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14 gen, 2019

 

7 lezioni che la Brexit può insegnare a chi vuole lasciare l’Ue

di Paolo Mossetti

 

All’indomani della giornata decisiva per la Gran Bretagna, tutte le lezioni che ci arrivano da un’uscita che probabilmente scoraggerà i suoi possibili emuli

 

Martedì 8 gennaio il premier britannico Theresa May ha subito una pesante sconfitta – l’ennesima – ai Comuni: se questa settimana, il 15 gennaio, Westminster dovesse respingere l’accordo negoziato a novembre con l’Unione europea, il governo dovrà presentare quanto prima un “piano B” per uscire dalla crisi. 

Ma il clima attorno al Parlamento inglese è più infuocato che mai. Il leader dell’opposizione, il laburista Jeremy Corbyn, ha annunciato che chiederà elezioni anticipate in caso di bocciatura in Parlamento, e se dovesse vincerle, di presentare un deal migliore. Da Bruxelles i burocrati Ue restano impassibili, facendo capire di non essere disposti ad altri compromessi. Nel Regno Unito intanto tutti i sondaggi mostrano che, in caso di un secondo referendum sulla permanenza nell’Ue, il Remain sarebbe in vantaggio, sebbene con un margine ancora troppo ridotto per tranquillizare i proponenti di un People’s Vote.

A distanza di 30 mesi dalla consultazione che ha sconquassato il continente e dato il via a una serie di rivincite epocali da parte del nazional-populismo, quali conclusioni possono trarre dalla Brexit i suoi possibili emuli, ovvero i paesi che vorrebbero abbandonare l’Unione europea? 

Tra obiettivi poco chiari, una fase di studio inesistente, trattative tenute a lungo segrete e leader incompetenti, vediamo le lezioni che ci arrivano da questa avventura, maledetta fin dalla partenza.

 

Far approvare nuovi trattati è impossibile
L’integrazione europea si è fermata. Fino ad almeno il 2009, la cartografia politica del continente sembrava intervallata dall’assorbimento di nuovi Stati entro i confini dell’Unione, e dall’approvazione di nuovi trattati che le conferivano maggiori poteri. Questo processo si è arrestato ben prima del referendum della Brexit, ma quell’evento ha reso chiaro a molti leader europei, specialmente quelli più ottimisti circa la possibilità di continuare l’integrazione, che far ratificare nuovi documenti di integrazione politica da ciascun stato membro dell’Ue appare ora praticamente impensabile. 

 

L’Ue è ancora troppo potente
Lasciare l’Ue è, in un certo senso, come diventarne membro. Nei negoziati per l’accesso all’Unione infatti funziona così: entrambe le parti fanno finta di discutere, quando in realtà è l’Ue che stabilisce i termini di adesione: il paese candidato può decidere se accettare, oppure no.  Così, quando un paese vuole andarsene, è sempre l’Ue a decidere i termini del divorzio e del futuro accordo. A venire discussi, di fatto, sono soltanto i dettagli.  

Con il famigerato articolo 50 è Bruxelles ad avere in mano quasi tutte le carte. L’invocazione della clausola obbliga lo stato che vuole andarsene a farlo entro due anni a partire da quel momento, e nessun paese ha interesse a farlo senza un accordo. Il problema è che il Regno Unito si è presentato particolarmente fragile alle negoziazioni, perché ha invocato l’Art.50 prima di  sapere bene cosa volesse, e ci ha impiegato due anni per produrre un piano per le future relazioni. Il governo inglese si è inoltre presentato a dir poco diviso alle negoziazioni: è capitato non di rado che il premier, i ministri e i loro portavoce dicessero ognuno una cosa diversa. L’Ue, al contrario, ha fatto fronte unico, senza crepe.

 

La classe politica nazionale deve essere preparata
Dovrebbe far riflettere un sondaggio Ipsos Mori effettuato tra 129  parlamentari britannici qualche mese prima del referendum del 2016: la maggioranza (61%) ha affermato di non sapere quale paese fosse a capo del Consiglio d’Europa (era il Lussemburgo) che ha il potere di veto sulla legislazione dell’Unione. Tre quarti non sapevano cosa rappresentassero le dodici stelle sulla bandiera europea (gli ideali di unità, solidarietà e armonia tra i popoli d’Europa).

Dopo 40 anni di appartenenza all’Ue, quindi, la maggior parte dei deputati Tory, tra cui il primo ministro e gran parte del suo governo, hanno capito molto poco di come funzione l’Unione, né si sono mai mostrati interessati a colmare questa lacuna. Questo ha danneggiato la reputazione del paese in modo forse irreparabile, conducendo a errori clamorosi.

 

La Ue non vuole creare precedenti pericolosi
Il mercato comune europeo si basa sulle famose “quattro libertà” di circolazione: delle persone, dei servizi, delle merci e dei capitali. Le trattative per la Brexit ci hanno fatto capire che per Bruxelles queste libertà sono tuttora indivisibili. Nessun paese potrà per questo avere una relazione con l’Ue tanto stretta quanto i paesi membri. Se il Regno Unito avesse ottenuto uno speciale accordo da non-membro (ad esempio metà piede nel mercato comune e metà fuori) si sarebbe potuto creare un precedente pericoloso, e la Svizzera avrebbe potuto chiedere lo stesso. 

Per questo motivo, l‘Ue ha fatto in modo di non concedere al Regno Unito una posizione privilegiata di accesso al mercato unico, al quale in teoria ha già rinunciato col voto del 2016. La filosofia degli eurocrati non è ispirata dunque soltanto dalla massimizzazione del profitto commerciale. La durezza di Bruxelles ha questo obiettivo: mostrare cosa comporta una exit, per scoraggiare tutti gli altri.

 

La geopolitica conta
Per quanto concerne la difesa, la sicurezza e la politica estera, il peso del Regno Unito – con uno degli eserciti più attrezzati e meglio finanziati al mondo – non è indifferente per l’Ue, che da quanto traspare da alcuni documenti potrebbe mostrarsi piuttosto malleabile su questo aspetto. Mentre i discorsi su un esercito comune europeo sembrano più idealistici che concreti, sembra proprio che l’Ue manterrà rapporti di cooperazione molto stretti con i britannici, per non perdere un alleato geopolitico prezioso (specialmente in un clima di crescente conflittualità con la Russia). 

 

Nessun paese è un’isola, neppure la Gran Bretagna
Gli effetti di un’uscita dall’Unione si faranno sentire non solo con Bruxelles ma con altre nazioni costitutive del Regno. Nel referendum per l’indipendenza del 2014 la Scozia ha votato per restare ancora legata a Londra, ma dopo il voto per la Brexit, dove la stragrande maggioranza degli scozzesi ha optato per il Remain, la tensione politica è tornata a salire. A metà novembre l’Ue ha concesso al Regno Unito di evitare controlli troppo serrati nel Mare d’Irlanda, ma la questione della “frontiera rigida” – che rischia di essere ripristinata tra la repubblica irlandese e l’Irlanda del Nord soprattutto in caso di Brexit non concordata – resta ancora sul piatto. Forse altri paesi non si troveranno in una situazione così complicata, ma le ripercussioni diplomatiche e geopolitiche derivanti da una rimodellazione dei confini non possono essere ignorate.

 

La grande lezione della Brexit è questa: ogni paese che voglia provare ad andarsene troverà il processo molto più complicato, difficile e costoso di quanto possa immaginare. È probabile anzi che gli inglesi abbiano terrorizzato chiunque volesse provare a fare a meno dell’Ue per almeno un’altra generazione (sempre che altri fattori non intervengano nella disgregazione politica del continente).

La parte peggiore, per gli inglesi, è che se la Brexit dovesse andare in porto, a gestirla sarà la medesima – inetta – classe politica che l’ha gestita in modo così scriteriato.

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