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17 giugno 2020

 

Perché bisogna capire in fretta dove ha sbagliato l’Oms

di Francesco Boezi

 

Il professor Davide Zella si definisce l”ala destra” del professor Robert Gallo. Zella è originario di Pavia, ma lavora negli Stati Uniti, nello specifico in Maryland, da molti anni ormai. Dirige il Laboratory of Tumor Cell Biology e, nel corso di queste settimane, il suo nome è balzato agli onori delle cronache per via di uno studio sulle sequenze genetiche del Sars-Cov2. Zella è insomma uno di quegli italiani che ha assistito all’epidemia che ha attecchito nel Belpaese da lontano. Ma la virologia degli Stati Uniti è decisamente un ambito privilegiato tra quelli da cui i fenomeni possono essere indagati. E ora gli States, per stessa ammissione del professore, si trovano in un punto pandemico diverso rispetto al nostro. In questi mesi, abbiamo avuto a che fare con parecchi esperti di virus. Virologi che hanno presentato argomentazioni e tesi molto diverse tra loro. Nella nazione governata da Trump, invece, le cose sembrano andare in maniera diversa. Siamo partiti da questa semplice considerazione.

 

Come mai tutta questa confusione scientifica? Negli States sembra prevalere il pragmatismo...

Bella domanda. La scienza ha bisogno di pareri difformi, perché procede per ipotesi. Il bello della scienza in effetti è proprio questo. Bisogna però bilanciare il tutto. In situazioni come questa del Sars-Cov2, occorre una centralizzazione, per trovare il cuore, le risorse, del problema. Non è facile riuscire a risolvere tutto. Certo è che se durante momenti difficili la televisione dà spazio a tutti i punti di vista, le persone, gli spettatori, non possono che fare confusione. L’esempio sulla bontà dell’utilizzo delle mascherine, in questo senso, rappresenta ormai un classico.

 

Voi avete studiato le sequenze genetiche di questo virus. Si può parlare di ceppi diversi o di mutazioni specifiche?

Nel momento in cui una persona decide di classificare certi organismi, deve porre dei limiti. Non stiamo parlando delle differenze tra il genoma dell’uomo e quello di un topo: in quel caso le differenze, per quanto mitigate dalle percentuali, sono evidenti. Un discorso diverso riguarda gli organismi virali: in quella circostanza bisogna stabilire una soglia. Perché si opera all’interno di una stessa famiglia. Una mutazione determina una differenza tra ceppi o no? Per definizione è chiaro che una mutazione può produrre due organismi diversi, ma poi bisogna vedere quanto questa mutazione influisce nel complesso del virus. Delle differenze proteiche, in caso di mutazione, ci sono. Ma molte mutazioni non cambiano il comportamento dell’organismo.

 

E quindi?

Esistono mutazioni che non producono effetti significativi e mutazioni che, pur apparendo a cluster, non generano differenze rilevanti, ma producono classificazioni. E poi mutazioni che gli algoritmi dei computer interpretano come completamente diverse, assegnando dunque quel virus ad una nuova specie. Parlo di qualcosa di pesante, come una ricombinazione. Se cambia qualcosa in un gene che non ha effetto sul corpo umano, c’è un cambiamento, ma noi non ce ne accorgiamo. Si tratta di un continuum in cui è facile perdersi. Molto dipende dal livello della soglia stabilita da chi studia il virus. All’inizio di questa storia, noi abbiamo notato una mutazione in Europa sulla polimerasi. Bastava a dire che il virus sta cambiando? Era diverso dal cinese, questo sì.

 

La conclusione è che il virus si sta indebolendo o no?

Studiare la contagiosità non può prescindere dalla disponibilità di modelli. Le cliniche, come sa, erano intasate. Dal punto di vista di un laboratorio? Noi stiamo riaprendo adesso. Questo per farle capire come oggi si stia rincorrendo il virus. Non mi risultano al momento studi che possano dare una risposta definitiva. Mi sento di dire che, per intuito e per via del continuum temporale delle mutazioni, il virus stia a mano mano andando via. Ci aiuta anche l’epidemiologia: il Sars-Cov2 ha colpito l’Europa, e duramente l’Italia, Spagna, Francia e Inghilterra, poi è emigrato verso gli Stati Uniti, e ora sta colpendo in Africa ed in Sud America. Rispetto alla parte iniziale, direi che il Sars-Cov2 sta recedendo. Con buone probabilità, assoceremo questo fenomeno a delle mutazioni che ci racconteranno di come il nuovo coronavirus sia diventato meno cattivo. I dati puntano in questo senso, mi riferisco ai Proff. Zangrillo e Caruso. Poi manca ancora la prova fondamentale. E dunque uno scienziato non può che avere timore nell’affermare delle certezze.

 

Lei è lombardo. Come se lo spiega quello che è accaduto nella sua Regione?

Mentre in Cina venivano pubblicate le prime notizie, noi negli Stati Uniti abbiamo partecipato ad un seminario tenuto da un medico cinese, che proveniva proprio da Wuhan. Un medico che parlava in termini di situazione drammatica. Le difficoltà di gestione sono derivate dai numeri comunicati. La Cina ha contato 3mila morti. Difficile generare un allarme con quei numeri. La prima Sars ha comportato 700 morti, ma il mondo non se n’è quasi accorto. Le antenne non si sono alzate perché 3mila morti possono non essere sufficienti a sollevare il giusto allarme a livello percettivo. E poi c’erano tutte le questioni politiche aperte, con gli aperitivi di Sala e così via. C’è stato anche un tentativo di esorcizzare.

 

A che livello si è sbagliato?

Roma, dal centro, ha cercato di capire cosa stesse accadendo. La Lombardia, come situazione decentralizzata, ha dovuto operare sul campo. Un sistema non rodato che funziona solo se l’allarme scatta in modo totale. Se fosse stata l’Ebola, ce ne saremmo accorti subito, per via del tasso di mortalità. Con questa situazione, i sistemi sanitari di tutto il mondo non potevano essere pronti a gestire un fenomeno del genere. Poi serviranno linee guida nuove. Il caso lapalissiano è quello delle Rsa: non è possibile che un paziente con la tosse faccia dentro e fuori dagli ospedali e dalle Rsa. Ora ragioniamo col senno del poi: adesso è facile. Mi metto nei panni degli amministratori: non c’era un’esperienza pregressa che servisse da monito. Di sicuro le linee guida erano drammaticamente insufficienti per affrontare quello che è successo. La cosa giusta da fare? Chiudere tutto subito. Ma dalla Cina sono stati comunicati 3mila morti ed era impossibile avere la giusta percezione del dramma.

 

Qual è la situazione negli Stati Uniti adesso?

Negli Stati Uniti siamo dalle due alle tre settimane dietro all’Italia. Non hanno aiutato le proteste di questi giorni: nel momento in cui hai quel tipo di assembramento, è possibile che la situazione si complichi. Degli Stati stanno rispondendo meglio, degli Stati stanno rispondendo peggio. Qui dipende molto dalla densità abitativa e dal clima. New York non è il Montana. A parità di distanziamento sociale e misure come le mascherine, anche il clima gioca il suo ruolo. Ci sono dei punti in cui il virus sta crescendo ovunque e punti in cui il virus sta scomparendo. Qui in Maryland siamo a circa 400-500 casi al giorno, con un calo delle ospedalizzazioni.

 

Ma è vero che negli States la pandemia è stata poco gestita?

Dipende dal punto di vista. Per i Democratici la pandemia è stata gestita male, ma loro all’inizio battevano forte sul non chiudere i voli per non fare discriminazioni razziali. Anche qui c’è stata una motivazione di carattere politico. Trump è in qualche modo riuscito a blindare il territorio, ma all’inizio gli Stati non hanno implementato dei meccanismi in grado di operare mediante un tracciamento certosino. Adesso e’ meglio, ma non siamo ancora alla situazione ottimale. Le colpe sono distribuibili. Si poteva fare meglio? Sì. Poteva andare peggio? Sì. Non eravamo preparati? Non in maniera adeguata. Il Center for Disease Control and Prevention (CDC) e la Food and Drug Administration all’inizio non hanno dato il meglio, visti i ritardi nella messa a punto dei test diagnostici.

 

E l’Oms?

Non voglio far polemica. L’Oms si è difesa dicendo che ha segnalato tutto, ma il sistema chiaramente non ha funzionato. Bisogna capire dove non ha funzionato. Non è che Trump abbia ragione nel dire che l’Oms non ha funzionato. Non c’è neppure bisogno di citare Trump perché anche l’Oms ha ammesso che il sistema non ha funzionato, nonostante le segnalazioni. Bisogna comprendere a che livello comunicativo il meccanismo, l’ingranaggio, si è inceppato. Le informazioni sul campo, al livello cinese, non c’erano. Non è passato subito il messaggio: “Attenzione, c’è un problema enorme”. Perché non è passato il messaggio? Questo è il punto focale su cui conviene riflettere. L’Oms serve, ma è uno strumento burocratico e centralizzato. Un organismo centralizzato deve avere delle informazioni sul campo, altrimenti non serve a niente. Dai territori devono arrivare informazioni tempestive. Se l’Oms avesse lanciato l’allarme dinanzi ad una pandemia simile alla prima Sars, e il mondo avesse implementato le chiusure come le abbiamo vissute, tutto si sarebbe fermato per 700 morti. E la polemica sarebbe stata inversa. Dunque molto, se non tutto, dipende dalle corrette informazioni che provengono dai territori. Il problema comunque va capito, perché va risolto.

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