli stessi principi nel cui nome era dichiarata quella “guerra per scelta”. Sapevo poco di quanto i miei pensieri avrebbero mancato una valutazione accurata dei danni.

In realtà l’uso di quel termine da parte di Bush non fu un inciampo, per quanto involontario, bensì una cristallina dichiarazione d’intenti che presto sarebbe stata assistita e agevolata da una fervente coorte evangelicale all’interno dell’esercito statunitense, già preparata a una guerra santa. Con quella che lo stesso Bush chiamò “la distanza della storia” è oggi possibile vedere il caos che la sua “crociata” sta tuttora causando in gran parte del globo: Iraq e Afghanistan sono in macerie; la Siria distrutta (con aerei da guerra russistatunitensiisraelianiturchi e iraniani che si mettono reciprocamente alla prova nell’aria); lo Yemen nella morsa di una carestia indotta dalla guerra; i turchi alla gola dei curdi; il processo di pace israelo-palestinese defunto; la Libia uno stato fallitoguarnigioni delle Operazioni Speciali statunitensi in Somalia, Niger e in tutta l’Africa; e l’Europa sempre più politicamente destabilizzata dagli afflussi di profughi da questi conflitti. Nel frattempo la crociata di Bush è divenuta la malattia statunitense che ora ha il suo picco nel sogno febbrile del presidente Donald Trump.

Esercizi di millenarismo apocalittico, allora e oggi

Le vere Crociate furono una serie di guerre multifase condotte nel nome di Dio. Iniziarono nel 1096 e continuarono a intermittenza per quasi due secoli fino al 1291. Quando l’era delle Crociate si avvicinò alla fine, i valori morali erano stati fatti a pezzi; una nascente struttura di capitalismo aveva infuso di avidità la nuova economia dell’Europa; un’oscura inclinazione alla violenza di massa stava ribollendo nella coscienza europea; e la militarizzazione della religione era data per scontata. Seguì il caos della modernità.

Per credere che uccidere potesse essere santo i cristiani dovettero prima accettare che Dio voleva tale violenza. Così costruirono una teologia nella quale Lui avrebbe ordinato non solo la morte sanguinaria dei malvagi (un termine favorito di George W. Bush) ma anche del Suo figlio unigenito le cui sofferenze soltanto potevano “espiare” i peccati dell’uomo. Lo strumento della morte salvifica di Cristo, la croce, divenne presto sacro e un emblema della guerra contro i mussulmani. I crociati lo portavano orgogliosamente sulle loro tuniche e sui loro scudi. Questa violenta teologia dell’”espiazione” avrebbe penetrato l’immaginazione religiosa dei cristiani per sempre da allora, rendendoli sin troppo pronti a uccidere nel nome di Dio. Molto prima della guerra al terrore, esplicitamente o implicitamente, tale teologia era arrivata a giustificare e spesso motivare simili campagne americane di uccisione, a cominciare dalla Guerra di Re Filippo, lanciata da colonizzatori puritani contro i popoli nativi che li avevano accolti a Plymouth. (Dio lo vuole!). Le stesse Crociate iniziarono con l’urgenza di riprendere la città santa di Gerusalemme dall’infedele saraceno. Mentre la civiltà occidentale si coagulava negli anni delle Crociate l’Europa divenne fissata sull’Islam come suo altro esistenziale negativo. Tale fissazione – quella che lo studioso Edward Said ha chiamato“Orientalismo” –   è tuttora alla base dell’identità dell’occidente ed è questo il motivo per il quale una guerra contro i mussulmani, alimentata da pregiudizi anti-mussulmani, risulta adattarsi al Secolo Statunitense come un pugno di ferro in un guanto di velluto.

Come ha suggerito Said, il disprezzo cristiano europeo per gli “Orientali” del Levante filtrò presto in altri progetti sanzionati da Dio, specialmente una volta che l’era delle Crociate aveva ceduto il passo all’era delle esplorazioni. Si ricordino le tre caravelle con le vele crociate di Cristoforo Colombo, la Niña, la Pinta e la Santa Maria mentre salpavano dalla Spagna al Nuovo Mondo, per essere ben presto seguite dalle navi di legno di altre potenze europee. Non ci volle molto prima che i popoli nativi cominciassero globalmente a finire vittime, spesso in modo genocida, di avventurieri pistoleri e commercianti di schiavi europei che avevano imparato a considerarsi “bianchi”. Anche se Donald Trump non ha idea di tali radici del disprezzo del mondo mussulmano più di quanta ne avesse Bush, egli è riuscito ad alzare ancora più alta la torcia riaccesa dell’odio razziale.

Le Crociate furono un esercizio di millenarismo apocalittico, una corrente calda che corre anche appena sotto la superficie dell’ardore marziale statunitense del ventunesimo secolo. E’ solo un caso che la prima Crociata e quella di Bush siano state entrambe collegate al volgere di un millennio? Dopo l’anno 1.000 una mitologia biblica relativa a Gerusalemme alimentò frenetiche aspettative di Fine del Tempo che culminarono nell’interminabile guerra per quella città e un’ossessione europea per essa da allora. Il primo proposito della primordiale Guerra Santa di quell’epoca fu il salvataggio di Gerusalemme dal mussulmano infedele; nessuno dovrebbe sorprendersi che undici secoli dopo lo stabilimento di un’ambasciata statunitense là resti un punto di esplosione per la crociata anti-mussulmana del momento presente.  Più in generale gli eccessi della reazione statunitense all’11 settembre ebbero una punta di paura millenaria fin dall’inizio. Le riprese interminabilmente riproposte delle torri del World Trade Center che crollavano ebbero l’aspetto e il sentimento di un attacco atomico contro gli Stati Uniti (di qui la quasi istantanea etichettatura del sito come “Ground Zero”, un termine in precedenza riservato alle esplosioni nucleari). Tali scene toccarono corde inconsce tese in profondità nella psiche statunitense, corde che il presidente suonò prontamente. Pochi giorni dopo l’11 settembre si presentò al Congresso per dichiarare che “Dio non è neutrale” e così rivendicò per la sua amministrazione il manto di agente purificatore di Dio.

Quasi un anno dopo, davanti a una folla di cadetti di West Point, ci diede dentro di nuovo, insistendo che “siamo in un conflitto tra bene e male e gli Stati Uniti chiameranno il male con il suo nome”. In un tale conflitto, ovviamente, gli esiti non sono più misurati da conseguenze reali nelle vite di esseri umani reali, ma dalla trascendente volontà di Dio (o, in Sua vece, della “sola superpotenza” del pianeta Terra) alla quale gli esseri umani reali possono naturalmente essere sacrificati.

“Per gran parte dell’ultimo secolo”, ha dichiarato Bush nel suo discorso in stile Crociato a West Point, “la difesa degli Stati Uniti si è affidata alle dottrine di deterrenza e contenimento della Guerra Fredda… Ma nuove minacce richiedono anche un nuovo pensiero”. Un assunto duramente conquistato del ventesimo secolo che Washington deve, alla fine, seguire il percorso del male minore era stato, a quel punto, già sommariamente sostituito da una determinazione a semplicemente cancellare il male del tutto. Deterrenza e contenimento avevano salvato la specie umana dall’apocalisse nucleare ma a causa dell’apocalittico incontro con il “terrorismo” tali modalità erano ovviamente non sufficientemente assolute.

E quando il proposito di una nazione diviene la distruzione cosmica del male, tutto è permesso, come è stato nella Crociata statunitense. Di qui lo scaricamento degli Accordi di Ginevra, l’abbraccio della tortura, la cancellazione dei diritti dei prigionieri, gli abusi che proseguono nelle intrusioni incontrollate della sorveglianza governativa o in quello che gli statunitensi sono troppo educati per chiamare il campo di concentramento di Guantanámo che Donald Trump desidera così devotamentemantenere aperto e funzionante.

L’appetito di nemici delle Crociate è insaziabile ed è per questo che, nel medioevo, la guerra contro l’Islam si trasformò così senza soluzione di continuità in guerra contro, prima, gli ebrei della Renania nei primi pogrom dell’Europa; poi contro i fedeli ortodossi orientali le cui città, compresa Costantinopoli, furono assediate e saccheggiate;  e infine contro dissidenti cattolici (pensateli “eretici”) come gli Albigesi e i Catari che furono eliminati brutalmente.

Nella versione statunitense di tale progressione di nemici, la guerra contro la rete di al-Qaeda si è rapidamente mutata in una “guerra” contro gruppi terroristici in più di 60 nazioni, a partire dall’Afghanistan e dai talebani e, nel giro di un anno e mezzo, dall’Iraq di Saddam Hussein, un paese e un regime del tutto non collegati ad al-Qaeda. Da lì è proseguita in Pakistan, Somalia, Libia, Siria, Yemen, Niger, le Filippine e parti ancora ignote. Quando George W. Bush tenne il suo discorso sullo Stato dell’Unione quattro mesi dopo l’11 settembre, egli ridefinì i principali nemici degli Stati Uniti come – di nuovo quel termine – un “asse del male”, costituito da Iran, Iraq e Corea del Nord. A quel punto non contava assolutamente nulla che l’Iran sciita non avesse nulla a che fare con la setta sunnita guidata da Osama bin Laden; che Saddam Hussein non avesse nulla a che fare con l’11 settembre e che la Corea del Nord non avesse neppure il più remoto collegamento con la crisi di settembre che tanto traumatizzò gli Stati Uniti. Una volta chiamati così, i leader di Iran e Corea del Nord, sapendo a quel punto che, agli occhi statunitensi, erano le fonti di (quasi) tutto il male, potevano naturalmente essere attesi assumere misure immediate per prepararsi contro una futura aggressione statunitense, e così hanno fatto con programmi nucleari che sono tuttora al centro delle politiche aggressivamente militarizzate promosse oggi da Donald Trump e dai suoi generali (e con una guerra futura nell’uno o nell’altro di tali paesi una possibilità chiara).

Comunque, l’eco più saliente delle Crociate medievali nelle campagne militari statunitensi contemporanee arriva sotto il titolo del fallimento. Nonostante tutte le romanticherie associate ai cavalieri in armature lucenti di tale era, la loro liberazione voluta da Dio della Città Santa nel 1099 non sopravvisse alla riconquista mussulmana del 1187, una sconfitta cristiana che avrebbe reso il re inglese, Riccardo Cuor di Leone, una figura mitica e una garanzia del posto per sempre di Gerusalemme nelle fantasie della causa persa dell’Europa dopo di allora. (Fu una sconfitta che non sarebbe stata vendicata fino al 1917, quando il Maresciallo di Campo Edmund Allenby alla fine rivendicò Gerusalemme per i cristiani, con conseguenze catastrofiche sia per gli ebrei sia per i mussulmani). I fallimenti degli Stati Uniti in Medio Oriente, nonostante la retorica del Pentagono riguardo al “dominio a tutto campo” dell’esercito statunitense sono stati non meno evidenti e non meno totali in un pianeta che non può più tollerare decenni, per non dire secoli, di guerra.

Autorizzazione di una guerra contro il male

L’invasione dell’Iraq nel 2003 da parte di George W. Bush resta un marchio di virtù (e d’infamia) nella politica statunitense contemporanea. I pochi parlamentari che furono contro l’invasione esibiscono tuttora i loro voti d’opposizione come medaglie al valore, mentre quelli a favore sono stati svergognati permanentemente. (E pensate a come ciò abbia avuto un ruolo nella campagna presidenziale del 2016). Ma questo è un modo sin troppo comodo per rivedere la nostra storia recente. In realtà il dado era già stato tratto molto prima del voto, il che significava che l’invasione dell’Iraq seguiva l’invasione dell’Afghanistan tanto inevitabilmente quanto le scie seguono le navi da guerra. Dopotutto l’Operazione Enduring Freedom, apparentemente intesa ad attaccare la rete di poche centinaia di combattenti di al-Qaeda di bin Laden, iniziò con una massiccia campagna di bombardamenti in vaste parti dell’Afghanistan. La fede cieca dell’aviazione statunitense nella tattica da tempo screditata dei bombardamenti “strategici” sarebbe toccante se non comportasse una tale cecità sui suoi effetti su corpi umani, e quasi 17 anni dopo, bombardieri statunitensi, compresi i droni più recenti e B-52 dell’era del Vietnam, continuano a sganciare fuoco sulla carne afgana mentre quella guerra va di male in peggio.

La campagna afgana, che letteralmente accese la guerra al terrore, fu ufficialmente lanciata il 7 ottobre 2001. Ma chi ricorda che tutto ciò che doveva venire – dall’invasione afgana alle morti alla fine dell’anno scorso di quattro berretti verdi statunitensi in Niger – era già stato autorizzato entusiasticamente tre settimane prima, quando George W. Bush salì su quel pulpito all’ombra della croce della Cattedrale Nazionale a condannare il male? Solo ore prima la Risoluzione Congiunta del Congressosull’Uso della Forza (“Il presidente è autorizzato a usare tutta la forza necessaria e appropriata contro quelle nazioni, organizzazioni o persone che egli decide abbiano pianificato, autorizzato, commesso o assistito gli attacchi terroristici verificatisi l’11 settembre 2001 o abbiano ospitato tali organizzazioni o persone …) era stata approvata dal Senato con 98 voti contro zero e alla Camera dei Deputati con 420 voti contro 1. Quelli sono i numeri che dovrebbero continuare a vivere nella storia, se non nell’infamia.

La sola dissenziente quel giorno fu la deputata Barbara Lee, una Democratica della California. Nell’ammonire contro la crociata statunitense in arrivo ella denunciò la Risoluzione Congiunta del Congresso come “un assegno in bianco al presidente per attaccare tutti i coinvolti negli eventi dell’11 settembre, dovunque, in qualsiasi paese, senza considerazione per la politica estera a lungo termine della nostra nazione, i nostri interessi economici e della sicurezza nazionale e senza un limite di tempo”. Aggiunse sin troppo profeticamente: “Una corsa a lanciare contrattacchi militari precipitosi comporta un rischio troppo grande che siano uccisi altri uomini, donne e bambini innocenti.”

Come lo sono stati, come continuano a esserlo. A meno di presumere che la responsabilità della catastrofe seguita sia unicamente di Bush e della sua cerchia di falchi, si ricordi che le reazioni dell’amministrazione furono approvate dal 90 per cento del pubblico statunitense, il livello più elevato di approvazione del presidente mai ottenuto, mentre un 80 per cento pieno di loro favorì espressamente la guerra senza limite di Bush contro l’Afghanistan. Quella guerra alla fine ha scatenato il caos in una dozzina di altre nazioni (e sta continuando a estendersi) lasciandosi dietro milioni di esseri umani morti, sfigurati, sfollati. La maggior parte degli statunitensi e quasi tutti i loro rappresentanti al Congresso sono stati complici di quella che resta una calamità globale morale, economica e politica non ancora terminata che supera di gran lunga qualsiasi cosa il grottesco Donald Trump abbia attuato sin qui. Può ancora scatenare una guerra nucleare e ha già indubbiamente suscitato quella che potrebbe diventare una cascata di proliferazione nucleare, tuttavia per ora la maligna eredità del quarantatreesimo presidente – quella crociata statunitense – supera qualsiasi cosa il quarantacinquesimo abbia ancora immaginato. E no, Dio non lo vuole.


James Carroll, collaboratore regolare di TomDispatch ed ex giornalista del Boston Globe, è autore di venti libri, tra i quali il nuovo romanzo The Cloister (Doubleday). La sua storia del Pentagono, ‘House of War’, ha vinto il Premio PEN-Galbraith. Il suo libro di memorie, ‘An American Requiem’, ha vinto il National Book Award. E’ membro dell’Accademia Statunitense delle Arti e delle Scienze. Vive a Boston con sua moglie, la scrittrice Alexandra Marxhall. 


 

Questo articolo è apparso in origine su TomDispatch.com, un blog del Nation Institute che offre un flusso costante di fonti, notizie e opinioni alternative da Tom Engelhardt, a lungo direttore di edizione, cofondatore dell’American Empire Project, autore di ‘The End Of Victory Culture’ e di un romanzo ‘The Last Days of Publishing’. Il suo libro più recente è ‘Shadow Government: Surveillance, Secret Wars and a Global Security State in a Single-Superpower World (Haymarket Books). 


Da Znetitaly – Lo spirito della resistenza è vivo

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Fonte: https://zcomm.org/znetarticle/god-wills-it-2/

 

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