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23 dicembre 2019

 

L’Italia in Libia è stretta tra due contraddizioni. Serve dialogo con Mosca e Il Cairo

di Gabriele Pedrini

 

Tutti gli attori internazionali hanno agito in ordine sparso, ognuno secondo la propria specifica agenda. Tradotto: ogni Stato si è limitato a perseguire il suo solo interesse. Ora che fare da Roma?

 

Se l’Italia e l’Europa ambiscono a porre fine alla crisi libica la via è una e richiede il dialogo con Mosca e il Cairo.

L’Italia, dopo aver deliberatamente permesso che nel 2011 il suo più importante alleato del Mediterraneo venisse aggredito e rovesciato, si è trovata a recitare la parte del più attendista degli onusiani, salvo poi svegliarsi nel 2019 e scoprire che altri e più attivi attori internazionali l’avevano scalzata dalla sua posizione di preminenza nel Paese nordafricano.

Gli otto anni di guerra e conflitto che hanno devastato la Libia, hanno visto tutti gli attori internazionali agire in ordine sparso, ognuno secondo la propria specifica agenda. Tradotto: ogni Stato si è limitato a perseguire il suo solo interesse. Questo modus operandi si è tradotto in una logica per la quale ognuno degli attori esterni coinvolti si è limitato a individuare e sostenere il suo proprio interlocutore libico in grado di garantire una rappresentanza dei suoi propri interessi. Interessi già presenti o futuribili.

Col senno di poi, a poco o nulla sono valse le iniziative in ambito Onu, perché nessuno ha mai creduto sino in fondo alla soluzione multilaterale. O, peggio, perché alcuni attori esterni hanno sin da subito agito in maniera antitetica rispetto a quanto concordato nell’ambito delle Nazioni Unite.

 

Ora l’Italia si trova in una situazione di scacco – ancora non del tutto “matto” – e deve affrontare due grosse contraddizioni: la prima nel rapporto di apparente vicinanza tra Roma e Ankara (che in realtà è un rapporto di rivalità); la seconda nella dialettica di antagonismo tra Ankara e Mosca (che in realtà è una dialettica di potenziale reciproco vantaggio).

 

La prima contraddizione emerge in quella che per diversi mesi è apparsa come una convergenza parallela tra Italia e Turchia nel sostegno al governo di Tripoli, contro le rivendicazioni di Bengasi. Perché se da una parte sarebbe lecito supporre che tale sostegno sia legato come causa o effetto di una tacita alleanza tra Roma e Ankara, i recenti eventi hanno dimostrato che questa condizione di apparente convergenza parallela non è né il frutto di visioni condivise né, tantomeno, di improbabili alleanze. Anzi.

Quella che poteva essere percepita come una convergenza tra Roma e Ankara si è palesata per essere piuttosto una divergenza, tanto di interessi quanto di strategie. Negli anni, infatti, la Turchia si è ritagliata un ruolo sempre più importante tra i Paesi che sostengono Tripoli. E lo ha fatto con una prassi sempre più assertiva, riempiendo uno spazio lasciato vuoto dall’Italia e dall’inconsistenza dell’iniziativa delle Nazioni unite, il cui percorso, delineato sulla carta, non ha trovato un effettivo riscontro nella pratica.

 

La seconda contraddizione riguarda la dialettica tra Ankara e Mosca. Se infatti Turchia e Russia sostengono e foraggiano gli opposti fronti di Tripoli e Bengasi, la rivalità sul campo pare non tradursi in una rivalità strategica. Anzi, tale competizione sembra puntare a realizzare sul terreno le condizioni di fatto per cui Ankara e Mosca, nel breve-medio periodo, possano accordarsi, anche a discapito dell’Italia, su soluzioni di reciproco vantaggio. Esattamente come avvenuto nel contesto siriano.

Lo spazio vuoto occupato dalla Turchia, se è diventato tale è stato anche a causa dell’attendismo dell’Italia, che più di tutti avrebbe avuto l’interesse a che il percorso delle Nazioni Unite avesse successo o, quantomeno, portasse a un grado successivo di soluzione del conflitto.

 

L’Italia, dunque, che avrebbe potuto e dovuto fare di più, è stata politicamente inerte, limitandosi a scaricare sui propri apparati tutta la responsabilità operativa e l’ordinaria amministrazione del dossier libico. Coi seguenti risultati: 1) aver lasciato alla Turchia l’iniziativa politica e ampi margini di manovra nei confronti del governo di Tripoli; 2) aver reso possibili le condizioni per cui il governo di as-Sarraj potesse essere attratto – per spirito di sopravvivenza – dall’abbraccio dell’interventismo turco; 3) ritrovarsi, dulcis in fundo, un ingombrante rivale nel suo stesso campo.

Dunque, lo scenario libico si presenta oggi, per certi versi, come una riedizione del conflitto siriano, in scala nordafricana. I due attori più attivi nel Mediterraneo orientale (Turchia e Russia) hanno gradualmente guadagnato una posizione tale che, se nei prossimi mesi non avverrà qualcosa di nuovo, potranno facilmente accordarsi su una spartizione delle rispettive sfere di influenze, se non su una vera a propria divisione della Libia. Con buona pace di tutte le iniziative multilaterali, dell’unità, dell’integrità e della sovranità della Libia.

 

Che fare?

L’Italia e l’Europa devono ora recuperare il tempo perso, nel più breve tempo possibile. Per farlo, è necessario trovare una solida unità d’intenti a livello europeo e, se necessario, riconsiderare le modalità del sostegno alle attuali leadership libiche, anche a costo di favorire una terza via rispetto alle ormai logorate figure che da anni dominano la scena libica. Ma un passo fondamentale è il dialogo con Mosca e Il Cairo, gli attori che più influiscono nel quadrante orientale della Libia e senza i quali ogni buona intenzione di trovare una “soluzione politica” rischia di essere vana. In caso contrario, l’alternativa sarà l’esito di una “soluzione militare”. Per la gioia di Ankara.

 

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