https://www.huffingtonpost.it/

21/06/2020

 

Luca Ricolfi: "Stiamo riaccendendo l'epidemia per salvare il turismo"

By Gianni Del Vecchio

 

Intervista al sociologo e Professore di Analisi dei Dati all'Università di Torino. "In una quindicina di province la curva sta risalendo. Questo perché l'Italia è di nuovo un gigantesco lunapark. La politica annacqua la verità per preservare la macchina dei consumi e la società signorile di massa"

 

Professor Ricolfi, l’ultimo post che ha pubblicato sul sito della Fondazione Hume - di cui è Presidente e Responsabile scientifico - è abbastanza preoccupante. Sulla base dell’analisi dei dati della Protezione Civile, vien fuori che ci sono ben 15 province in cui ci sono segnali di ripresa dell’epidemia. In altre 7 la curva dei contagi fa fatica a convergere a zero. Cosa sta succedendo?

 

Che cosa stia esattamente succedendo, in realtà, non lo sa nessuno. Oggi è uscito un paginone del Corriere della Sera  con i pareri di una decina di autorevoli esperti, chiamati a commentare le tesi rassicuranti del prof. Remuzzi, secondo cui la maggior parte dei positivi non sarebbe contagiosa: ne sono venute fuori almeno 4-5 interpretazioni diverse della situazione.

 

Quel che posso dire io, che non sono un virologo e mi occupo di analisi dei dati, è che i segnali delle ultime due settimane non sono per niente rassicuranti. Se guardiamo quel che succede a livello nazionale, possiamo anche non accorgerci di quel che sta accadendo, perché il dato nazionale è una media, in cui le curve epidemiche dei vari territori si mescolano e giocano a rimpiattino fra loro, nascondendo quel che succede nei territori critici. Ma se si scende al livello più basso consentito dai dati della protezione Civile, ossia a livello provinciale, si riesce a vedere quel che a livello nazionale si intravede appena, e cioè che sono una quindicina le province in cui la curva epidemica, anziché continuare a scendere, ha invertito la sua corsa e ha iniziato a risalire.

 

Quali sono queste 15 province?

Molte (8) sono in Lombardia, e fra esse c’è Milano. Ma molte (7) sono in altre regioni del Nord o del Centro: Alessandria, Vercelli, Bologna, Arezzo, Rieti, Roma, Macerata.

Se poi consideriamo anche un secondo gruppo di province, in cui i segnali di ripresa dell’epidemia ci sono ma sono meno nitidi, se ne devono aggiungere altre 7, fra cui Padova, Firenze e persino una provincia del Sud (Chieti). In tutto fa ben 22 province (su 107) in cui dovrebbero scattare piani per evitare che il contagio torni a dilagare.

 

A maggio i dati invece sono stati positivi nonostante le prime riaperture, quelle degli esercizi commerciali. Il problema quindi riguarda gli spostamenti della popolazione? Il turismo?

 Ha toccato il punto chiave, non solo della situazione attuale, ma di tutta la storia del Covid-19. Il turismo, o meglio la pretesa della politica di proteggere il turismo a qualsiasi prezzo, ci è costato prima (nelle 2 settimane a cavallo fra febbraio e marzo) un imperdonabile ritardo nelle chiusure, a partire dalla tragica vicenda di Nembro e Alzano. E rischia di costarci ora una ripartenza dell’epidemia, perché nessuno vuole vedere che il famigerato parametro Rt (che dovrebbe stare sotto 1) potrà pure essere ancora sotto 1 a livello nazionale, ma quasi certamente è tornato sopra a 1 in molti territori: i nostri grafici provinciali lo mostrano chiaramente, ma sono convinto che se avessero la benevolenza di farci accedere ai dati comunali, scopriremmo delle curve di risalita ancora più ripide, anche se più circoscritte.

E’ perfettamente verosimile, infatti, che l’aumento dei contagiati in una provincia sia concentrato solo in alcuni comuni, che sarebbe fondamentale individuare, anche per non chiudere tutta la provincia o addirittura tutta la regione.

Quel che stiamo scoprendo, in queste settimane, è che la riapertura delle attività economiche, avvenuta essenzialmente a maggio, ha provocato conseguenze molto meno gravi di quelle che sta producendo la riapertura delle attività “ricreative”, che è in corso in questo mese di giugno.

 

Lei vuole dire che il ritorno al lavoro dei produttori ha fatto meno danni (sanitari) dell’andata in vacanza dei loro familiari?

Sì, fondamentalmente voglio dire proprio questo. Fino a che le scuole sono rimaste chiuse e i ragazzi sono stati tenuti in casa, fino a che sui mezzi di trasporto sono state in vigore limitazioni strettissime (e raccomandazioni asfissianti), fino a che i flussi turistici da e verso l’estero sono rimasti bloccati, finché alle famiglie è stato impossibile muoversi fra regioni per i fine settimana, finché la ristorazione, le spiagge e tutta l’industria del divertimento sono state tenute in stand-by, il Covid-19 ha avuto vita dura, ed è stato costretto a rallentare la sua corsa. Il ritorno al lavoro di milioni di persone, attentissime a non contagiarsi vicendevolmente e sorvegliate da datori di lavoro preoccupati di incorrere in sanzioni, ha avuto un impatto minore del “ritorno alla vita” (possiamo chiamarlo così?) dei protagonisti di quella che io chiamo la “società signorile di massa”. Anche grazie all’arrivo della bella stagione i tavolini dei bar, i parchi cittadini, i locali della movida, le spiagge (specie nei weekend) si sono improvvisamente animati. Finite le scuole, i giovani hanno cominciato a sciamare per le città, le mamme hanno cominciato a portare al mare e nei centri vacanze i loro pargoli, i tifosi hanno finalmente potuto riprendersi il calcio e gli altri sport più popolari, e l’Italia tutta è tornata – quasi di colpo – ad essere luogo di attrazione turistica, sia dall’interno che dall’estero.

 

Insomma, dopo il 2 giugno siamo tornati ad essere il gigantesco luccicante lunapark che da qualche decennio siamo sempre stati. Il Covid ringrazia.

 

Chi governa l’epidemia, dal premier Conte fino ai vertici dell’Iss, è consapevole di questo andamento? A me non sembra che finora sia stato inviato questo messaggio “prudenziale” agli italiani. Anzi, la comunicazione delle istituzioni è ormai molto rilassata.

Difficile essere nella testa del premier. Una persona che, dopo aver commesso errori tragici, dalle mancate o tardive chiusure fino alla scellerata lotta contro i tamponi, ha la faccia tosta di dire “rifarei tutto”, sfugge alla mia personale capacità di comprensione e immedesimazione nella mente altrui. Quindi sul premier le rispondo: non ne ho la minima idea, può persino darsi che creda sinceramente di aver fatto bene. La psicologia e le scienze umane insegnano che le vie dell’autoinganno e della falsa coscienza sono infinite.

 

E sulle autorità sanitarie?

Diverso è il discorso sui membri del Comitato tecnico-scientifico e sul ministro Speranza. I primi hanno detto chiaramente che Conte ha ignorato le loro raccomandazioni sull’opportunità di chiudere Nembro e Alzano ai primi di marzo. Il secondo ha avuto un sussulto di onestà intellettuale, o forse semplicemente di pudore, quando, in un’intervista, ha lasciato intendere che, con l’esperienza maturata fino a oggi, forse non rifarebbe le scelte che fece allora.

La mia impressione è che, avendo molti più dati di chiunque, sappiano perfettamente che la situazione si sta deteriorando e che, con le ultime riaperture e la scelta di chiudere un occhio sulle violazioni delle regole, il premier sta facendoci correre il rischio di una seconda ondata epidemica. Il loro problema è che, come chiunque ha accettato di condividere incarichi di governo, non sono liberi di dire la verità.

Di qui la contraddizione insanabile della comunicazione nella fase 3. Per evitare una nuova esplosione dell’epidemia veniamo ancora, ma sempre meno convintamente, invitati alla prudenza, al distanziamento sociale, all’uso delle mascherine. Nello stesso tempo, assistiamo a un continuo rilassamento delle regole, che veicola il messaggio opposto: se ci lasciano salire sui treni e sugli aerei senza rispettare i 2 metri di distanza, se sui mezzi pubblici e nei negozi non ci sono controlli, se gli assembramenti sono sistematicamente tollerati, la gente non può non pensare che il peggio è passato. E quindi abbassa la guardia, e si autorisarcisce del periodo di lockdown riappropriandosi delle vecchie abitudini.

Inutile girarci intorno: il rilancio del turismo e dell’economia del divertimento (ristorazione, calcio, sale giochi, eccetera) è incompatibile con un discorso di verità sull’andamento dell’epidemia. E la politica ha scelto: in questo momento meglio annacquare la verità, se no la macchina dei consumi non riparte, e la società signorile di massa implode.

 

Il problema di questa fase mi sembra più puntuale che generale: gestire i singoli focolai sul territorio più che seguire l’andamento nazionale. Il caso di Roma, con i suoi due focolai a Garbatella e al San Raffaele, insegna. Bisognerebbe quindi monitorare l’epidemia partendo dai dati comunali e non da quelli aggregati per regione?

Sì, è quello che, implicitamente, suggerisce il prof. Crisanti, quando denuncia che stiamo perdendo l’occasione di debellare il virus, e che così facendo esponiamo l’Italia al rischio di una seconda, potenzialmente catastrofica, ondata epidemica in autunno. L’idea è che, se vogliamo sconfiggere il virus, dobbiamo approfittare della brevissima stagione in cui è debole, che è esattamente questa. Poi, quando arriverà il freddo, se avremo consentito che in Italia circolino ancora migliaia di soggetti contagiosi, sarà troppo tardi per fermare la valanga.

 

Forse però c’è anche un problema di lettura dei dati più complessivo. Lei che è uno studioso e docente proprio di questa materia, che ne pensa?

Penso che dei dati è stato fatto un uso folle, per non dire demenziale. Già la qualità dei dati della Protezione Civile è pessima, ma proprio per questo ci sarebbe voluta una grande attenzione, un grande rigore, una grande pazienza nello spiegare correttamente il loro significato.

 

Ci fa un esempio di uso improprio dei dati?

Gliene potrei fare almeno una decina, dal più banale al più sofisticato. Un esempio banale è questo: per settimane ci si è compiaciuti che certe regioni avessero zero morti, e ancora oggi ogni sera si sente dire che un certo numero di regioni ha zero morti o zero contagi, dimenticando di osservare che, quasi immancabilmente, le regioni esenti sono semplicemente quelle più piccole (Valle d’Aosta, Molise, Basilicata ecc.).

 

E l’esempio sofisticato?

Il numero di guariti o dimessi. Immancabilmente presentato come una buona notizia, è invece per lo più anche, se non soprattutto, una pessima notizia.

 

Perché mai?

Provo a spiegarlo a partire da un dato di questi giorni, ovvero il fatto che il numero di pazienti in terapia intensiva è pressoché costante. In una situazione di costanza degli ospedalizzati, un alto numero di guariti implica logicamente un elevato numero di ingressi in ospedale, perché – se il numero di ricoverati resta costante – vuol dire che i pazienti che escono (guariti Covid) sono sostituiti da pazienti che entrano (nuovi malati Covid). L’ospedale è come un lago, con un fiume immissario e un fiume emissario: se il livello delle acque del lago è costante, e ci dicono che c’è un emissario che lo sta svuotando (i guariti o dimessi), allora deve per forza esserci a monte un immissario che lo alimenta (i nuovi pazienti).

Insomma: per mesi ci hanno inondato di buone notizie sui guariti, che a ben guardare tanto buone non erano.

 

Un’ultima domanda: anche in altri paesi, penso alla Cina e alla Germania, si nota una certa recrudescenza del virus. In Italia nota lo stesso trend o abbiamo una nostra specificità?

Chi si occupa di dati non dà alcuna importanza alle cifre che vengono comunicate dalle autorità di paesi totalitari (Cina) e/o troppo arretrati (Iran, Brasile). Diverso il discorso sui circa 30 paesi avanzati e più o meno occidentalizzati, come la Germania e l’Italia. Come Fondazione Hume abbiamo un dossier, non ancora pubblicato, che compara l’andamento delle curve epidemiche di 30 paesi avanzati con la curva epidemica dell’Italia. Ebbene, il risultato della comparazione è impressionate, e mortificante per l’Italia.

Cominciamo dalla Germania. In realtà la recrudescenza è stata solo una piccola fluttuazione, e il numero di morti per abitante è 5 volte più basso di quello dell’Italia. Quanto agli altri paesi, se si eccettuano 4 casi (Usa, Regno Unito, Belgio, Svizzera), tutti gli altri hanno avuto una curva epidemica molto più rassicurante, o perché sistematicamente più “bassa” di quella dell’Italia, o perché più rapidamente convergente verso la meta degli zero contagi. Soprattutto, colpisce il fatto che, pur avendo subito l’epidemia dopo di noi, quasi tutti gli altri paesi avanzati ne siano usciti prima, e molti di essi abbiano già oggi un numero di morti vicinissimo a zero. Fra questi paesi già sostanzialmente liberati dal Covid troviamo Spagna, Germania, Austria, Danimarca, Lussemburgo, Portogallo, Grecia, Norvegia, Israele, Finlandia, Slovenia, Repubblica Ceca, Ungheria, Estonia, Lituania. Bisognerebbe studiarli a fondo, questi casi a lieto fine, per capire come hanno fatto a debellare il virus, e provare a imitarli.

Lei mi chiede se l’andamento dell’Italia abbia una sua specificità, rispetto a quello degli altri paesi. Tenderei a rispondere che sì, la curva epidemica dell’Italia è molto diversa da quella della maggior parte dei paesi occidentali, ma non è un unicum. Almeno altri due paesi hanno una curva epidemica simile: gli Stati Uniti, che però presentano un picco più basso del nostro, e il Regno Unito, che ha un profilo quasi identico a quello dell’Italia.

 

E’ casuale questa somiglianza con Stati Uniti e Regno Unito?

Forse è casuale, o meglio è frutto di un complesso di fattori, che insieme hanno prodotto il medesimo risultato. Ma potrebbe anche non essere del tutto accidentale, se riflettiamo su un punto: Italia, Stati Uniti e Regno Unito, fra i paesi di tradizione occidentale, sono i soli con un governo populista.

E almeno una cosa la abbiamo imparata, in questa pandemia: il primo istinto dei governi populisti è negare o minimizzare la realtà, il secondo è tardare a prenderne atto, il terzo è rassegnarsi al lockdown quando è troppo tardi. E’ questo che è successo negli Stati Uniti, è questo che è successo nel Regno Unito, è questo che sta succedendo in Brasile.

L’Italia non fa eccezione: quando è arrivato il momento delle decisioni difficili, a partire dalla chiusura di Nembro e Alzano, si è preferito temporeggiare, perdendo settimane preziose, e così fornendo al virus un insperato vantaggio.

Ora stiamo ripetendo il medesimo errore. Per sostenere il turismo, e risarcire gli italiani della lunga quaresima imposta nei lunghi giorni della segregazione, stiamo mettendo a repentaglio i sacrifici di ieri, e facendo correre a tutti il rischio di una nuova ondata, che non solo farebbe altri morti, ma – per ironia della sorte – infliggerebbe il colpo di grazia all’economia, ovvero precisamente al bene che la dottrina della riapertura presume di proteggere.

Che Dio ce la mandi buona!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

top