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26 Maggio 2020

 

L’EPIDEMIA E IL CETO ‘COLTO’

di Zory Petzova

 

Nessuno ha un interesse per le libertà personali maggiore di quello dei ceti comuni, secondo Machiavelli, visto che nessuno può conoscere meglio di loro gli appetii dei potenti. Una massima che rende scontato il criterio secondo cui la vitalità di una società si misura dalla capacità di reazione sincronizzata dei suoi individui, nel momento in cui essi sentono di non tollerare ulteriori imposizioni e ingerenze da parte dei governanti. In questo periodo di restrizioni delle libertà, la capacità reattiva degli organismi sociali si è manifestata in diversi paesi, europei e non europei, ma non ha avuto luogo in Italia, se non in forme frammentate e individuali, accolte dalle forze dell’ordine con metodi inediti di soppressione dei diritti costituzionali della persona.

Tale definizione di vitalità non può valere per il ceto ‘colto’, in quanto esso è ontologicamente conservativo, e non reattivo, rispetto allo status quo e il potere, che intimamente difende, anche se spesso dissimula il proprio conformismo con la costruzione di soluzioni teoriche del bene comune, ma per quanto i ‘colti’ possano affermare di voler perseguire il bene comune, essi sono inevitabilmente ancorati ai loro interessi personali e al loro desiderio di prestigio e di riconoscimento politico. Infatti, appena messi in condizione di dover esprimere la propria criticità verso le gerarchie di riferimento, essi dimostrano di avere poca sensibilità per gli interessi comuni e poca preoccupazione per la violazione di inviolabili diritti, non nascondendo la loro totale avversione a qualsiasi forma di protesta di massa.

Un atteggiamento che è tutt’altro che ambiguo, vista la chiara adesione del ceto ‘colto’ alla lunga catena di elaborazioni teoriche in difesa dello status quo, nel quale ambito esso ha potuto passare con grande disinvoltura dall’anti democrazia (velata da premesse meritocratiche), all’anti populismo di lunga tradizione guicciardiana, e negli ultimi anni all’anti complottismo come bandiera di distinzione culturale targata “mainstream”.

Quest’ultimo in effetti è la sua attuale performance ‘d’urgenza’, provocata dalla prolificazione di innumerevoli tesi e riscontri empirici che rivelano un preesistente e ben articolato piano di gestione dell’attuale epidemia da parte delle tecnocrazie mondiali, in relazione al quale esiste, tra l’altro, un eccellente studio di analisi del francese Patrick Zylberman, che dimostra come questo piano abbia già cercato di mettere radici in altre occasioni, a partire dal 2006 con la previsione della “grande pandemia” dell’aviaria, ma finora ha sempre fallito per motivi di inconsistenza oggettiva. Sarà la pandemia attuale la volta buona?

Le numerose evidenze non proprio dietrologiche hanno messo in seria crisi il ceto ‘colto’ e le sue capacità argomentative, istillando nelle sue file una certa angoscia, per cui esso ha deciso di prendersela con i complottisti, in cui vede una minaccia per l’esercizio collettivo della razionalità e il mantenimento di un corretto ordine sociale da pandemia.

Mentre nell’ambito dell’anti populismo i ‘colti’ cercavano di cavarsela con le solite teorie elitiste sui bassi istinti dei ceti comuni che seguono il leader carismatico perché in lui trovano i bias di conferma, che li rende un gregge (comunque vada, arrivano sempre a questo riduzionismo), in questo contingente, non potendo più negare l’ovvio, essi non sono più i soliti a riproporre i loro stratagemmi per un  mondo giusto, ma si rendono promotori passivi della censura, ratificando, o quanto meno non denunciando, la censura ufficiale del pensiero libero, applicata a professionisti e studiosi controcorrente, fra cui tanti medici di prima linea che hanno fornito informazioni e soluzioni indispensabili per l’epidemia. Censura promossa dal Comitato governativo per la scienza e contro le notizie fake, composto in gran parte dai cosi chiamati “debunkers”, che già di per sé rappresentano un’offesa all’intelligenza umana.

Mentre l’accusa di complottismo, rivolta ai “creduloni”, fino a qualche anno fa poteva avere ancora qualche vaga ragione formale per il fatto di essere riferita a teorie e ipotesi congetturali non dimostrabili direttamente, nel contesto dello scenario pandemico le elites tecnocratiche non solo non nascondano la loro intenzionalità di intervento radicale nel controllo della società, ma ostentano apertamente la loro capacità di sopraffazione sui governi e le procedure democratiche, in particolar modo sul governo italiano, costituendo conflitti d’interesse che superano di gran lunga la necessità di risposta contingente a una crisi pandemica.

Ma cosa è il ceto ‘colto’, come si compone socialmente e come si distingue simbolicamente per differenziarsi rispetto al ceto comune, e per potersi opporre alla sua impulsività populista e complottista con la voce ‘colta’ della ragione?

Parafrasando il filosofo Stefano Sissa, i ‘colti’ (da non confondere come categoria con quella degli intelligenti, che è di valenza universale) sono le persone che svolgono professioni intellettuali o dirigenziali, anche creative, per i quali è molto importante l’immagine che il pubblico si crea di loro; hanno spesso ruoli professionali poco soggetti a oscillazioni (anche qualora si dovessero presentare dei lockdown più protratti), con minori rischi di declassamento e discrete possibilità di carriera, che richiedono di mostrarsi affidabili e alienati rispetto agli apparati di cui fanno parte.

Per deformazione professionale amano discutere su ogni accadimento sociale, confidando più del dovuto nel fatto che i problemi innescati all’interno delle relazioni sociali si possono risolvere già solo attraverso un’adeguata tematizzazione nell’ambito dell’opinione pubblica, che condizionerà in questo modo, senza uso di forza, il potere decisionale delle istituzioni, portando alla soluzione dei problemi.

In quanto organici alle strutture dirigenziali- burocratiche, accademiche, aziendali, o quanto meno proiettati verso tali posizioni, i ‘colti’ sono portatori di modelli cognitivi volti a rendere socialmente accettabile e rassicurante il paradigma vigente, comprensibilmente poco disponibili a repentini cambi di metodologia conoscitiva ed epistemologica, anche qualora ci siano tutte le premesse empiriche per questo.

Sono portatori di una coscienza ‘corretta’, depurata dagli aspetti inquietanti della realtà (tagliati dal loro campo visivo come innominabili tabù), e a dispetto del loro sbandierato acume, si affidano in modo piuttosto acritico alle versioni ufficiali fornite dalle autorità politiche e mediatiche, o dal sistema di divulgazione scientifica, senza mai problematizzare il fatto che tali conoscenze e informazioni provengano da apparati sociali che funzionano secondo logiche non necessariamente improntate all’obiettività.

Una definizione esaustiva come quella di Sissa merita una breve rassegna storica per evidenziare il processo involutivo che la gestione del sapere pubblico ha dovuto subire nelle sue declinazioni storiche, fino ad arrivare alle attuali forme di arroccamento del sapere esclusivo dei cosiddetti “gruppi di esperti” che tanto suggestionano il ceto ‘colto’.

Nell’antica tradizione greco-romana, la figura del sapiente attingeva autorità simbolica non solo dalla sua vocazione innata, ma anche dalle sue capacità personali, per cui l’unione fra sapere, impegno sociale e valore etico era inscindibile.

Per tutto il medioevo il sapere viene concepito come espressione di un talento innato, e non come un’abilità conseguita per via istituzionale, il che rende possibile il grande salto rivoluzionario dell’Illuminismo: Galileo, Descartes, Spinosa, Leibnitz erano pensatori liberi che, senza appartenere a gruppi di potere simbolico, hanno influenzato in modo radicale tutti i rami della scienza.

Il periodo in cui opera Kant sarà l’ultimo che riconosce ancora il libero pensatore senza definirlo dilettante, ma con la burocratizzazione dell’ordine sociale e l’automatizzazione dei processi produttivi vengono imposti i formalismi e le finzioni giuridiche, accademiche, sociali, il che porta al progressivo declino del pensiero indipendente, ulteriormente mortificato dal dominio delle ideologie sociali.

Nell’Ottocento l’università diventa l’unico ente giuridicamente riconosciuto a cui viene conferito il potere di gestire il capitale simbolico del sapere, attraverso procedure interne di attribuzione di certificati, nomine, titoli che denotano un’esplicita gerarchia accademica, da cui viene escluso ogni libero pensatore non alienato al suo sistema rigorosamente codificato.

All’antica concezione del sapere come talento si sovrappone l’idea del sapere come metodo- razionale e asettico, mirato al conseguimento di risultati (profitto), una tendenza che nel post modernismo determina la qualifica strettamente specialistica come criterio di utilità sociale. L’idea del genio, o dell’eretico prodigio che destruttura i paradigmi dominanti, viene abolita a priori perché diventa scomoda per i nuovi centri del potere simbolico.

Le università vengono ordinate gerarchicamente in una graduatoria di merito (ranking list), dove le prime dieci dettano gli standard per tutte le altre, diventando “think tanks” tecno scientifici e biopolitici con appannaggio esclusivo della ricerca, che viene opportunamente finanziata dai gruppi d’interesse.

Circa un decennio fa questo panorama viene turbato dall’improvvisa e veloce diffusione della rete come mezzo di comunicazione e libera circolazione di informazione, dando finalmente la possibilità all’utente di diventare emittente, e non solo ricevente, di contenuti particolari, alternativi ai canali ufficiali.

Questa democratizzazione dell’informazione paradossalmente provoca una certa contrazione fra i ceti ‘colti’, che per non perdere credibilità si impegnano a maggior ragione di promuovere sulle piattaforme il sapere degli ‘esperti’ e notizie e interpretazioni provenienti solo dalle agenzie o dai media ufficiali, intraprendendo una sottile azione di delegittimazione del pensiero alternativo, inizialmente con la campagna di stigmatizzazione, e in seguito con la diretta invocazione della censura da parte degli amministratori delle piattaforme virtuali.

Nonostante questa deriva, attualmente i canali web di informazione indipendente, che danno voce ai migliori portatori di coscienza sociale (storici, economisti, costituzionalisti, medici) riscuote complessivamente un seguito molto più numeroso rispetto ai canali di promulgazione mainstream, a quale rimane un pubblico sempre più confuso e assottigliato. Si potrebbe dire che c’è una massa critica, un’intelligenza collettiva che sta crescendo, e che destruttura il sapere degli esperti dell’establishment con un inattaccabile metodo etico/scientifico che non teme confronto.

Ovviamente tanti degli esponenti del pensiero non alienato vengono etichettati dai ‘colti’ come complottisti, senza alcuna valida confutazione delle loro tesi. Ma può il ceto ‘colto’ giustificare il proprio anti complottismo con un’analisi corrispondente alla realtà? La domanda è retorica, perché il problema del ceto ‘colto’ è che non vuole accettare la realtà. Nel contesto dell’attuale epidemia esso si rifiuta di vedere  quello che hanno visto diversi osservatori che, come Agamben, temono che la situazione che stiamo vivendo sia “un esperimento più ampio, in cui è in gioco un nuovo paradigma di governo degli uomini e delle cose”, uno scenario che non risparmierà nemmeno i ‘colti’ e la loro sindrome del mondo giusto, dove ogni cittadino non avrà più il diritto alla salute, ma diventerà giuridicamente obbligato alla salute, e dove, per citare di nuovo Zylberman, la bio sicurezza e l’implicito distanziamento sociale saranno il nuovo ordinatore sociale.

Sicuramente i ‘colti’ aspettano che le macro dinamiche diventino talmente cogenti da non poter più essere ridicolizzati per complottismo nel riconoscerle, ma fino a quel momento accuseranno di pregiudizio o di paranoia ogni interlocutore che vede una dietrologia. Perché, per finire con Sissa, mentre un complottista può essere ridimensionato nella sua inclinazione paranoidea attraverso forme ragionevoli e empiricamente controllate di valutazione della realtà, il ‘colto’ anti complottista ha la presunzione di operare già al massimo possibile delle sue funzioni cognitive, laddove in realtà ha soltanto sovrapposto ai meccanismi di difesa primitivi altri meccanismi di difesa più evoluti (da intendere razionali), la cui destrutturazione viene percepita dal soggetto con sgomento come un mero regresso al suo nucleo fondante psicotico.

Per cui, nell’attuale contesto endemico, il ceto ‘colto’ anti complottista non solo si rivela quello maggiormente soggetto ai meccanismi del pensiero magico (pensiero che esso attribuisce volentieri al popolo) ma diventa il soggetto più dannoso per la società perché, usando la propria credibilità sociale, impedisce di mettere a tema questioni molto importanti e molto urgenti, come in questo contesto la perdita delle libertà democratiche, a partire dalla sacrosanta libertà di pensiero. Intimamente il ceto ‘colto’ è anti democratico, e l’attuale epidemia ne è la conferma definitiva.


Zory Petzova, di origini bulgare, si considera un’emigrata del comunismo, anche se è venuta in Italia un po’ dopo il suo crollo, nel ’93. Laureata in Scienze Politiche, lavora nel settore dell’economia reale, commercio e arredamento.

 

26.05.2020

 

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