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15/10/2019 

 

E se un giorno un robot ti rubasse il lavoro?

 

Intelligenza artificiale, rete blockchain, robotica, algoritmi: il nostro, appare chiaro, è sempre più un mondo a portata di click, nel quale uomo e robot stanno imparando a convivere.

 

Ogni dimensione della vita quotidiana diviene oggetto di crescente automazione e il mondo dell’occupazione subisce le conseguenze di questa rapida ondata di digitalizzazione. Se la sociologia segue il mantra “dimmi che lavoro fai e ti dirò chi sei”, la quarta rivoluzione industriale a cui lo sviluppo tecnologico ha dato avvio cambia radicalmente le carte in gioco, ridefinendo le regole tradizionali su cui il funzionamento di ciascun settore produttivo si basa, dando vita a nuove formule contrattuali e richiedendo competenze tecniche specifiche, da acquisire per affrontare con prontezza il cambiamento.

E così, in una realtà sempre più orwelliana, è un attimo passare da “Il Grande Fratello ti guarda” a “Il Grande Fratello prende il tuo posto”. Come dimostra uno studio condotto da McKinsey, “Jobs Lost, Jobs Gained”, entro il 2030 l’automazione renderà superfluo tra il 9 e il 26% di tutte le ore dedicate ad attività lavorative tradizionali e il 14% dell’intera forza lavoro mondiale si vedrà costretto a cambiare occupazione, non essendo in grado di allineare le proprie competenze alle nuove e sempre più richieste technological skills.

Secondo i dati pubblicati nel report, tale rivoluzione riguarderà i Paesi sviluppati molto più che le realtà in via di sviluppo e il 10% dell’occupazione assisterà all’entrata in scena di nuove figure professionali che noi, nella società di oggi, abituati al classico medico, insegnante, avvocato, operaio, faticheremmo persino a immaginare.

Secondo il Bertelsmann Stiftung report, “2050: Future of Work-Findings of an International Delphi-Study of The Millennium Project”, entro il 2050 il tasso globale di disoccupazione sarà pari al 24%. Due risulteranno le cause principali, tra loro strettamente collegate: la prima il ruolo sempre più prominente svolto dall’Intelligenza Artificiale in ogni ambito dell’agire umano; la seconda la lentezza dei sistemi educativi globali nel tenere il passo dell’innovazione e del cambiamento, tanto che, in risposta a questo preoccupante mismatch, si registrerà un crescente numero di lavoratori indipendenti e freelance. 

In merito a tale quarta rivoluzione industriale, nonché alle problematiche che solleva, la presidente di Action Institute Carlotta de Franceschi, in un articolo per il Progressive Centre, propone “un nuovo contratto sociale” che si concentri su tre pilastri: capitale, istruzione e welfare.

In primo luogo, la classe politica sarà chiamata a rivedere le principali norme circa la regolamentazione del mercato del lavoro, come anche le caratteristiche della struttura del benefit package associato a ciascun impiego.

Key priorities risulteranno le modalità di definizione del salario del lavoratore e l’adeguamento di procedure a un contesto sempre più intricato e multiforme. “Equità” sarà la parola chiave, specialmente in una dimensione nella quale i confini tra professioni e ruoli risultano sempre più sfumati. Come dimostra uno studio condotto da French Digital, l’applicazione di un equity-based mechanism in ambito aziendale eliminerebbe i principali differenziali di salario. In tutte le compagnie finanziate tramite venture capital applicare questo schema consentirà la chiusura del salary gap, sempre più un “buco nero” nelle compagnie tradizionali.

Essere elastici rappresenterà un’ulteriore strategia vincente: il salario derivante da lavoro autonomo dovrà preferibilmente essere defiscalizzato, come anche il finanziamento di startup andrà agevolato in misura crescente rispetto alle tradizionali modalità di investimento e risparmio.

L’articolo prosegue, ponendo in luce come sia sempre più vero che “non c’è niente di più pratico di una buona teoria”. Il mondo dell’istruzione dovrà rispondere prontamente alle richieste del mercato del lavoro, puntando su una formazione finalizzata al raggiungimento di specifici obiettivi di carriera, nonché volta al miglioramento delle competenze TIC (Informations and Communication Technology) e al ricorso a forme di vocational training, studiate a misura di lavoratore.

Sarà priorità dei governi finanziare l’adozione di nuove tecnologie nelle scuole, promuovere l’iscrizione del cittadino a corsi di aggiornamento e programmi di training, sostenere con convinzione l’immagine di un contesto digitale non ladro di opportunità, bensì capace di garantire un futuro migliore.

L’innovazione tecnologica influenzerà anche le politiche di welfare introdotte dai vari Stati, il cui principale obiettivo sarà trovare un equilibrio tra nuove forme contrattuali ed esigenze del lavoratore. Tra le varie proposte, suscitano particolare interesse alcune, tra cui rendere l’assicurazione sociale indipendente dalla tipologia di contratto di impiego e cambiare le modalità di finanziamento delle assicurazioni pubbliche e delle pensioni.

In quest’ultimo caso, la soluzione migliore coinciderà con il passaggio da un sistema Pay-as-you-go, basato sui contributi della generazione corrente per le generazioni future, a un sistema fully-funded, in cui il finanziamento pensionistico avverrà mediante contributo individuale. 

Ciò garantirà la completa indipendenza delle generazioni future da quelle presenti e, nella fase di finanziamento, una maggiore flessibilità nel rapporto pubblico-privato. Idealmente, lo stesso principio dovrà essere applicato in ambito di disoccupazione e assicurazione sanitaria: garantire schemi innovativi, fondati su contributi privati esenti da carico fiscale, potrà concretamente fare la differenza.

Un’ulteriore proposta di cambiamento è data dalla possibile introduzione di uno UBI (Universal Basic Income), benefit scheme suggerito da molti governi e considerato valido strumento di tutela del lavoratore. Quest’ultimo andrebbe a sostituire forme previdenziali poco concrete ed esenzioni fiscali poco credibili. La prima conseguenza in ambito di welfare governance risulterebbe che, qualora ci fosse la possibilità di ricorrere a un salario minimo universale, equamente distribuito, indipendente dal salario dell’intero nucleo famigliare e dal numero di asset posseduti, pensionamento anticipato e indennità di disoccupazione cesserebbero di essere le soluzioni preferite da molti governi.

Accanto agli elementi a favore, tante sono le critiche sollevate, specialmente in termini di costi ed effettiva possibilità di attuazione. Il Centre for Economic Policy Research, nel report “The changing nature of work” analizza quattro differenti Stati europei e afferma che, mantenendo invariati i cash transfer attuali, il finanziamento necessario per introdurre uno UBI coinciderebbe con circa il 14% del GDP in Finlandia, il 10% in Francia, il 9% nello UK e il 3% in Italia.

Infine, nelle sue diverse articolazioni, lo UBI è collegato al lavoro, alla formazione e alle caratteristiche del ricevente. Un’ulteriore sfida sarebbe dunque la definizione di incentivi e assegnazioni adeguati, insieme al monitoraggio del livello di equità associato alla proposta.

Se è dunque vero, come scrive Harari nel suo romanzo “Homo Deus”, che “la più comune reazione della mente umana al momento del raggiungimento di un traguardo consiste nel volere di più”, considerato il nostro punto di partenza ciò che ci attende è un futuro sempre più alla “1984”, in cui l’invasione della robotica e dell’alta tecnologia lascerà poco spazio al pensiero individuale e a tutto ciò che di più umano possiamo concepire.

Che fare? Per ora, ciò che serve davvero è continuare a focalizzarsi sul presente, unica dimensione realmente sotto il nostro controllo. Mantenere un occhio vigile su capitale, istruzione e welfare consentirà di adeguare con efficacia le nuove forme che il mercato del lavoro sta assumendo alle nostre scelte e azioni di uomini e donne in carne ed ossa.

 

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