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30 & 31 ott 2019

 

Gerusalemme, la scomparsa della memoria tra nuovi turisti e nuovi consumi

di Francesca Merz

 

La mummificazione e lo svuotamento della Città vecchia sta alla base di un progetto politico e sociale preciso. La sostituzione di negozi, attività culturali, centri di ritrovo emargina la popolazione palestinese, in particolare i giovani, spingendoli fuori dalla loro comunità. Un fenomeno globale che qui viene descritto come positivo

 

Roma, 31 ottobre 2019, Nena News –

 

Negli ultimi anni i profondi cambiamenti della città di Gerusalemme hanno portato con sé pareri contrastanti: se da una parte continua a persistere l’idea di Israele come fonte di progresso costante, dall’altra cominciano ad alzarsi, tiepidamente, dibattiti internazionali sulla mercificazione e totale mummificazione della città, che appare sempre di più svuotata della sua memoria, in favore della costruzione di una “città museo” priva di essenza vitale, e circondata completamente da centri commerciali e grandi torri di cristallo.

E se è vero, come è vero, che il rischio di una “evoluzione” nella quale le città sempre di più perdono nei loro centri storici il tessuto sociale e gli spazi comuni, rientra in un fenomeno globale, a Gerusalemme lo svuotamento della Città Vecchia e la distruzione della memoria collettiva sta alla base di un precisissimo progetto politico e sociale da parte dell’autorità israeliana, che garantisce , con metodi apparentemente non violenti, la totale distruzione del tessuto sociale palestinese.

La Città Vecchia, nel piano strategico del Governo, diventerà un parco giochi a uso e consumo del turista, mentre intorno continuano a crescere centri commerciali e vie dello shopping.

Il processo di modifica di Gerusalemme è ovviamente presentato dalle autorità israeliane come un percorso nel progresso, che comprende l’apertura di esercizi commerciali alla moda, catene internazionali di cibo biologico, con insegne dai toni green con menu diet/bio/gluten free e con localini in legno della Thailandia, in cui spiccano libri e caffè, qualche volta perfino dell’humus, ovviamente humus israeliano, ma pare che presto questo luna park farà spazio a modelli turistici ancora più radicali, portando le carovane dei turisti in arrivo a vivere esperienze completamente controllate sia dal punto di vista economico, che contenutistico.

La mummificazione dei centri storici, ovvero quel processo di tassidermia urbana per il quale i luoghi vengono svuotati dalle loro memorie, per sostituirle con altri contenuti, ha nello Stato israeliano un promotore tra i più attivi del pianeta. Il processo, come facilmente comprensibile, porta a ricadute immediate sull’economia palestinese, e, in seconda istanza, come avviene in altri casi di gentrificazione, all’impoverimento della struttura sociale dei quartieri e delle comunità di riferimento; e anche in questo caso il processo picchia duro su tutte quelle associazioni, circoli, piccole società sportive, associazioni teatrali e in linea generale comunità cittadine palestinesi radicate nel centro storico. 

Tra i vari problemi che vivono i giovani palestinesi c’è la totale impossibilità di fare manifestazioni pubbliche, di riunirsi in comitati, di ritrovarsi in luoghi di condivisione di idee e di cultura, per ragioni di sicurezza non è loro concesso fare rappresentazioni teatrali, né manifestazioni pubbliche, se non dietro permesso dell’autorità israeliana, che ovviamente nega la maggior parte delle manifestazioni, anche le più semplici, anche i piccoli campionati di calcio tra scuole o gli spettacoli teatrali o musicali.

Non ci sono inoltre luoghi per ritrovarsi, anche in questo caso la distruzione di tutti i luoghi di ritrovo, di naturale cittadinanza, è diretta emanazione dell’occupazione, ma il turismo di massa e la massiccia disneyzzazione della città contribuiscono ad aiutare notevolmente le autorità nell’obiettivo finale, risultando estremamente funzionali allo scopo di far abbandonare il centro di Gerusalemme alla comunità palestinese.

Questi fattori economici, che risultano in un fenomeno globale, sono quanto mai incentivati dal governo israeliano, in uno stravolgimento culturale che snatura completamente la cultura di riferimento del territorio, sostituendola etnicamente e culturalmente con una cultura parallela e preponderante, un apartheid portato avanti con gli strumenti della globalizzazione economica. Come ricorda un imprescindibile testo di Neve Gordon dal titolo L’occupazione israeliana, “Israele oggi agisce principalmente distruggendo le garanzie sociali più vitali e riducendo i membri della società palestinese a quello che Giorgio Agamben ha chiamato homo sacer, persone a cui può essere tolta impunemente la vita”.

La cittadinanza e lo sviluppo delle comunità non si mortificano con la sola violenza, i metodi anzi più efficaci sono come sempre quelli economici. Solo alcuni dati, a dimostrazione di quanto detto: le autorità di occupazione israeliane hanno chiuso circa 430 attività commerciali palestinesi nella Città Vecchia di Gerusalemme, negli ultimi due decenni. In relazione a questo e ad altri continui soprusi portati avanti dalle autorità è intervenuto anche il  direttore del Centro per i diritti sociali ed economici di Gerusalemme, Ziyad Al-Hammouri, che ha fatto notare la strategia delle autorità di occupazione israeliane, che non effettuano chiusure dirette, ma rafforzano le restrizioni imposte ai palestinesi costringendoli a chiudere i loro negozi.

Le restrizioni e le misure, ha affermato Al-Hammouri, includono tasse più elevate per i proprietari di negozi palestinesi rispetto ai proprietari ebrei, così come l’incentivo turistico all’acquisto solo in parti di città e luoghi gestiti da ebrei, la modifica degli itinerari turistici cittadini e la chiusura di ogni accesso libero dalla Cisgiordania.

Molti proprietari di piccole botteghe del centro storico non sono più in grado di raggiungere i loro negozi da quando, nel 2002, è stato eretto il Muro di separazione. Le rigide misure israeliane hanno portato alla chiusura dei negozi, con il conseguente svuotamento del centro storico di botteghe storiche.

Questo schema costantemente perpetrato in tutta Gerusalemme si riverbera in maniera catastrofica sulla popolazione palestinese, anche nella formazione dei giovani palestinesi: molti di loro decidono a un certo punto, per mancanza di alternativa, di andare a lavorare nei supermercati israeliani, nelle ditte israeliane, nel commercio israeliano o nel turismo israeliano; le scuole professionali, che insegnavano le antiche professioni e che tentavano di mantenere in vita le memorie dell’artigianato nella Città Vecchia oggi hanno più insegnanti che studenti, poiché non esiste alcun incentivo per la conservazione di queste memorie, che vengono anzi ostacolate dall’autorità israeliana in ogni modo.

Anche l’abbandono scolastico è alle stelle e il problema della droga tra i più giovani palestinesi, specie coloro che vivono a Gerusalemme, è una piaga sociale in costante aumento, andando a creare vere e proprie sacche di cittadini marginalizzati, che possono poi facilmente essere identificati come “problematici” dalle autorità israeliane.

Volendo dunque sintetizzare, possiamo arrivare ad affermare che quello che accade normalmente nelle nostre città, ovvero l’apertura di grandi catene di centri commerciali, spesso a opera di imprenditori stranieri, a Gerusalemme viene identificato come un processo di progresso, il progressivo cambio dei consumi della popolazione (sia palestinese che israeliana) ha portato come in tutto il mondo a preferire fare la spesa in grandi centri commerciali periferici piuttosto che nei piccoli negozietti del suq.

E questo fenomeno, che più o meno a livello globale è riconosciuto come un fenomeno da combattere, poiché svuota totalmente i centri cittadini di attività storiche, ed è riconosciuto come una perdita fondamentale della cultura immateriale dei luoghi, per Gerusalemme, dalla maggior parte della comunità internazionale, è invece avvalorato e incentivato come fosse un passaggio evolutivo positivo per i territori di riferimento, come se solo ed esclusivamente per quella parte di mondo si potesse tornare al boom economico senza sapere che cosa esso comporterà nel futuro, ma non dobbiamo nemmeno arrivare a preoccuparci del futuro, i danni sul territorio sono già visibilissimi anche nel presente.

Il fatto che la classe che paga maggiormente questo sistema economico corrisponda anche etnicamente alla fascia di persone che gli israeliani vorrebbero eliminare dalle strade della città e dallo Stato israeliano, rende questa trasformazione quanto mai auspicata da tutti i tifosi del sionismo spinto, i soli rimasti su suolo israeliano, non essendoci più alcuno spazio nella politica di Israele per istanze di sinistra, egualitarie, verdi e attente al clima.

Molte attività rimangono coraggiosamente aperte senza che siano vantaggiose economicamente, ma solo per esserci, una resistenza dunque che essendo resistenza culturale e popolare per salvaguardare la propria storia, diventa anche resistenza ad una formula economica.

Risulta piuttosto chiaro come la mummificazione di Gerusalemme rientri nelle politiche di  apartheid utilizzate da Israele. Molti palestinesi si vedono costretti a lasciare una Gerusalemme oramai del tutto modificata perché l’apertura degli esercizi commerciali non è più sostenibile. Inoltre, nel momento in cui gli esercizi commerciali chiudono, lasciando serrande chiuse nel centro della città, Israele sequestra e occupa gli esercizi commerciali che non possono più permettersi di affrontare le spese di affitto e manutenzione, pronti a sostituirli nel futuro con nuovi negozietti pieni di chincaglierie turche o cinesi a basso costo, per nuovi affittuari ebrei, come sta avvenendo.

Dunque, nel meccanismo drammatico della desertificazione dei luoghi storici si annida ciò che più di ogni altra cosa fa comodo allo Stato di Israele, recuperare terra, lotti,  esercizi commerciali, svuotare i luoghi storici per poterli riempire con una nuova narrazione, cancellare la stratificazione culturale.

Viene così ad essere distrutta la dignità, la socialità, l’esistenza stessa degli spazi pubblici di aggregazione, a favore della costruzione di grandi parchi a tema archeologico o presunto tale, spazi verdi e turistici per grandi comitive e pullman; in questo contesto rientra la grande operazione de “la città di Davide”.

La modifica dei flussi turistici della città, ovviamente celata dall’ idea di rendere maggiormente fruibile e agevole l’accesso alla città e la conoscenza delle culture, non fa che incoraggiare il solo turismo di massa, controllato e controllabile sia nei suoi percorsi che nei luoghi in cui esso riversa i propri soldi, con il risultato di distruggere del tutto un’idea  di turismo sostenibile ed etico, in funzione di una ricostruzione di presunti resti archeologici che rimandano alla storia ebraica, senza tener conto, non solo della stratificazione culturale del territorio, ma anche dei criteri scientifici di scavo e rinvenimento, con buona pace della comunità scientifica internazionale.

Quello che ci deve far riflettere, nei restauri in questi territori, è che per trovare un cantiere di restauro di una chiesa bizantina (epoca non utile ai fini propagandistici dello Stato), bisogna andare a Gaza. Nella più grande prigione a cielo aperto del mondo, gli studiosi dell’Università Islamica di Gaza lavorano ogni giorno, in un progetto che vede coinvolti anche i francesi legati all’Ecole Biblique domenicana di Gerusalemme, per tramandare un patrimonio ortodosso.

 

Gerusalemme, una colonia archeologica nel Medio Oriente

di Francesca Merz

 

L’organizzazione nazionalista israeliana Elad, proprietaria del Kedem Center e del sito archeologico “La città di Davide” ha come obiettivo principale la colonizzazione ebraica del quartiere palestinese di Silwan e gestisce siti turistici e archeologici: in particolare a Silwan gestisce per l’appunto quello che viene chiamato “La Città di David”. Scopo di Elad è fare di Gerusalemme una città ebraica in cui la storia e il patrimonio ebraico sia predominante, questo comporta, in maniera più o meno dichiarata, a seconda delle circostanze, la necessità di sradicare qualsiasi altro tipo di cultura presente sul territorio, quella palestinese ovviamente per prima. Elad impiegava 97 lavoratori a tempo pieno nel 2014 e, secondo Haaretz  ha ricevuto donazioni per oltre 115 milioni di dollari tra il 2006 e il 2013, diventando così una delle più ricche Ong israeliane. Un’altra organizzazione coinvolta nel cambiamento della composizione demografica di Gerusalemme è Ateret Cohaim, che punta a creare una maggioranza ebraica nella Città Vecchia e nei quartieri palestinesi di Gerusalemme Est.

Il caso di Silwan, quartiere oltre le mura della città Vecchia, a netta maggioranza palestinese, è assolutamente esemplificativo della politica israeliana. Il turista medio non si troverà mai a passare per questo quartiere, fuori da tutti i circuiti di visita delle guide turistiche israeliane (ricordiamo in questa sede che per ottenere il patentino di guida turistica in Israele è necessario fare una scuola certificata dal Governo israeliano e dare ai turisti le sole informazioni sulla storia approvate dal governo israeliano, le guide che raccontano una storia differente sono passibili di ritiro della licenza).

Il turista in solitaria che si dovesse trovare per caso ad arrivare a Silwan, si troverebbe apparentemente a dare ragione da vendere al “punto informazioni Visit Israel” che si sarà premurato di informarvi di non oltrepassare “la barriera”, oltre la quale ci sono sporcizia e terroristi. Varcato l’ingresso del quartiere palestinese di Silwan, il turista si troverà ad aver lasciato il benessere, la pulizia, i servizi di Gerusalemme Ovest, le catene di ristoranti con insegne internazionali, per essere catapultato in un quartiere, degradato, sicuramente popolare, ma in cui murales e campetti da calcio urlano fortemente le parole cittadinanza e comunità.

Silwan racconta la Palestina di oggi in tutte le sue contraddizioni, racconta di un quartiere dal quale i palestinesi non vogliono e non possono andare via per non perdere i pochissimi privilegi dell’essere comunque cittadini di Gerusalemme, un quartiere che Israele vuole far diventare un ulteriore spazio di costruzione di una storia fittizia. I cittadini di Silwan pagano al governo israeliano le stesse tasse che pagano gli abitanti di Jaffa street, pur non avendo autobus che ci arrivano, pur non avendo da parte del governo israeliano un solo servizio: pulitura strada, costruzione dei marciapiedi, finanziamenti per le scuole e le attività dei cittadini sono servizi che qui semplicemente non vengono effettuati, gli spazzini non raccolgono nemmeno la pattumiera, lo stato israeliano a Silwan non esiste, prende le tasse e copre la propria inesistenza con la solita propaganda sulla sicurezza: a Silwan i bambini tirano le pietre all’esercito, a Silwan ci sono i resistenti, i palestinesi con residenza a Gerusalemme, quindi i più ostici per gli israeliani, che si organizzano in comitati, che aprono i campetti da calcio per far giocare i bambini, che escono in strada ricoprendo i muri di graffiti che inneggiano al diritto al ritorno e alla resistenza al colonialismo; in quella periferia di resistenza sociale e culturale c’è il nemico più solido dell’espansione israeliana, ma anche il prossimo quartiere della lista da far diventare parco giochi per il turismo di massa, il prossimo quartiere da “rivalutare”, sul quale speculare, con la scusa dei nuovi spazi verdi e delle nuove scoperte archeologiche.

Silwan rimane oggi uno degli unici quartieri non mummificati di Gerusalemme, dove si respira la vita della cittadinanza, dove, pur senza alcun servizio garantito dal governo, se non quello dell’esercito che fa continue incursioni notturne, la popolazione vive, gioca, va a scuola, si ritrova nelle strade per condividere progetti, luoghi di comunità, dove la gentrificazione e il turismo di massa non arrivano. La longamanu di Elad però non demorde né demorderà, prendere Silwan è ora il prossimo obiettivo. Il grande progetto della “Città di Davide” sorge a pochi passi da Silwan, ed è in continuo ampliamento.Riportiamo una importante testimonianza raccolta da Al Jazeera english, e la confermiamo avendo potuto vedere ciò che sta accadendo.

“Israele sta creando una realtà storica immaginaria con scavi di tunnel nella Gerusalemme est occupata”, Fayyad Abu Rmeleh, 60 anni, teme che un giorno il pavimento e il cortile della sua casa crollino. Ogni giorno, dice, dalla mattina fino al tardo pomeriggio, la famiglia sente scavare e trivellare tunnel sotto l’edificio. Gli scavi condotti dalle autorità israeliane sono iniziati per la prima volta nel 2000, ma è stato solo cinque anni fa che loro hanno iniziato a notare danni alla casa. “Sta mettendo in pericolo le nostre vite,” dice Abu Rmeleh ad Al Jazeera. “Se ti guardi intorno trovi nuove crepe. Non sappiamo quanti tunnel ci siano sotto la nostra casa, ma crediamo che siano almeno tre.”

I cinquanta membri della famiglia Abu Rmeleh vivono nel quartiere Wadi Hilweh di Silwan, nella Gerusalemme est occupata, pubblicizzato come l’attrazione turistica della “Città di Davide”, dove secondo alcuni israeliani il re Davide biblico costruì l’“originaria città di Gerusalemme”, circa 3000 anni fa. Sotto la loro casa le autorità israeliane hanno scavato tunnel, cercando le tracce dell’epoca del Secondo Tempio. Nella sua casa si sono formate lunghe crepe irregolari in ogni direzione – sulle scale, vicino alle finestre in bagno e in sala, mentre in certi punti si sono staccati dal muro dei calcinacci. Fuori di casa una crepa lunga un metro e mezzo si snoda sul terreno.

Ma la casa di suo nipote, che si trova nello stesso edificio, è stata ancora più danneggiata. All’inizio del 2018 è stato obbligato ad andarsene con la moglie e i cinque figli, in quanto il terreno ha ceduto e può a malapena sostenere i muri.

A luglio le autorità israeliane hanno inaugurato il tunnel scavato da poco, “il Cammino dei Pellegrini”, che si estende da Wadi Hilweh al Muro del Pianto, appena fuori dal complesso di Al Aqsa nella Città Vecchia della Gerusalemme est occupata. Sono archeologi israeliani ad aver condannato duramente gli scavi: mentre Greenblatt e membri di “Elad” sono certi che il nuovo tunnel servisse come cammino dei pellegrini verso il Secondo Tempio, molti archeologi non lo sono, come ha notato in un articolo Yonathan Mizrachi, che vive a Gerusalemme.

Mizrachi, direttore dell’Ong israeliana “Emek Shaveh”, dice ad Al Jazeera che i tunnel che Israele ha scavato dentro e attorno alla Città Vecchia e a Silwan sono “problematici”. Finora non è stato pubblicato nessun articolo accademico o scientifico sui tunnel, né è stato pubblicato alcun dato su quello che è stato scoperto. Secondo “Emek Shaveh”, riguardo al “Cammino dei Pellegrini” non ci sono certezze relative alla datazione del canale di drenaggio.

Oltretutto i tunnel sono stati scavati orizzontalmente, rompendo in pratica con il metodo di scavo verticale dalla superficie in giù accettato da un secolo e utilizzato dagli archeologi in tutto il mondo. Le informazioni ottenute da scavi orizzontali sono quasi senza alcun valore. “Quando scavi orizzontalmente, non puoi capire esattamente come i vari periodi si sono sviluppati nel sottosuolo, non capisci correttamente quello che trovi perché lo vedi da una sezione laterale, non dall’alto,” dice Mizrachi. In precedenza due importanti funzionari dell’Autorità Israeliana delle Antichità, Jon Seligman e Gideon Avni, avevano criticato lo scavo dei tunnel, affermando che, contrariamente alla prassi accettata, è “cattiva archeologia” e “le autorità non dovrebbero essere orgogliose di questi scavi”.

L’ultima inaugurazione è emblematica del più complessivo problema: ai visitatori dei luoghi archeologici accompagnati nella Gerusalemme est occupata viene detto che gli scavi sono esclusivamente relativi alla storia ebraica, ignorando i diversi capitoli multiculturali della storia di Gerusalemme, come i periodi bizantino e omayyade.“La fondazione “Elad” ha creato una realtà storica immaginaria fondata sulle sue convinzioni religiose e sui suoi obiettivi nazionalisti piuttosto che su ritrovamenti archeologici e altre prove storiche”, ha osservato Emek Shaveh in un suo rapporto del 2017. Per esempio, secondo Emek Shaveh presso i famosi tunnel del Muro del Pianto resti di periodi non relativi alla storia ebraica rimangono per lo più ignorati dai visitatori, nonostante gli archeologi concordino sul fatto che la maggior parte dei reperti sia successiva alla distruzione del Secondo Tempio. In realtà la maggior parte degli scavi presso i tunnel del Muro del Pianto sono al di sotto di strati che sono totalmente musulmani, strutture dei Mamelucchi del XIV e XV secolo, nota Mizrachi.

Eppure quello che viene raccontato ai visitatori si concentra quasi esclusivamente sulla storia del Secondo Tempio. Uno degli spazi più vasti scavati nei tunnel del Muro del Pianto è un hammam (bagno turco) del periodo mamelucco, nel XIV secolo, ma nessuno delle centinaia di migliaia di turisti venuti coi bus saprà della sua esistenza e della sua storia, è stato convertito in un’esposizione dell’eredità ebraica, dedicato a raccontare la storia del pellegrinaggio degli ebrei a Gerusalemme, “ignorando quindi completamente il significato storico del sito in cui si trova”, ha scritto Emek Shaveh.

“Non ci sono indicazioni per fare in modo che il visitatore sappia che si tratta di una struttura mamelucca o che è stata costruita dal governatore di Damasco, Sayf al-Din Tankaz, responsabile della costruzione di alcuni degli edifici più considerevoli del tempo” ha ulteriormente commentato Mizrachi in un articolo. Allo stesso modo nel 2012 il governo israeliano ha deciso di progettare un Centro Biblico all’ingresso di Silwan, che avrebbe presentato storie bibliche e la loro importanza per gli israeliani. Eppure, secondo Emek Shaveh, nessun resto significativo di periodi biblici è stato scoperto in quel luogo.

A Silwan continuano gli scavi sotto le case palestinesi per trovare prove storiche dell’esistenza di Re Davide, in campagne archeologiche al contrario, ovvero partendo da un’idea e tentando in tutti i modi di trovare i resti archeologici giusti per quel che si vuole raccontare, e nascondendo con un certo impaccio tutti gli altri. Va sottolineato il fatto che gli archeologi mettano in discussione le testimonianze dell’esistenza stessa di un regno nel X secolo a.C, che è alla base di tutta la narrativa e della nascita dello Stato di Israele, nonché di tutte le informazioni dati ai turisti.

“C’è un dibattito molto acceso tra gli archeologi su quanto avvenne a Gerusalemme nel X secolo a.C., il periodo che si intende come l’epoca di Davide e del regno di Salomone”, dice Mizrachi.

“Le testimonianze archeologiche sono molto poche e non ci forniscono il quadro di una vera e propria città, né assolutamente di una città vasta, grande, importante.” Non esistono dunque evidenze archeologiche dell’esistenza della città di Davide sotto Gerusalemme.

Mizrachi afferma che gli scavi del tunnel fanno “tutti parte di un progetto politico”. “Sfortunatamente Israele sta utilizzando questi tunnel mascherati da scavi archeologici, ma in realtà ciò fa parte dell’obiettivo di impedire che Gerusalemme rientri in qualunque soluzione politica,” afferma Mizrachi. “Pensiamo che sia un’altra forma di colonizzazione. È una colonia senza persone, ma si tratta di una colonia archeologica. Non è meno problematica, ma persino di più, rispetto ad altre colonie”.

In merito al dibattito internazionale che questi scavi hanno sollevato negli anni e tutt’ora sollevano, è quanto mai esemplare rendersi conto di come esso non tocchi né abbia toccato minimamente l’informazione sulla stampa italiana, ricordiamo un titolo dei tanti: titola “La Stampa” del 15 luglio 2019 “Gerusalemme, la strada dei pellegrini ebrei torna alla luce dopo 2000 anni”, con un incipit che così racconta la scoperta “L’antica strada dei pellegrini per salire verso il Tempio di Gerusalemme riappare dalle viscere della città e consente di immergersi in ciò che vi avveniva oltre 2000 anni fa. Il sottosuolo di Gerusalemme conserva intatte le tracce della genesi del monoteismo e quelle dei pellegrini iniziano ad affiorare, quasi per caso, in una giornata del 2004 quando salta una tubatura nel quartiere di Silwan, a sud-est della Città Vecchia. Alla presentazione del nuovo percorso turistico e di pellegrinaggio, ha preso parte l’ambasciatore americano in Israele David Friedman, che ha materialmente abbattuto, in un gesto simbolico di grande rilevanza, il muro che apre la “Via dei Pellegrini”

L’uso dell’archeologia è dunque un ennesimo metodo di espulsione della cittadinanza palestinese, una narrazione data in pasto con facilità ad un turismo sempre più distratto e superficiale. In pochi vi diranno che a Silwan prima del 1967 c’era la più grande ricchezza contadina e commerciale dell’intera Gerusalemme, l’80 per cento della popolazione era infatti costituita da agricoltori, e proprio qui venivano coltivati l’80 per cento dei prodotti che si commercializzavano in Gerusalemme e in Israele, era uno dei più ricchi distretti agricoli di tutto il territorio, quello che ora è stato trasformato dall’occupazione israeliana in un quartiere militarizzato e degradato. Il tentativo è sempre il medesimo: disconnettere i palestinesi dalle loro terre, esattamente come la grande industrializzazione dell’occidente ha fatto con i contadini, per trovarsi ora con città sovraffollate e borghi da ripopolare. Anche in Israele il comune denominatore utilizzato è il progresso, i nuovi piani regolatori sono modificati ad ogni nuova “evidenza archeologica” biblica, così sorgono ovunque nuovi sfavillanti musei e parchi cittadini, ai nostri occhi progetti di grande lungimiranza, ma gli occhi raccontano spesso storie fasulle, sia i primi che i secondi sono metodi per distruggere una storia, una comunità. Nena News

 

 

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