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Giordania, novembre 2018

 

Una vista aerea del campo profughi di Zaatari, il settimo al mondo per dimensione,

di Francesca Borri

 

La guerra, in Siria, è agli sgoccioli. I negoziati sono in stallo, sì: ma perché sostanzialmente, Assad ha vinto. Il 31 luglio l'esercito ha riconquistato anche Daraa, la città da cui è iniziata la rivoluzione. E a ottobre la frontiera con la Giordania, che è a poca distanza, è stata riaperta per consentire il rientro dei profughi. Che qui sono 1,2 milioni.
Sono tornati a casa 161 siriani.
Ogni fine settimana, una lunga fila di auto è in coda all'al-Nasib, il principale passaggio di confine. Ma sono tutti giordani: approfittano dei prezzi più bassi per un po' di shopping in Siria. Sono un'illusione ottica. Come le statistiche. Nel corso del 2017, sono tornati a casa 721mila siriani - 655mila sfollati, tornati da altre aree del paese, e 66mila rifugiati. Ma per ogni siriano che è tornato, tre sono andati via. 
Con i suoi 87mila abitanti, Zaatari è il settimo campo profughi al mondo. E a sei anni dalla sua fondazione, più che un campo profughi ormai è una città. Con la sua griglia di container tutti uguali, grigio chiaro, le strade larghe di terra battuta, ricorda la Siria rurale. All'ingresso c'è un checkpoint: ma anche le rastrelliere per le biciclette donate dall'Olanda. E i giornalisti si affollano a raccontare il lavoro delle ONG, che qui hanno dato il meglio di sé: Zaatari va persino a energia solare. Non ha più niente della sterminata distesa di tende e lamiere degli inizi: quando aveva 150mila abitanti, e i bambini ti fissavano stravolti, masticando cartone per spegnere la fame. Oggi ha 5 cliniche e 24 scuole, e anche una sua rivista, e i suoi 3mila negozi generano un giro d'affari di 13 milioni di dollari al mese. La via principale è un susseguirsi di panettieri, fruttivendoli, barbieri, falegnami, elettricisti, pasticcieri: i siriani l'hanno ribattezzata Shams-Élysées - in arabo, Shams è il nome della Siria. Ed è facile girare per ore, tra un caffè e un dolce e una chiacchierata su Ronaldo alla Juventus. Soprattutto adesso. Tra un po', invece, a gennaio, a febbraio, i ragazzini avranno ancora le stesse infradito: ma nella neve fino alle caviglie. Perché è facile distrarsi con le vetrine delle sartorie di abiti da sposa: e dimenticare che il 44 percento di quelle spose saranno spose bambine. Spesso vendute per povertà ai ricchi del Golfo. 
Ogni container ha la sua antenna satellitare sul tetto: su un tetto pieno di pietre, però, perché altrimenti al vento vola via. La conquista, qui, è stato il wc chimico in casa. Perché quando un campo profughi diventa una città, è un progresso o un regresso?
Zaatari è una pagina di Orwell.
In una delle scuole gestite impeccabilmente dal Norwegian Refugee Council, tre ragazzine di 14 anni aspettano l'inizio della lezione di inglese. Sembrano avere 10 anni, in realtà, non di più, sono magre, minute: l'effetto di una vita di miseria e privazioni. Perché poi, anche se sono come tutte le ragazzine del mondo, una che sogna di studiare astronomia, un'altra medicina, un'altra letteratura, ti richiamano subito alla verità. Di Zaatari ti dicono: Si sta bene, ma ti ammali sempre.
Domandi che ricordo hanno della Siria, e si guardano smarrite. Nessuno.
Ahmed ha 23 anni, una cicatrice alla tempia, e anche se evita prudentemente di dirlo, è uno dei ragazzi della rivoluzione. Viene da Homs, lavorava come operaio in Libano: è rientrato in Siria nel 2011. Viene dalla generazione di piazza Tahrir, che ha scardinato il Medio Oriente con forza e coraggio: e ora invece ti sta davanti a testa bassa. E di Zaatari ti dice solo: Si sta bene. Qui non ti spara nessuno. Come se a 23 anni, questo fosse tutto quello che chiedi alla vita. Non essere ucciso.
La Giordania è il paese che tratta meglio i siriani. E non solo. Perché i rifugiati, qui, sono il 10 percento della popolazione - prima dei siriani sono arrivati gli iracheni, e prima degli iracheni, i palestinesi. E nessuno ha mai avuto problemi. Un po' perché i rifugiati, con tutto il giro delle ONG e delle agenzie dell'ONU, sono ossigeno per l'economia. Una ONG come il Norwegian Refugee Council compra sul mercato locale beni per 4 milioni di euro l'anno. E però al fondo, spiega Matteo Paoltroni, dell'Unione Europea, che dall'inizio della guerra qui ha speso 1,2 miliardi di dollari, le ragioni sono altre. Questo, dice, è uno di quei casi in cui l'artificiosità delle frontiere del Medio Oriente ha un ruolo positivo. Tra Siria del sud e Giordania del nord, non solo sono tutti arabi: sono tutti fratelli e cugini. Ma soprattutto, dice, le ragioni vere sono ragioni morali. Durante l'ultima offensiva, quella con cui Assad ha riconquistato Daraa, la Giordania aveva chiuso il confine. Un po' perché temeva infiltrazioni jihadiste, un po' perché temeva altri profughi - e per i siriani, spende già 2,5 miliardi di dollari l'anno. Nonostante gli aiuti internazionali, il suo debito pubblico è raddoppiato. E la domanda di acqua è aumentata del 40 percento. E gli affitti, con l'83 percento dei siriani che abitano non nei campi profughi ma in città, sono aumentati del 300 percento. Il governo temeva il collasso. Ma i giordani hanno chiesto di riaprire il confine. Non importa se siamo poveri, hanno detto. Condivideremo il poco che abbiamo.
Ma è dura anche qui. Abdul Kareem vive con la moglie e i tre figli a Beit Ras, a ridosso del confine, in due stanze tutte scalcinate il cui intero arredamento consiste in un vecchio televisore, un vecchio armadio e un vecchio frigorifero. Per terra, dei tappeti che in realtà sono delle coperte tutte lise. Ricevono 100 dollari al mese dal World Food Program, dice. Nient'altro. E mentre parla, pensi solo che non hai più niente da domandare ai siriani: né più niente da ascoltare. Perché non c'è che questo tempo immobile, qui, in questa casa che non è neppure una casa, alla fine, in nessun significato possibile, è solo un riparo dal vento e dalla pioggia, perché non c'è vita, dentro: ci sono solo i giorni che passano tutti uguali. Dove ti immagini tra 5 anni?, chiedo ad Abdul Kareem, tipica domanda della corrispondente di guerra, "Dio solo lo sa", mi risponde - tipica risposta del profugo.
L'unica cosa che sa, è che non si pente della rivoluzione. "Qui non è vita", dice. "Ma non era vita neppure in Siria".
Nessuno ha la minima intenzione di tornare. E non perché c'è la guerra: perché c'è Assad. E quindi, mentre la comunità internazionale assicura che le condizioni, in Siria, migliorano, le ONG, con più realismo, o forse solo più onestà, lavorano invece all'integrazione dei siriani. Qui, per esempio, sono tutte concentrate sulla loro regolarizzazione. Sui documenti. A cominciare dal certificato di matrimonio, che in Siria non si usa: ma senza, in Giordania i tuoi figli non possono avere un certificato di nascita. Iscriversi a scuola. Essere vaccinati. Niente. Mercy Corps ha creato una pagina Facebook con tutte le informazioni necessarie. E con un avvocato che risponde a ogni altra domanda. Il minimo dei costi, con il massimo dei risultati. Ancora una volta: il meglio delle ONG. Ma il problema, è inutile: è politico. Ismail e Mohammed sono qui per dei documenti, e sono uno cristiano, l'altro musulmano, differenza che non gli impedisce di essere amici: e di detestare entrambi Assad. Sono stati entrambi in carcere. Parli dei documenti, parli della vita qui, degli aiuti umanitari, se sono sufficienti o insufficienti: ma il discorso si riavvita sempre su Assad. Vogliono dirti dei suoi crimini: non delle biciclette donate dall'Olanda.
Negli uffici delle ONG, delle agenzie dell'ONU, dell'Unione Europea, sono tutti obbligati a misurare le parole, ma non c'è verso di girarci intorno. Anche perché il diritto internazionale non parla genericamente di ritorno, ma di "dignified return". Un ritorno in dignità. E in Siria invece non solo mancano le infrastrutture di base: ma tanti temono vendette e rappresaglie. Per tornare, prima che attraverso una frontiera si passa attraverso una commissione di riconciliazione: rientra solo chi si impegna a non opporsi più al governo. E potrebbe non bastare. Il generale Issam Zahreddine ha già chiarito che non importa cosa decide il governo: l'esercito, ha detto, non dimenticherà né perdonerà.
Ma poi: tornare dove? Durante l'offensiva di luglio, quella con cui Daara è stata infine riconquistata, mentre, in teoria, era in vigore una tregua, la casa di Abdul Kareem è andata distrutta. Dove dovrei tornare, dice? Ormai saremmo profughi anche in Siria.


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