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lunedì 4 novembre 2019

 

La morte silenziosa. Il crescente numero di suicidi tra le forze di polizia

di Mauro Cananzi 

C’è un malessere generale che aleggia silenziosamente tra le mura, troppo spesse ed impenetrabili, delle caserme. Siano esse dei militari, dei carabinieri, della polizia o di un carcere. Ogni anno cresce a livello esponenziale il numero dei suicidi tra gli appartenenti alle forze dell’ordine ed alle varie forze armate. Stress lavorativo, disagio familiare, divorzi, tensioni con i colleghi, con i superiori.

 

Cosa passa per la testa di un suicida nessuno lo potrà mai sapere, quando si spegne la luce e tutto diventa buio è ormai troppo tardi per cercare di capire. Chi sceglie questo lavoro certamente è cosciente del fatto che potrà essere sottoposto a pressioni di ogni tipo, derivanti sia da fattori esterni che da fattori interni. Ci si trova spesso a lavorare in situazioni di particolare disagio. Al freddo, sotto la pioggia battente o sotto il sole cocente. Dietro l’angolo di casa oppure a 4000 km dal proprio paese.

Le situazioni di stress sono molteplici, quasi infinite, apparentemente scollegate l’una dall’altra. Solo in apparenza però. C’è una linea sottile che accomuna tutti gli appartenenti ai corpi di polizia ed alle forze armate in generale: la paura. Non la paura degli eventuali imprevisti a lavoro, non la paura di un conflitto a fuoco o di dover soccorrere un proprio famigliare o un amico.

 

La paura che vive dentro ciascun militare, carabinieri, finanziere o poliziotto è la paura di potersi confidare. Il sistema della sanità all’interno dell’amministrazione pubblica, può fregiarsi di fior fior di psicologi, sempre pronti a dare (giustamente) supporto alle famiglie delle vittime di particolari avvenimenti. Peccato però che il supporto interno sia totalmente assente. Al soldato, al carabiniere, al poliziotto è vietato stare male, rettifico, è vietato esprimere il proprio disagio. Perché? Semplice, perché altrimenti rischia di perdere il lavoro. Il sistema medico interno, non vede di buon occhio le esternazioni riferite alla sfera psicologica. Se si prova a parlare con il medico del corpo di appartenenza di un eventuale disagio psicologico, sia esso derivante da particolari situazioni familiari, da stress post traumatico o da eventuali dissidi con colleghi/superiori, la frittata è fatta. È l’inizio della fine.

 

Per prima cosa, se si fa parte di un corpo di polizia, si viene privati della pistola e del tesserino. Si viene esautorati e momentaneamente privati delle proprie funzioni, dopodiché inizia un lungo calvario fatto di visite mediche con psicologi e psichiatri che altro non fanno che aumentare il senso di malessere e disagio. Il più delle volte l’iter si conclude con un declassamento, l’allontanamento dai ruoli attivi. Questo solo per aver chiesto aiuto. In Italia manca, all’interno delle amministrazioni pubbliche, un servizio di supporto psicologico in favore dei dipendenti. Fino ad oggi si è sempre trattato il disagio psicologico in modo repressivo: stai male, vai via. Gli agenti hanno paura di aprirsi, hanno paura di confidarsi. Basta una parola male interpretata e ci si ritrova ad essere bollati come pazzi. Chi se lo può permettere si rivolge ad un professionista esterno all’amministrazione.

Naturalmente in gran segreto. Chi non può, si arrabatta per cercare di convivere con il proprio disagio, fino a quando la luce rimane accesa. Piano piano però la fiammella si farà più debole e si spegnerà. Allora nel silenzio più totale rimbomberà il suono sordo di una sedia che si ribalta, il tonfo di un corpo che vola giù da una finestra oppure il colpo di una pistola. Soltanto allora e per qualche giorno al massimo, ci si chiederà del perché ogni anno decine di professionisti della sicurezza decidono di spegnere per sempre la luce. Tante domande ma nessuna risposta. L’istituzione di un osservatorio interministeriale permanente non sarà certo la panacea di tutti i mali, ma sarebbe sicuramente un buon punto di partenza. Far sapere ai dipendenti che un’altra via è percorribile sarebbe un ottimo risultato. Sapere che anche una sola vita potrebbe essere salvata sarebbe già una prima vittoria. È ora che si cambino le regole interne, che il disagio si affrontato e non emarginato. Solo così si potrà ridurre il numero dei suicidi all’interno delle caserme

 

 

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