www.znetitaly.org

La Carta della libertà del lavoro
di James Gray Pope 1997
traduzione di Giuseppe Volpe

In base alla narrazione standard, la struttura fondamentale del diritto costituzionale moderno è emersa dallo scontro tra due grandi visioni delle verifiche di legittimità: il costituzionalismo laissez- faire della cosiddetta era Lochner [1] e la visione progressista sintetizzata concisamente nella nota 4 della causa Stati Uniti contro Carolene Products [2]. Il conflitto è narrato come un dramma umano con un cast di personaggi che comprende giuristi e imprenditori conservatori dalla parte del Lochner e professionisti, intellettuali e imprenditore orientati alle riforme dalla parte della Carolene Products [3].  Al culmine il giudice Owen Roberts passò dalla parte dei progressisti e la Legge Wagner – colonna portante del secondo New Deal – fu confermata da un voto di cinque contro quattro nella causa NLRB contro Laughlin Steel Corp. [4].

L’ambito della narrazione standard dell’agire umano si ferma prima della classe operaia. Vero, la grande ondata di scioperi del 1934 generò l’impulso per la Legge Wagner e rese solida la determinazione dei Democratici a disciplinare l’economia nazionale, nonostante la resistenza della Corte Suprema. I lavoratori appaiono, comunque, non come protagonisti umani che intervengono nella politica costituzionale, bensì come una specie di forza naturale, priva di un pensiero costituzionale indipendente [5]. Quando l’ideologia costituzionale operaia fa in effetti un’apparizione nella narrazione standard, è come alleata indifferenziata o del costituzionalismo progressista o, paradossalmente, del suo avversario laisse-faire [6].

La narrazione standard omette una terza grande visione costituzionale: la carta della libertà del lavoro. Agli inizi del ventesimo secolo molti sindacalisti statunitensi concentrarono le loro riflessioni, energie, speranze e anche diedero la vita nella lotta per diritti fondamentali: i diritti di organizzazione, riunione, libera espressione e, soprattutto, di sciopero. I sindacalisti portarono avanti le loro interpretazioni della costituzione, normalmente in contrasto con quelle della Corte Suprema. Affermavano che le leggi contro gli scioperi violavano il divieto del Tredicesimo Emendamento contro la servitù involontaria, mentre le leggi contro i picchettaggi infrangevano le libertà di espressione e assemblea sancite dal Primo Emendamento. Gli attivisti operai arrivarono ad abbracciare una visione radicale, anche se non sistematica, del luogo di lavoro nell’ordine costituzionale. Tale visione era incentrata sull’idea della “libertà effettiva” che comprendeva la capacità non soltanto di influenzare le condizioni della vita lavorativa, ma di farlo consapevolmente, unitamente ai propri compagni di lavoro, utilizzando forme d’azione che dessero prova immediata e inequivocabile di forza personale e collettiva [7]. Poiché questa visione aveva radici nella narrazione della schiavitù, dell’emancipazione e della libertà io la chiamo ‘carta della libertà del lavoro’ [8].

I sindacalisti non attesero l’approvazione della magistratura per mettere in pratica la loro visione costituzionale. Avendo dichiarato incostituzionali le leggi, tentarono di farle revocare non rispettandole e mediante l’azione diretta. Arrivati al 1909 non solo il sindacato radicale International Workers of the World (IWW) [Lavoratori internazionali(sti) del mondo; così nell’originale. In realtà la denominazione del sindacato era Industrial Workers of the World (lavoratori mondiali dell’industria). L’interpretazione scorretta della sigla risulta piuttosto diffusa, probabilmente rifacendosi alla più famosa Internazionale Socialista. L’equivoco indusse alcuni a suggerire, per gioco, che se gli International Workers of the World si fossero uniti agli Industrial Workers of the World la loro forza sarebbe stata irresistibile – n.d.t.] diede istruzioni ai suoi membri di “disobbedire e trattare con disprezzo tutte le ingiunzioni giudiziarie”[9], ma anche il sindacato normalmente compassato American Federation of Labor (AFL) affermò che un lavoratore che fosse sottoposta a un’ingiunzione giudiziaria aveva il dovere imperativo di “rifiutare l’obbedienza e subire qualsiasi conseguenza potesse derivarne” [10].

Diversamente dal diritto di picchettaggio, il diritto di sciopero poneva esattamente la questione del posto del lavoro nell’ordine costituzionale [11]. Il trattamento del lavoro come merce, soggetta alle regole del mercato, è una caratteristica definitoria del capitalismo [12]. La rivendicazione di un diritto costituzionale a scioperare – un diritto che interdice la libera concorrenza tra individui nel comprare e vendere forza lavoro – metteva ovviamente a rischio l’ideologia e la pratica del trattamento del lavoro come merce. Il diritto di sciopero non poteva essere giustificato senza affrontare la questione della libertà del lavoro in sé.

I sindacalisti individuarono un sostegno costituzionale alla libertà del lavoro collettivo nel Tredicesimo Emendamento. Nella causa Bailey contro Alabama [13] la Corte Suprema aveva proclamato che scopo dell’Emendamento era “rendere il lavoro libero dal divieto che controlla da chi i servizi personali di un uomo sono disposti o forzati a vantaggio di un altro”[14]. I lavoratori sostennero che in cui i lavoratori dipendono dai datori di lavoro per il loro posto, il solo modo per evitare la coercizione e il controllo del datore di lavoro era l’organizzazione collettiva, compreso il diritto di sciopero. Giustificazioni economiche, filosofiche e politiche confortavano tale principio centrale [15]. Era incorporato in una vivida narrativa costituzionale che rifletteva l’esperienza vissuta dagli attivisti sindacali nell’emanciparsi dallo sfrenato dominio dei datori di lavoro mediante la lotta e il sacrificio collettivo [16].

Propongo di esaminare la lotta per la carta della libertà del lavoro come esempio di un fenomeno più vasto: l’insurrezione costituzionale. Con “insurrezione costituzionale” intendo un movimento sociale che: (1) respinga la dottrina costituzionale corrente ma, anziché ripudiare la Costituzione nella sua interezza, ne tragga ispirazione e giustificazione; (2) contesti a viso aperto le istituzioni legali ufficiali opponendo loro una visione esterna che sia o assente o emarginata nel dibattito costituzionale ufficiale; e (3) esca dai canali formalmente riconosciuti della politica rappresentativa per esercitare un potere popolare diretto, ad esempio mediante assemblee extra-legali, proteste di massa, scioperi e boicottaggi.

Dalla Rivoluzione Americana, passando per le rivoluzioni della Virginia e del Kentucky, per il movimento per l’annullamento [dei dazi imposti al Sud dal governo federale – n.d.t.], l’abolizionismo costituzionale [dello schiavismo – n.d.t.], il populismo, il movimento per i diritti civili, giù giù fino alla recente ascesa di “milizie” di cittadini di destra, le insurrezioni costituzionali hanno esercitato un’influenza pervasiva sul costituzionalismo statunitense. Fino a non molto tempo fa, tuttavia, gli studiosi di diritto le consideravano esogene al campo degli studi giuridici. Tutto nell’insurrezione costituzionale – attivisti privi di formazione giuridica che sviluppano le proprie idee costituzionali, promuovendole attraverso canali extralegali e agendo in deroga alla legge ufficiale – sembra antitetico alla cultura professionale del diritto.

Nel suo innovativo articolo ‘Nomos and Narrative’ [17] Robert Cover ha sostenuto che il pensiero e la pratica giuridica degli estranei al sistema ufficiale della magistratura possono essere tanto importanti da studiare quanto quelli degli addetti ai lavori. Cover ha distinto la giurisprudenza, la scienza analitica del diritto, dalla genesi del diritto [‘jurisgenesis’ nell’originale – n.d.t.], la creazione di significato legale. Diversamente dal linguaggio tecnico della giurisprudenza, la genesi del diritto fiorisce nella narrativa. La cultura legale e quella popolare sono collegate mediante dalla narrazione di storie. Cover ha sostenuto che le norme e i principi legali assumono significato in virtù della loro collocazione in narrazioni che hanno eco sociale. Anche se le élite potrebbero controllare il dibattito tecnico sulla legge, non controllano, né possono controllare, la generazione della narrativa riguardante la legge. Tutti gli statunitensi condividono un testo costituzionale, ma non condividono una versione autoritaria della storia. Anche se la condividessimo “non potremmo condividere una stessa versione che colleghi individualmente ciascuno di noi a quella storia” [18]. Valutando, ad esempio, gli ‘emendamenti della ricostruzione’ [gli emendamenti alla costituzione dal tredicesimo al quindicesimo adottati dopo la fine della guerra civile – n.d.t.] “alcuni di noi ne attribuirebbero la paternità a Frederick Douglas, altri ad Abramo Lincoln e altri ancora a Jefferson Davis”, con implicazioni molto diverse a proposito della loro interpretazione [19]. Anche dopo le sentenze della Corte Suprema, i movimenti sociali e le comunità continuano non solo a generare interpretazioni proprie, ma anche – se il loro impegno è forte – a comportarsi in conformità ad esse. Le visioni costituzionali non ufficiali sono pertanto degne di studio non solo perché potrebbero diventare ufficiali, ma anche perché possono plasmare la coscienza e l’azione di chi vi aderisce nel qui ed ora [20].

Per cogliere le dinamiche della genesi del diritto sarà necessario mettere insieme informazioni sul pensiero e l’azione costituzionali di tutte le basi interessate, dagli attivisti dei movimenti locali ai giudici della Corte Suprema degli Stati Uniti. Queste informazioni sono agevolmente disponibili ai giudici, avvocati e ai dirigenti di vertice del movimento, i principali protagonisti dei modelli precedenti di insurrezione costituzionale. Sono molto più difficili da rintracciare per gli attivisti locali che occupano la posizione centrale sulla scena della genesi del diritto. Peggio ancora, la maggior parte dei testi lasciati dagli attivisti è terribilmente laconica.  Estrarne il significato costituzionale richiede un esame dettagliato sia delle situazioni sia degli eventi che ne costituiscono il contesto.

La necessità di profondità e dettaglio impone la metodologia del caso di studio. Fortunatamente esiste una scelta evidente di tale caso. Nel gennaio del 1920 il parlamento statale del Kansas promulgò la Legge della Corte Arbitrale dell’Industria, il più ambizioso progetto di legislazione statunitense sul lavoro prima della Legge Wagner.La legge vietava gli scioperi in industrie chiave e creava la Corte Arbitrale dell’Industria per risolvere le dispute sottostanti [21]. Anche se la Corte Arbitrale dell’Industria, più spesso che no, decideva a favore dei lavoratori, diecimila minatori di carbone del Kansas attuarono uno sciopero invernale di quattro mesi “contro i poteri politici dello stato del Kansas, i monopoli e la legge sull’arbitrato industriale” [22]. Nel corso della lotta attivisti sindacali locali produssero una raccolta straordinariamente ricca di scritti sulla legge e sul movimento di resistenza. Furono chiamati in causa eminenti promotori nazionali di tutte e tre le visioni costituzionali concorrenti. Dal conflitto emerse non solo la principale causa statunitense sul diritto costituzionale di scioperare, la causa Dorchy contro Kansas [23], ma anche la principale causa sulla resistenza costituzionale prima del movimento per i diritti civili, la Howat contro Kansas [24].

Questo articolo è organizzato come segue. La Parte I espone il quadro teorico. Critica il trattamento della carta della libertà del lavoro in base ai tre modelli precedenti di insurrezione costituzionale, specifica il modello della genesi del diritto e propone ipotesi per il caso di studio.

La Parte II narra la promulgazione della legge del Kansas sulla Corte Arbitrale dell’Industria e introduce il conseguente conflitto costituzionale. Invece delle due grandi visioni costituzionali della narrazione convenzionale ne vedremo tre: la costituzione laissez-faire abbracciata da elementi integralisti della comunità degli affari; la costituzione progressista dei riformatori della classe media e degli intellettuali e la carta della libertà proposta dagli avversari più impegnati della legge all’interno del movimento del lavoro.

Nella Parte III vediamo i minatori sindacalizzati che creano un mondo legale alternativo in cui la Corte Arbitrale dell’Industria non ha alcuna esistenza. Una serie di prove d’impegno che si inaspriscono e culminano nello sciopero costituzionale. Attingendo alle dichiarazioni prodotte nel crogiolo della lotta, la Parte IV ricostruisce la narrazione costituzionale che ha dato significato a ciascuna delle tre visioni costituzionali concorrenti.

La Parte V narra lo scontro tra la costituzione progressista dei riformatori della classe media e la carta della libertà degli attivisti operai. Agli occhi degli attivisti sindacali locali, la carta della libertà del lavoro sia rifletteva sia propugnava pratiche di libertà.

Con il logorarsi della campagna di resistenza apparvero fratture nel movimento del lavoro. La Parte VI spiega come il divario crescente di interessi ed esperienza tra i dirigenti sindacali e gli attivisti locali si rifletté nel loro pensiero costituzionale. Una carta industriale del lavoro e una carta progressista del lavoro – pallide e distorte versioni delle costituzioni del laissez-faire e progressista – sono introdotte in contrasto con la carta della libertà abbracciata dalla maggior parte degli attivisti locali. Contemporaneamente nei campi carboniferi il livello del conflitto si intensifica aspramente con le donne che rifuggono dal ruolo domestico, si organizzano come forza autonoma e intervengono nello sciopero.

Coerentemente con la prospettiva dal basso verso l’alto, i legali e il governo sono lasciati per ultimi. La Parte VII descrive i collegamenti tra il movimento di resistenza costituzionale e le istituzioni legali ufficiali. Tra i sindacalisti e lo stato s’interpone una vivace cultura professionale della legge. I comportamenti dei legali del sindacato chiamano in causa l’immagine degli avvocati come “rappresentanti” dei movimenti sociali.

I. INSURREZIONE COSTITUZIONALE COME GENESI DEL DIRITTO

Se la carta della libertà del lavoro era così importante da costituire una terza grande visione costituzionale, allora perché le è stato negato questo ruolo in mezzo secolo di resoconti storici? Da un punto di vista classico, alla Langdell, l’omissione è irrilevante. La carta della libertà del lavoro fu largamente assente presso i cronisti del caso, la principale fonte materiale del pensiero legale classico [25]. Inoltre i luoghi sociali in cui fiorì la carta della libertà del lavoro – fabbriche, sedi sindacali e strade – erano esogeni rispetto al modello classico. E’ passato comunque parecchio tempo da quando gli studiosi pionieri del movimento legge/società hanno cominciato ad applicare le scienze politiche al processo legiferativo costituzionale. Questi studiosi ignorarono o minimizzarono la carta della libertà del lavoro non perché coltivassero alcuna illusione circa il pensiero giuridico apolitico, bensì perché guardavano alla storia attraverso lenti teoriche che indirizzavano la loro attenzione altrove.

La carta della libertà del lavoro è stata ignorata o minimizzata in tre precedenti modelli di insurrezione costituzionale. Anche se i promotori di tali modelli si battono ferocemente tra loro, i modelli sono più utilmente da considerare come tipi ideali [26], ciascuno dei quali può approssimare alcune insurrezioni costituzionali. Ciascuno procede da un insieme diverso di presupposti circa i rapporti di potere tra gruppi dominanti e insorgenti. Quando i presupposti corrispondono alla realtà, il tipo ideale può offrire un inquadramento utile del pensiero a proposito dell’insurrezione costituzionale. Una breve analisi di questi modelli e del loro trattamento della carta della libertà del lavoro offrirà lo sfondo necessario per la discussione della genesi del diritto che seguirà.

A. Costituzionalismo insorgente come patologia dei gruppi di pressione

Supponiamo, innanzitutto, che gli insorti costituzionali abbiano pieno accesso al processo politico rappresentativo [27]. Come chiunque altro, possono formare gruppi d’interesse e partiti politici, costruire coalizioni e dispiegare risorse per far avanzare i loro interessi di parte [28]. La politica costituzionale è semplicemente un caso speciale della politica dei gruppi di pressione [29]. I giudici sono i decisori più importanti e su di loro può essere esercitata influenza mediante memorie legali, articoli di analisi giuridica e partecipazione al processo di nomina dei giudici [30].

L’insurrezione costituzionale appare deviante in questo mondo di competizione politica libera e aperta. Se gli insorti hanno pieno accesso al sistema rappresentativo, non hanno una scusa legittima per esercitare un potere popolare diretto fuori dal sistema. E se, come ha suggerito in un’occasione Robert Dahl, le proteste distruttive solitamente si ritorcono contro alienando potenziali alleati [31], allora è un sintomo di irrazionalità di gruppo, studiata meglio dagli psicologi che dai politologi [32]. L’appassionato parlare di diritti da parte degli insorti, analogamente, sembra fuori luogo in un sistema mosso dal perseguimento razionale dell’egoismo. Come ha supposto James William Hurst, la retorica sui diritti serve unicamente da tappezzeria sopra le motivazioni reali dell’azione politica, che sono invariabilmente economiche nella loro natura e a mascherare il fatto che ogni decisione politica implica necessariamente una scelta politica distributiva [33].

La teoria dei gruppi di pressione svia l’attenzione dalle insurrezioni costituzionali. Nello scegliere i casi di studio i suoi promotori hanno evitato le lotte di cui erano protagonisti movimenti sociali perturbatori dell’ordine costituito – come ad esempio quelle dei Padri Fondatori, della Ricostruzione e del New Deal – e hanno concentrato l’attenzione su conflitti che si rivolvevano ordinatamente attraverso le procedure formali degli emendamenti [alla costituzione] e delle vertenze presso la Corte Suprema [34]. In quest’ottica la tumultuosa crociata del movimento del lavoro per i diritti costituzionali rappresenta un problema “troppo vasto” per poter essere studiato [35].

B. Insurrezione costituzionale e contromobilitazione delle prevenzioni

Ora, supponiamo che gli interessi degli insorti costituzionali sia sistematicamente esclusi dall’ordine del giorno della politica rappresentativa. Mentre le élite risolvono i conflitti tra loro nell’arena della competizione tra gruppi di pressione, la maggior parte di conflitti sociali è esclusa dall’agenda pubblica, rendendola “tanto privata da essere quasi completamente invisibile” [36]. E.E. Schattschneider ha etichettato questo processo “mobilitazione della prevenzione”  [37].

Come spiegato da Peter Bachrach e da Morton Baratz, la persona A potrebbe esercitare un potere politico sulla persona B “creando o rafforzando valori politici e sociali e pratiche istituzionali che limitino la portata del processo politico alla considerazione pubblica soltanto di quei temi che sono relativamente innocui per A” [38]. Gran parte della legislazione sul lavoro, ad esempio, consiste in norme, come le restrizioni agli scioperi di solidarietà, intese a privatizzare i conflitti di classe limitando la partecipazione alle dispute sul lavoro a gruppi ristretti e isolati di lavoratori [39]. Il dibattito giuridico stesso può contribuire anch’esso alla privatizzazione dei problemi [40]. Prima del New Deal, ad esempio, le relazioni industriali erano classificate come “economiche” e dunque rese immuni dall’intervento politico per legge naturale, o riguardante la proprietà e i diritti contrattuali o la più prosaica varietà della domanda e dell’offerta [41]. 

In questo mondo di prevenzioni mobilitate, l’insurrezione costituzionale non appare più deviante. L’esercizio del potere popolare diretto da parte dei movimenti sociali, considerato come un’aberrazione nel modello dei gruppi di pressione, ora diviene un mezzo necessario e a volte legittimo per superare una mobilitazione della prevenzione [42]. Fomentando uno scontro aperto, ad esempio marciando, boicottando e scioperando, gli insorti possono attivare gruppi normalmente esclusi dalla politica, costringere le élite a prestare attenzione e così aver ragione della prevalente mobilitazione della prevenzione [43].

Il dibattito sui diritti costituzionali cessa di apparire meramente offuscante poiché a questo punto serve a stimolare la partecipazione e spinge i problemi nell’agenda pubblica [44].  Le grandi sollevazioni costituzionali emarginate dalla teoria dei gruppi di pressione – incluse la Fondazione, la rivolta democratica jacksoniana, gli emendamenti  della Ricostruzione, le rivolte populiste e il New Deal – oggi occupano il centro della scena [45].

Indossando le lenti della contro-prevenzione, il costituzionalismo del mondo del lavoro comincia a emergere dalla nebbia. I lavoratori possono a questo punto essere visti come agenti costituzionali efficaci. Karen Orren mostra come gli scioperi – in larga parte in violazione della legge – fornirono l’impulso principale alla vittoria del costituzionalismo progressista e così alla scomparsa finale dello stato delle corti e dei partiti e alla sua sostituzione con lo stato liberale moderno [46]. William Forbath offre un resoconto dettagliato che dipinge il dibattito sul diritto del lavoro e sulla resistenza costituzionale come reazioni a una potente mobilitazione di prevenzioni istituzionali e ideologiche contro le azioni operaie collettive. Assistiamo a giudici che fanno ripetutamente uso del potere di revisione giudiziaria per invalidare le vittorie legislative dei lavoratori, scoraggiando in tal modo l’azione politica e indirizzando il movimento del lavoro al volontarismo [47]. Nell’isolare le relazioni industriali dal controllo della legge, i giudici erigono un regime loro proprio di diritto del lavoro: il “governo per ingiunzione” [48]. I sindacalisti contrattaccano utilizzando il dibattito sui diritti e l’azione diretta per far recepire i loro interessi dall’agenda politica [49]. La resistenza provoca la repressione e gradualmente i riformatori e i legiferatori della classe media si convincono che il governo per ingiunzione è privo persino del minimo di consenso dei lavoratori necessario per la stabilità industriale. Infine la legge Norris LaGuardia contro le ingiunzioni, con parte dell’ideologia costituzionale operaia recepita nel suo preambolo, è approvata con ampi margini in entrambe del camere del Congresso [50].

C. Insurrezione costituzionale come cooptazione egemonica

Immaginiamo poi che le élite siano in grado di plasmare la coscienza degli aspiranti ribelli. In quest’ottica A potrebbe esercitare potere su B non solo escludendo le sue proteste dall’ordine del giorno pubblico, ma anche impedendogli di riconoscerle come problemi solubili o addirittura convincendolo che non è il tipo di persona in grado di definire i reclami e di agire al riguardo [51]. Nell’esempio di Murray Edelman un operaio della catena di montaggio potrebbe essere talmente privato di “qualsiasi sentimento di gratificazione, di realizzazione o autonomia” da cominciare a considerarsi la “macchina [del padrone] e non un uomo” [52].  Le élite cercherebbero di rafforzare la passività conseguente manipolando simboli. Se i lavoratori, ad esempio, organizzassero picchetti, i datori di lavoro e i loro alleati potrebbero classificare il picchettaggio non come una forma di espressione, bensì come una forma di pressione, “una cosa molto diversa, in un diverso universo di cose, valutate diversamente” [53].

Questa visione è coerente con la teoria dell’egemonia di Antonio Gramsci [54]. Le idee e le pratiche egemoniche formano il terreno della lotta sociale e mettono a disposizione il linguaggio e la simbologia di base del dibattito politico, normalmente in un modo che avvantaggia la classe o lo strato dominante. L’egemonia è “un sistema vissuto di significati e valori – costitutivi e costituenti – che, vissuti come prassi, appaiono confermarsi reciprocamente” [55]. Ad esempio l’idea che un lavoratore possa vendere la sua energia lavorativa come merce, senza vendere la sua libertà personale, una maligna finzione secondo la carta della libertà del lavoro [56], è contestata raramente, non solo perché i media controllati dai capitalisti e le istituzioni di socializzazione la rafforzano costantemente, ma anche perché corrisponde all’esperienza dei lavoratori nel momento in cui accettano le condizioni d’impiego [57]. I rituali, i simboli e il linguaggio legali possono operare come forme di egemonia, a condizione che forniscano sufficienti esperienze di imparzialità nel comandare il conformismo sociale [58].

L’egemonia pone l’insurrezione costituzionale sotto una luce interamente nuova. Lungi dal risultare la patologia pericolosa definita dal modello dei gruppi di pressione o il potere destabilizzatore del modello della contro-prevenzione, l’insurrezione costituzionale appare ora una forma di cooptazione sociale. Come nel modello della contro-prevenzione il dibattito sui diritti serve a mobilitare i movimenti sociali e a politicizzare i problemi [59]. Ma nell’egemonia questo effetto, apparentemente emancipante, alla fin fine rafforza il dominio dell’élite. I movimenti sociali sono adescati a partecipare in una forma di dibattito che preclude il cambiamento radicale e mina il potere del movimento [60]. Anche diritti così apparentemente destabilizzanti come la libertà di espressione in realtà rafforzano le tendenze all’inerzia incitando i gruppi a darsi a conflitti “predatori” su temi transitori, creando così l’apparenza di democrazia senza la realtà del controllo popolare [61]. I discorsi sui diritti, si sostiene, promuovono l’individualismo radicale, l’egoismo e una distinzione artificiale tra coercizione pubblica e libertà privata [62].

Nell’ottica dell’egemonia, l’ideologia costituzionale del mondo del lavoro offre un caso di studio ideale. William Forbath, Christopher Tomlins e Leon Fink hanno prodotto commenti intensi [63]. Essi considerano il costituzionalismo del mondo del lavoro non come una terza grande prospettiva costituzionale, bensì come un ramo distorto della visione del laissez-faire.  Di fronte al regime giuridico che proteggeva i diritti collettivi del capitale imprenditoriale, i sindacalisti erano attirati a rivendicare diritti simili per il lavoro [64]. Invece di contestare il costituzionalismo del laissez-faire perseguivano l’estensione dei suoi vantaggi al lavoro. Le analogie con i diritti proprietà delle imprese implicavano l’accettazione di tali diritti. Da lì il passo era breve al rifiuto dell’organizzazione e dell’azione politica a livello di classe, a favore del “vangelo” volontarista della libera contrattazione [65]. In tal modo il dibattito sui diritti del lavoro “si basavano su premesse che ratificavano molte delle asimmetrie di potere dell’industria” ed escludevano modi più radicali di criticale l’ordine industriale [66].

Coerenti con la teoria dell’egemonia, Forbath,Fink e Tomlins trovano sia forze sia debolezze nel dibattito giuridico sul lavoro [67]. Come abbiamo visto, Forbath mostra che il dibattito costituzionale assolve funzioni di contro-prevenzione di giustificazione della resistenza e di spettacolarizzazione della posizione sul lavoro dei riformatori e dei legiferatori della classe media [68]. Fink suggerisce che il costituzionalismo del mondo del lavoro può aver fornito un “accorto” percorso verso la legittimità, considerata la configurazione dei vincoli giuridici e costituzionali statunitensi [69]. Per Tomlins la coscienza dei diritti costituzionali era migliore della visione stato-centrica che imponeva così tanti limiti all’azione collettiva che i lavoratori finivano con “null’altro che la possibilità di partecipare alla costruzione della loro stessa subordinazione” [70]. 

D. Insurrezione costituzionale come genesi del diritto

Supponiamo infine, con Michel Foucault, che il potere e la resistenza si formino contemporaneamente e nella stessa località, non come un qualche centro di potere o enclave di resistenza bensì “esattamente nel punto in cui sono esercitate le relazioni di potere” [71]. Qui, dove il potere “diventa capillare, cioè, nelle sue forme e istituzioni più regionali e locali [72]”, non si adatta più allo schema di “A esercita potere su B”. I subordinati, invece, partecipano attivamente a un continuo processo di costruzione e ricostruzione di relazioni di potere [73]. In tal modo, come osserva Catharine MacKinnon, i subordinati non sono più privati di potere “nell’ambito della necessità della loro adesione vi è una forma di potere” [74]. Apparenze di sottomissione possono celare culture dinamiche di resistenza [75]. In questo mondo di potere costruito socialmente, l’insurrezione costituzionale appare non come una patologia, o come uno strumento di controprevenzione, o come una distorsione egemonica, bensì come un elemento autentico e potenzialmente trasformativo della formazione e dell’identità del movimento sociale. La disobbedienza perturbatrice è la forma quintessenziale del potere dei gruppi subordinati. Privi delle risorse informative, organizzative e finanziarie per competere con le élite nel processo politico rappresentativo, i gruppi subordinati esercitano il potere negando la collaborazione alle istituzioni esistenti [76]. Anche una disobbedienza spontanea localizzata può avere conseguenze importanti su tutto il sistema [77].

Le rivendicazioni dei diritti svolgono oggi un ruolo vitale nella “liberazione cognitiva” di movimenti sociali dal fatalismo [78]. Per membri di gruppi privati di potere i diritti “implicano un rispetto che pone in un gamma di rapporti dell’io con l’altro, che eleva la condizione individuale da corpo umano a essere sociale [79]”. Il processo di ideazione di rivendicazioni di diritti può contribuire a contrastare l’egemonia offrendo ad attivisti e legali un’occasione per precisare bisogni e percezioni di sé [80]. Né la partecipazione alla cultura costituzionale prevalente tende necessariamente a rafforzare il dominio: “l’accettazione di una versione ampia e idealizzata dell’ideologia dominante” può provocare i conflitti, anziché prevenirli [81]. Da estranei al potere istituzionale, i subordinati possono considerare criticamente la legge come uno strumento del dominio dell’élite; gli appartenenti alla cultura che valorizza la legge possono anch’essi attingere alla legge come fonte di diritti e di norme egualitarie [82]. Secondo Sean Wilentz, ad esempio, il movimento sindacale dell’era jacksoniana costruì una filosofia centrata su un diritto della “proprietà” di disporre del lavoro che era tanto radicale quanto qualsiasi altra filosofia promossa dai movimenti contemporanei britannici o francesi [83]. La nozione di origine del diritto, della creazione di significato legale, di Robert Cover [84] offre le fondamenta di una teoria del ruolo del pensiero e della prassi giuridica nel sostenere la resistenza e dunque di un tipo ideale di insurrezione costituzionale che procede dalla periferia al centro. Come l’egemonia (e diversamente dalla nozione tradizionale di giurisprudenza, che considera il pensiero giuridico una scienza) l’origine del diritto è un processo culturale che ha luogo in una vasta gamma di situazioni sociali, molte delle quali esterne alle istituzioni legali ufficiali.

Un movimento generatore di diritto è caratterizzato da tre elementi, ciascuno dei quali era presente agli inizi del movimento statunitense del lavoro del ventesimo secolo. Primo: i partecipanti condividono un corpo comune di narrativa e pensiero giuridico [85]. I sindacati avevano promulgato statuti e altre norme che regolavano la condotta dei membri. Tali testi erano associati a una narrazione, ad esempio una storia che raccontava come i membri si erano sollevati da uno stato di schiavitù attraverso l’organizzazione collettiva e il rispetto delle norme del sindacato. Anche in fabbriche non sindacalizzate, molti lavoratori (specialmente operai specializzati) abbracciarono un codice etico informale che regolava la produzione, i doveri di solidarietà e l’atteggiamento corretto nei confronti del padrone [86].

Secondo: esiste un insieme di rituali per istruire i membri per l’ingresso nel movimento [87]. Ad esempio alcuni sindacati avevano un programma di apprendistato in cui erano insegnati i principi del sindacalismo assieme alle competenze del mestiere. In fabbriche non sindacalizzate ai nuovi operai erano insegnati dagli anziani i fondamenti della resistenza e della solidarietà [88].

Terzo: esiste un impegno più o meno istituzionalizzato da parte dei membri a vivere secondo le loro idee giuridiche condivise [89]. Molti sindacati avevano un sistema di consigli arbitrali per decidere sulle presunte violazioni delle norme sindacali e per imporre sanzioni formali, come multe o espulsioni. Nelle aziende sia sindacalizzate che non sindacalizzate, erano inflitte sanzioni che spaziavano da commenti aspri all’ostracismo nel caso di non coerenza con i principi della solidarietà. Un movimento generatore di diritto può dar vita a un’insurrezione costituzionale. Il movimento si appropria del testo costituzionale ufficiale come parte del proprio corpus, interpretandolo secondo l’esperienza del gruppo attraverso la creazione di una narrazione non ufficiale. Dove il gruppo è già impegnato in un vivace processo di produzione di norme, la sua interpretazione della costituzione difende la giurisdizione del proprio autonomo processo legale all’interno dell’ordine ufficiale. Nel periodo di cui qui ci si occupa, gli organismi normativi del movimento del lavoro erano in competizione con i datori di lavoro e il governo per la giurisdizione sul presso del lavoro [90]. Alcuni sindacati (più notevolmente l’International Typographers Union) mantennero un regime di pura legiferazione sindacale, in cui i lavoratori legiferavano unilateralmente sulle condizioni in base alle quali avrebbero lavorato [91]. Anche se, arrivati agli anni ’20, tale regime era scomparso nella maggior parte delle industrie, i contratti collettivi che sostituirono le norme sindacali conservarono spesso una forma di legiferazione [92].

Il tipo ideale di genesi del diritto non pretende di cacciare gli altri tre tipi: non tutte le insurrezioni costituzionali comportano movimenti generatori di diritto. Genera, piuttosto, una quarta storia e, nel farlo, modifica l’elenco e le priorità delle domande da porre a proposito di ogni particolare insurrezione costituzionale.

1. Funzioni strumentali contro funzioni costitutive

Nel modello dei gruppi di pressione, il discorso sui diritti è disfunzionale. In ciascuno degli altri modelli, tuttavia, assolve funzioni importanti. Il modello della controprevenzione considera il dibattito sui diritti costituzionali al servizio di scopi esterni e strumentali di sollecitazione dell’intervento ufficiale, di attrazione dell’attenzione e della conquista del sostegno di basi esterne, e di giustificazione delle attività del movimento, specialmente delle violazioni della legge ufficiale. Questo modello non presuppone che l’uso del dibattito sui diritti evidenzi una coscienza di essi; il linguaggio e la simbologia sono semplicemente risorse da impiegare. In quest’ottica ci aspetteremmo di trovare un maggior uso del discorso sui diritti nelle comunicazioni dirette a esterni piuttosto che nelle comunicazioni interne al movimento.

Nei modelli dell’egemonia e della genesi del diritto, d’altro canto, il discorso sui diritti adempie funzioni interne, costitutive che sono almeno tanto importanti quanto le funzioni esterne, strumentali proposte dal modello della controprevenzione. Generando e mobilitando la coscienza dei diritti in gruppi subordinati, il discorso sui diritti esercita un’influenza che ne plasma le idee sulle loro identità, potenzialità e lamentele collettive. Conseguentemente ci aspetteremmo di trovare una robusta discussione sui diritti nelle comunicazioni interne al movimento e anche in comunicazioni dirette all’esterno. Ci aspetteremmo di trovare attivisti impegnati che vivono rispettando la loro interpretazione della legge anche quando farlo è in contrasto con interessi strumentali. Il tema del contrasto tra funzioni strumentali e costitutive diviene centrale nella storia dello sciopero costituzionale nelle parti III e IV, che narrano la creazione e il rispetto, da parte dei sindacalizzati, di principi fondati sulle loro proprie esperienze.

2. Funzioni egemoniche contro funzioni costitutive emancipanti

Poiché non riconoscono la dimensione costitutiva del dibattito sui diritti, i modelli dei gruppi di pressioni e della controprevenzione non hanno nulla da dire sui suoi effetti. Nel modello dell’egemonia, il dibattito sui diritti rafforza il dominio dell’élite influenzando la costruzione della realtà da parte dei gruppi subordinati. Si afferma che la coscienza dei diritti sminuisce la percezione della solidarietà, potenzialità e scopo da parte del gruppo. In questa visione ci aspetteremmo di riscontrare una consapevolezza dei diritti più forte tra i membri più conservatori dei gruppi subordinati, rispetto a quelli più radicali. Ci aspetteremmo una correlazione negativa tra il dibattito sui diritti e le proposte di cambiamento radicale. Nel modello della genesi del diritto, la riflessione e la pratica giuridica svolgono ruoli formativi nel costruire identità di gruppo e nello sviluppare la capacità di azione collettiva. Dove le esperienze e gli interessi di un gruppo subordinato divergono ampiamente da quelli dei gruppi dominanti ci aspetteremmo di riscontrare dibattiti cruciali sui diritti. Data una cultura costituzionale con ampie norme ideali, quali “l’eguale protezione delle leggi” e la “libertà d’espressione”, ci aspetteremmo di non rilevare alcuna correlazione negativa tra dibattito sui diritti e radicalismo o qualsiasi pregiudizio nei confronti di forme ristrette di solidarietà. La questione del contrasto tra funzioni egemoniche e funzioni costitutive emancipatrici fa il suo ingresso nella narrazione nella parte V, che racconta l’utilizzo da parte degli attivisti locali della carta della libertà del lavoro per alimentare solidarietà e mobilitare resistenza.

3. Origini locali contro origini centrali

I modelli dei gruppi di pressione, della controprevenzione e dell’egemonia ipotizzano tutti che la coscienza dei diritti si sviluppi in reazione al discorso ufficiale sui diritti. I gruppi subordinati imitano le élite, si appropriano del loro discorso sui diritti e – per certi versi – lo modificano ai propri fini. Conseguentemente ci attenderemmo di rilevare prove di coscienza dei diritti costituzionali più nelle dichiarazioni dei leader del movimento, che costantemente hanno a che fare con tribunali e avvocati, che in quelle di attivisti locali, che interagiscono solo sporadicamente con le istituzioni legali. Ci aspetteremmo anche che quando gli attivisti locali, in effetti, propongono tesi a proposito dei diritti seguano le linee fissate dai loro leader.

Per contro, la genesi del diritto ipotizza che un’ampia varietà di gruppi sociali sia capace di generare significato giuridico senza alcuno sprone o assistenza particolari da parte delle istituzioni legali ufficiali.  Ci aspetteremmo di riscontrare coscienza dei diritti fiorente anche dove l’esposizione ai tribunali è limitata. Inoltre, le esperienze contrastanti e gli interessi conflittuali di dirigenti e attivisti locali ci indurrebbero a sospettare che questi due gruppi possano abbracciare forme disparate di coscienza dei diritti. Maggiore il divario di esperienze e interessi tra la dirigenza e la base, maggiore sarebbe il contrasto atteso tra le loro idee. Supponendo che la forma più potente di potere dei subordinati sia la sanzione ribelle del caos, mentre i dirigenti dipendono dalla legalità ufficiale e da un flusso costante di sostegno finanziario [93], ci aspetteremmo che il contrasto fosse molto forte. Il problema del contrasto tra origini locali e centrali della coscienza dei diritti diviene cruciale nella Parte VI, dove al rifiuto da parte dei dirigenti sindacali nazionali della carta della libertà del lavoro a favore di visioni basate sulle loro diverse esperienze di funzionari del sindacato.

4. Collegamento: il ruolo degli avvocati

Se la coscienza dei diritti si sviluppa in reazione alle imposizioni e alla trattazione giudiziaria, come in tutti i modelli eccettuato quello della genesi del diritto, ci aspetteremmo di scoprire che gli avvocati del movimento svolgano un ruolo mediatore chiave sia nel trasferire la trattazione ufficiale dei diritti al movimento, sia nello sviluppare teorie legali per volgere quella trattazione ai fini del movimento.  

La genesi del diritto, d’altro canto, presuppone che ogni gruppo con esperienze e interessi condivisi possa creare il proprio mondo di significati legali. Se la coscienza legale può svilupparsi dal basso verso l’alto, allora gli avvocati del movimento possono ben ritrovarsi dalla parte opposta di una divisione culturale rispetto ai loro clienti. Avvocati e giudici sono inserire in una solida cultura professionale che li separa sia dai dirigenti sia dagli attivisti del movimento. Robert Gordon ha suggerito che il principale ruolo sociale della professione legale sia “la produzione di ideologia” che concilia gli scopi e le attività dei loro clienti delle imprese con una struttura di giustizia diffusamente accettata [94]. Questo processo comprende più che la semplice traduzione di interessi particolaristici dei clienti nel linguaggio legale di singoli avvocati. L’intero apparato culturale della legge, dalle facoltà di diritto ai tribunali, genera linguaggi, simbologie e rituali che riflettono valori dell’élite e sostengono gli interessi dell’élite. Gordon mostra come, alla fine del diciannovesimo secolo e all’inizio del ventesimo, questa cultura professionale supera i confini sia della specializzazione sia dell’orientamento politico [95]. In quest’ottica non ci si sorprenderebbe nel riscontrare una forte disgiunzione tra la consapevolezza giuridica di un movimento sociale generatore di diritto e quella dei suoi avvocati. Questo problema assume una posizione di primo piano nella Parte VII, in cui gli avvocati dei sindacati respingono la carta della libertà del lavoro a favore di visioni più compatibili con la trattazione professionale prevalente.

Parte due

Nel dicembre del 1919 l’American Federation of Labor ospitò un congresso di sindacati e di organizzazioni di coltivatori in rappresentanza di quasi cinque milioni di lavoratori. Anche se il movimento del lavoro aveva raggiunto un nuovo picco di membri e di influenza, i delegati erano di umor nero. La campagna organizzativa più ambiziosa e scrupolosa della storia statunitense era culminata in uno sciopero nazionale dei metallurgici che – sotto un fuoco di sbarramento di ingiunzioni, arresti e interventi dell’esercito – che vacillava sull’orlo della sconfitta totale. Uno sciopero generale a Seattle e un’ondata di scioperi della polizia aveva suscitato paure di un’insurrezione, volgendo l’opinione pubblica contro il sindacalismo. Avvertendo una breccia, i legislatori statali e federali avevano presentato dozzine di proposte di legge che vietavano o limitavano gli scioperi e prescrivevano procedure per la soluzione delle dispute industriali [96].

In risposta i delegati della conferenza inquadrarono il tema degli scioperi non come una questione di economia o di etica, bensì come una di legge costituzionale. “La politica autocratica e le influenze industriali e finanziarie nel nostro paese hanno cercato”, avvertirono, “di invadere e limitare i diritti fondamentali garantiti dalla costituzione degli Stati Uniti [97] ai percettori di salari.” Tali diritti erano da ricavare non dalla garanzia di “libertà”, fortemente contestata, prevista dal Quattordicesimo Emendamento, bensì nella clausola, giudizialmente moribonda, della Servitù Involontaria inclusa nel Tredicesimo Emendamento [98].  Il diritto di sciopero, proclamava la dichiarazione del congresso, si traduceva nella differenza tra servitù volontaria e involontaria, tra la libertà e la schiavitù [99].

Il governatore del Kansas, Henry J. Allen, un Repubblicano progressista e forte sostenitore dell’interventismo governativo, non ne fu impressionato. Un mese dopo il congresso indusse il parlamento statale del Kansas ad approvare la legge del Kansas sulla Corte Arbitrale dell’Industria, il più ambizioso intervento legislativo statunitense sul lavoro prima del New Deal. La legge vietava gli scioperi nelle industrie “coinvolte in un interesse pubblico”,  che includeva tutte le industrie che, nello stato, erano sindacalizzate o minacciate di sindacalizzazione [100]. Creava una corte arbitrale dell’industria per risolvere le dispute sottostanti e dava ai tribunali il potere di stabilire i salari e le condizioni di lavoro [101]. I lavoratori dovevano ricevere “un salario equo e avere un ambiente sano e morale al lavoro” [102]. Se la corte decideva che una cessazione illegale dell’attività minacciava la quiete o la salute pubblica, poteva avviare procedure per “rilevare, controllare, dirigere o gestire” la società [103]. La corte era costituita da tre giudici nominati da governatore con un mandato triennale [104].

Fin dall’inizio i sostenitori e gli oppositori della legge formularono i loro argomenti in termini costituzionali non solo presso la corte, ma anche nel dibattito pubblico. La lotta successiva pose in grande rilievo tre visioni costituzionali in concorrenza tra loro; la carta dominante del laissez-faire, la carta progressista in ascesa e la carta della libertà degli insorti. Chiamo queste visioni ‘carte’ [‘constitutions’ nell’originale – n.d.t.] perché ciascuna costituisce per i propri sostenitori non solo una fonte di argomenti ma anche una guida all’azione.

A. Carta del laissez-faire delle imprese

Quando il governatore Allen propose la Corte Arbitrale dell’Industria, il colonnello John S. Dean, un avvocato delle imprese, emerse rapidamente come la persona più schietta nell’affermare di rappresentare le imprese. Parlando a un comitato parlamentare, egli sostenne che la proposta di legge violava il diritto costituzionale di lavoratori e datori di lavoro di concludere contratti senza interferenze del governo. Il potere della corte di rilevare e amministrare imprese private corrispondeva a un “socialismo di stato” [105]. Dean fece l’occhiolino al lavoro, sostenendo che il potere dello stato di stabilire salari avrebbe ridotto i singoli lavoratori a una servitù involontaria, ma che egli sosteneva con forza il divieto di scioperi previsto dalla proposta di legge [106]. Dean non aveva bisogno di alcuna teoria legale creativa per sostenere la sua tesi costituzionale. Delle tre carte in competizione, quella imprenditoriale del laissez-faire si adattava meglio alla dottrina legale contemporanea. L’era del giusto processo in economia era in forte oscillazione e sia le corti statali sia quelle federali annullavano le interferenze legislative nella libertà di contrattazione e nei diritti di proprietà. Nel 1920 la Corte Suprema degli Stati Uniti aveva invalidato violazioni della libertà di contrattazione molto meno intrusive della Corte dell’Industria e del suo potere di stabilire salari e orari [107].

B. La carta progressista “del pubblico”

Anche se il progressismo è più utilmente inteso come un insieme di trattazioni condivise che come un’ideologia programmatica [108], il movimento produsse in effetti un’ideologia coerente nel campo della legge costituzionale. Per i riformatori e gli intellettuali progressisti sia la carta del laissez-faire delle imprese, sia la carta della libertà del lavoro erano ostacoli a un governo illuminato. Sostenevano che le risposte ai problemi dell’industria erano da ricercare non nella Costituzione, bensì nelle scienze economiche e sociali [109]. Secondo questa visione i diritti costituzionali nella sfera economica bloccavano l’adattamento al cambiamento. L’aderenza a principi fondamentali interferiva con la contrattazione pragmatica. Gli scioperi e i boicottaggi costituivano una “guerra industriale” che doveva cedere il passo a una gestione pacifica [110]. Di conseguenza il governatore Allen esortò sia i capitalisti sia i lavoratori a rinunciare alle loro obiezioni circa la “libertà” nella regolamentazione dell’economia [111].

Quanto al riferimento del mondo del lavoro al Tredicesimo Emendamento, molte progressisti ritenevano che la garanzia, prevista dalla legge, del diritto individuale di dimettersi negava in modo conclusivo qualsiasi analogia con la schiavitù o la servitù involontaria [112]. Altri, meno ottimisti riguardo al mercato del lavoro come garante di libertà, contavano che fosse la Corte a svolgere quel ruolo. Presagendo il paradigma moderno della legge costituzionale fissato nella causa Carolene Products, sostennero che il lavoro non poteva essere reso schiavo fintanto che i lavoratori conservavano il diritto di voto e, con esso, la capacità di influenzare la composizione della Corte Arbitrale dell’Industria [113].

I principali promotori della legge erano pienamente consapevoli che essa era di dubbia costituzionalità. Si consideravano partecipanti a una lotta per cambiare la legge consuetudinaria prevalente. “Noi avvocati riteniamo che nulla sia costituzionale a meno che una corte abbia affermato che è costituzionale”, osservò W.L.Huggins, il capo estensore della legge, “ma se ci fermiamo dove si ferma la corte, non saremo mai in grado di compiere alcun progresso” [114]. Allen fu d’accordo, osservando che “la via al cambiamento della costituzione è lastricata di vari di regolamenti”[115]. Né Allen né Huggins prevedevano una resistenza aperta; la loro idea era, piuttosto, che “andando un po’ più fuori linea” [116] potevano indurre la corte ad accettare un altro passo in quello che William Allen White definì “la vecchia procedura di porre sotto controllo, in considerazione del pubblico interesse coinvolto, questioni che prima erano unicamente di interesse privato”[117] .

Nella discorso progressista, il “pubblico” era costituito da tutti, con l’eccezione di “Interessi speciali” quali capitale e lavoro. L’opposizione del colonnello Dean, formulata per conto delle imprese, rafforzò l’affermazione di Allen che la legge proteggeva il pubblico sia dal capitale sia dal lavoro [118]. Di fatto, tuttavia, le imprese erano divise sul tema. Nel momento stesso in cui Allen dichiarava l’ostilità del capitale, riceveva corrispondenza che contraddiceva la sua dichiarazione. Imprenditori di tutto il paese riferivano i loro tentativi di garantire l’approvazione di leggi simili nei loro stati [119]. Gruppi imprenditoriali aprirono le loro assemblee e pubblicazioni alle idee di Allen [120]. In effetti Allen stava tentando di fare per le imprese ciò che Robert F. Wagner avrebbe in seguito fatto per il lavoro: assumere la guida della costruzione di una concezione dei gruppi d’interesse che includesse una notevole dose di intervento statale nelle relazioni industriali [121].

C. La carta della libertà del lavoro

Fin dall’inizio i sindacalisti si opposero alla legge per motivi costituzionali. Le sezioni dei ferrovieri rivolsero appelli ad Allen a non “legalizzare la servitù involontaria” [122] e gli ricordarono che “la schiavitù è stata abolita nell’anno 1865” [123]. Davanti a giudici e a riunioni di massa, Alexander Howat, leader dei minatori del Kansas, martellò la tesi che la legge resuscitava la schiavitù e la servitù involontaria in violazione del Tredicesimo Emendamento [124]. Dopo un discorso appassionato dei Howat, i delegati del congresso dell’AFL del 1920 approvarono risoluzioni che dichiaravano che la legge violava il Tredicesimo Emendamento e che era mirata a porre “la classe operaia … nella posizione in cui si trovavano i lavoratori neri prima dell’abolizione dello schiavismo” [125]. Non ci fu opposizione aperta.

In seguito nella lotta sarebbe divenuto chiaro che questa apparenza di unità celava profonde fratture all’interno del movimento del lavoro, fratture di importanza centrale nella comprensione delle dinamiche della genesi del diritto del lavoro. Vedremo che sia la carta imprenditoriale del laissez-faire sia la carta progressista “del pubblico” trovavano sostegno, pur in forme modificate, in seno al movimento. Per il momento, tuttavia, sarà utile presentare un conciso sommario della visione costituzionale prevalente, quella condivisa dai leader più importanti della resistenza costituzionale: Alexander Howat, leader degli United Mine Workers del Kansas (UMW), sezione 14; John Hunter Walker, presidente della Federazione del Lavoro dello stato dell’Illinois e – almeno nei suoi momenti di maggiore audacia – il presidente dell’AFL Samuel Gompers.

Delle tre carte in competizione, quella del lavoro trovava il supporto minore nella giurisprudenza. Alcuni sentenze della magistratura avevano fatto riferimento alla schiavitù o alla servitù involontaria nella procedura di invalidazione delle ingiunzioni antisciopero, ma la prassi generale consisteva nel trattare il diritto di sciopero come un’eccezione rigidamente circoscritta al divieto generale contro le “cospirazioni” [126]. Per rimediare a questa scarsità di posizioni favorevoli, i sindacalisti passarono a un linguaggio legale più astratto.

Diversamente dalla Carta dei Diritti, il Tredicesimo Emendamento si esprimeva in modo sistematico: “Non esisteranno negli Stati Uniti … né la schiavitù né la servitù involontaria, eccetto che come punizione per reati …”[127].  L’Emendamento non specificava quali diritti e protezioni sarebbero stati necessari per negare una condizione di schiavitù o di servitù involontaria. Per una volta i costituzionalisti del mondo del lavoro concordarono con la risposta affermata dalla Corte Suprema: l’Emendamento era mirato a “rendere libero il lavoro, vietando quel controllo mediante il quale i servizi personali di un uomo sono disposti o forzati a vantaggio di un altro” [128]. Questa formulazione, tuttavia, lasciava spazio per una vasta gamma di posizioni sull’attività collettiva. A un estremo dello spettro la maggior parte dei tribunali seguiva gli abolizionisti alla Garrison affermando che era sufficiente la libertà di contrattazione. Indipendentemente da quanto grande e potente potesse essere un’azienda, il lavoratore poteva sempre licenziarsi e andare altrove [129].

All’altro estremo dello spettro i sindacalisti i sindacalisti reagivano contestando l’economia, la teoria e i pilastri della visione della libertà come diritto di licenziarsi. L’idea che un lavoratore da solo potesse evitare il controllo del datore di lavoro licenziandosi era, sostenne Samuel Gompers, un “sotterfugio”: “Immaginatevi semplicemente quale magnifica influenza un tale individuo avrebbe, diciamo, ad esempio, sulla U.S.Steel Corporation …”[130]. Una ragione della sua mancanza di influenza era il fenomeno noto agli economisti come “asimmetria dello scambio monetario”. “L’imprenditore medio può scaricare un uomo senza farci caso”, scrisse John Hunter Walter, “ma a quell’uomo e a sua moglie e ai suoi figli ciò costa tutto ciò che hanno” [131]. Inoltre un lavoratore che lasciava il suo posto poteva scoprire di dover lasciare la sua comunità per trovare lavoro, un corso d’azione non percorribile per molti lavoratori che dipendevano dal sostegno emotivo e dalla solidarietà materiale di comunità della classe lavoratrice dai forti legami [132].

Il cuore dell’argomentazione del mondo del lavoro, comunque, era concentrato non sui malfunzionamenti del mercato, bensì sul concetto di libertà. Indipendentemente da quanto bene il meccanismo impersonale del mercato possa disciplinare gli imprenditori, i lavoratori non potrebbero godere della libertà se non potessero esercitare un grado di controllo consapevole sulla propria vita lavorativa. Gompers spiegò che quando il lavoratore perdeva la capacità di produrre un bene completo con i propri strumenti, egli “perdeva anche la sua identità e il suo potere” [133]. Non poteva rinconquistare nessuno dei due con l’atto muto di “percorrere le strade in cerca di lavoro” [134]. Come concludeva John Fitch “nella sua libertà individuale di licenziarsi egli può ottenere condizioni migliori solo inciampandoci, se è così fortunato. Non può, con i suoi compagni, determinare per sé simili condizioni” [135]. Analogamente, nell’argomentare contro i contratti che imponevano la non adesione a un sindacato, i sostenitori dei lavoratori insistevano che il fatto che un lavoratore “trovi lavoro altrove o no, non ha nulla a che vedere con” il problema [136]. Per gli economisti neoclassici, questa tesi non ha alcun senso; dopotutto un lavoratore potrebbe andarsene altrove e liberarsi di un contratto che gli impone di non iscriversi al sindacato. Ma per i costituzionalisti del mondo del lavoro la mera “libertà come atto” – la libertà di accettare o rinunciare a un contratto – non poteva mai sostituire la libertà di plasmare le condizioni della vita quotidiana [137].  La sfida alla legge dei costituzionalisti del mondo del lavoro riguardava “il diritto legale di tutti i lavoratori di controllare le proprie vite” [138].

Infine, i sindacalisti sostennero una tesi concettuale che la legge creava una forma di schiavitù garantendo agli imprenditori diritti di proprietà su esseri umani [139]. La negazione del diritto di sciopero era “un’invasione della proprietà di sé stessi e della propria forza di lavoro degli uomini ed è una pretesa di una qualche forma di diritto di proprietà sui lavoratori” [140]. L’idea che un lavoratore potesse vendere il proprio lavoro senza perdere la sua libertà era, secondo Victor Olander, palesemente assurda:

“Il lavoro è l’uomo stesso, un attributo della vita; aumenta con la salute, diminuisce con la malattia e termina con la morte … Un uomo può esercitare la sua capacità di lavorare nell’interesse di un altro ma non può darla o venderla a nessun altro senza al tempo stesso rinunciare al suo stesso corpo. [141] “

Proprio come il diritto individuale di licenziarsi non era garanzia di libertà, non lo era neppure il diritto di voto. I sindacalisti prefiguravano i moderni teorici del potere nel sostenere che le persone possono essere condizionate a uno stato d’impotenza a meno che non giungano a riconoscere sé stesse come protagonisti effettivi nella quotidianità. Senza organizzazione, sosteneva John Hunter Walker, “la mente del lavoratore e quella della sua famiglia saranno addestrate e plasmate ad adattarsi ai desideri del datore di lavoro dal punto di vista della creazione di un animale da lavoro obbediente, sottomesso e disponibile” [142]. Una Corte Arbitrale dell’Industria indurrebbe i sindacati a diventare “fiacchi” e “deboli” per l’assenza dell’esercizio dello sciopero [143]. In effetti, le leggi contro gli scioperi erano mirare a “ricreare uno spirito dipendente tra i lavoratori”, in modo che essi “accettino di nuovo il marchio di inferiorità che è stato per millenni il loro distintivo; accettino che tutto il loro progresso venga dall’altro, da un tipo di padrone magnanimo o da un governante benevolente” [144]. Come la libertà individuale di contrattazione, così la libertà di voto nell’urna ha dato ai lavoratori l’apparenza ma non la realtà della libertà.   

La rivendicazione da parte dei lavoratori del diritto di sciopero non avrebbe potuto essere più assolutista. “Non può esservi alcun interesse” proclamò il Parsons Kansas Central Labor Body, “che sia superiore ai diritti dei lavoratori di rifiutare il loro lavoro in condizioni che non accettano” [145]. I lavoratori godevano del diritto di sciopero, sosteneva Gompers, “quali che siano le conseguenze o le sofferenze che ciò possa comportare” [146]. In difesa di questo assolutismo i sindacalisti invocarono i principi del repubblicanesimo civico. Non poteva esistere “alcuna servitù involontaria senza la distruzione dell’intera concezione statunitense del vivere civico e del governo civile” [147]. Gli scioperi potevano imporre pesanti costi al pubblico ma, avvertiva Gompers, “ci sono in questo mondo cose peggiori degli scioperi”, cioè il genere di “virilità degradata, demoralizzata e servile” che poteva fiaccare la forza degli Stati Uniti come aveva fatto con quella dell’Impero Romano [148]. Era vero che la società aveva dei diritti, “ma la libertà, nel lungo termine, offre la protezione migliore di tali diritti” [149]. Sia gli incentivi ad abusare del diritto di sciopero, sia la capacità dei lavoratori di attuarli, erano limitati dal fatto che essi stessi avrebbero sofferto il danno personale più grave: la perdita totale del reddito [150]. Infine, l’idea che un tribunale governativo potesse riuscire a controllare gli scioperi meglio dei lavoratori stessi era basata su una paura immotivata dei lavoratori e sull’idea prevenuta che “c’è una qualche classe superiore che salverà il paese dall’annientamento economico” [151].

Mentre ai datori di lavoro era permesso di violare la legge in attesa che le loro vertenze costituzionali arrivassero alla Corte Suprema, gli scioperanti dovevano confrontarsi con ingiunzioni giudiziarie seguire dall’immediata incarcerazione per oltraggio alla corte. Perciò, sin dall’inizio, ai sindacalisti si presentava una scelta netta e inevitabile tra conformarsi alla legge o sfidarla apertamente.

III. UN MONDO LEGALE ALTERNATIVO

Tutto questo parlare dell’incapacità di far valere la legge in Kansas è una stupidaggine, signori. Questa è una terra di legge e ordine, e quando questa legge sarà promulgata sarà fatta rispettare … [12]

- W.L.Huggins, Estensore

Legge del Kansas sull’Arbitrato Industriale, gennaio 1920

Ci sono due leggi in Kansas: la legge dello stato e la legge “sovietica” di Howat e Dorchy …[153]

- W.L.Huggins, Primo giudice

Corte Arbitrale del Kansas sulle Relazioni Industriali, ottobre 1921

Oggi si dà per scontato che i diritti costituzionali siano fatti valere dai tribunali. Sia i critici sia i promotori di dissertazioni sui diritti presuppongono che quando un movimento sociale sceglie una strategia incentrata sui diritti costituzionali, ciò necessariamente selezione il sistema giudiziario come destinatario istituzionale dei suoi sforzi. Per i costituzionalisti del lavoro, tuttavia, questo collegamento dei diritti con i tribunali era qualcosa di totalmente estraneo. Nella loro esperienza il ramo giudiziario era il peggior violatore della costituzione. I tribunali, non i parlamenti, avevano sviluppato le ingiunzioni contro i lavoratori e le avevano utilizzate per usurpare non solo i poteri dei dirigenti eletti nel ramo legislativo ed esecutivo, ma anche il potere delle giurie di stabilire la colpa e l’innocenza.  Secondo l’AFL la causa Marbury contro Madison [154] era stata decisa in modo ingiusto e lo stesso preteso potere delle corti federali di revisione giudiziaria delle leggi del Congresso violava la Costituzione [155].

Agli occhi degli avvocati moderni, il movimento del lavoro era preso in una contraddizione: cercare di mantenere la supremazia legale della legge costituzionale su quella regolamentare sollecitando al tempo stesso la supremazia istituzionale del potere legislativo sul ramo giudiziario. Se non erano i tribunali a far valere la costituzione del lavoro, chi lo avrebbe fatto?

Con l’entrata nel suo quarto decennio del governo per ingiunzione, la questione assunse una crescente importanza agli occhi dei costituzionalisti del lavoro. L’ovvia alternativa ai tribunali era il ramo legislativo. Per decenni i sindacalisti avevano sollecitato le loro tesi costituzionali presso legislatori e comitati legislativi [156]. I legislatori statali avevano reagito promulgando dozzine di leggi contro le ingiunzioni e le cospirazioni e nel 1914 il movimento del lavoro acclamò una nuova Magna Carta quando il Congresso approvò le sezioni 6 e 20 della Legge Clayton, che sembrava vietare la maggior parte delle ingiunzioni contro il lavoro dei tribunali federali [157]. Sfortunatamente per i sindacalisti, tuttavia, i tribunali invalidarono la maggior parte delle leggi statali [158] e resero efficacemente nulle le sezioni 6 e 20 interpretandole in senso restrittivo [159]. Peggio ancora, molti parlamenti cominciarono essi stessi ad approvare o a prendere in considerazioni leggi – come la Legge del Kansas sulle Corti Industriali – che violavano sfacciatamente la costituzione della libertà del lavoro.

Con i tribunali e i parlamenti che minacciavano entrambi i diritti del lavoro, restava una sola via possibile per attuare la costituzione della libertà del lavoro: l’esercizio del potere popolare diretto. Già nel 1909 l’AFL sollecitò gli aderenti al sindacato a sfidare le ingiunzioni incostituzionali e a “accettare qualsiasi conseguenza possa seguire” [160].  Sette mesi prima dello sciopero costituzionale un congresso di 109 organizzazioni sindacali patrocinato dall’AFL diffuse il più forte appello alla disobbedienza sino a quel momento, dichiarando che le ingiunzioni contro i lavoratori erano “prive di base né nella Costituzione né nella legge fondamentale del paese” e che il “solo rimedio possibile e pratico … sta in un deciso rifiuto da parte dei lavoratori di riconoscere o obbedire” alle loro imposizioni [161]. Nonostante tutta la retorica, tuttavia, un solo dirigente sindacale di statura nazionale scontò una condanna considerevole al carcere per essersi impegnato nella resistenza in questo periodo: Alexander McWhirter Howat, del Kansas. 

A. Il dovere e la strategia della resistenza

Howat era immigrato negli Stati Uniti dalla Scozia da bambino. A dieci anni lavorava nella miniera di carbone di Braidwood, Illinois. Privato di un’istruzione formale, trascorse i suoi anni formativi immerso in una vivace e potente cultura dei diritti. I minatori britannici che erano immigrati in cittadine come Braidwood formarono la spina dorsale dell’avvio del sindacato United Mine Workers. Portarono con sé una dedizione profondamente radicata ai diritti e alle libertà democratiche derivata dalla loro esperienza in patria nel movimento Cartista e in quello sindacale [162]. Anche se colpiti da ammirazione per sistema statunitense del suffragio universale maschile, temevano l’ascesa della schiavitù economica nella loro nuova patria. Molto prima che dirigenti sindacali e avvocati cominciassero a invocare contro le ingiunzioni il Tredicesimo Emendamento, gli attivisti sindacali locali di Braidwood e di altre aree minerarie citavano la Guerra Civile e l’abolizione dello schiavismo come precedenti per le loro lotte per la libertà [163].

Howat sviluppò nel fondo delle miniere le sue idee sui diritti e la libertà. Lì, lontano dall’occhio spione dei capi, minatori esperti istruivano i nuovi arrivato sull’esercizio della “libertà del minatore”, una cultura lavoratrice di autonomia, dignità e solidarietà. Un vero uomo stabiliva il proprio orario e il proprio ritmo di lavoro. (Per i minatori a cottimo, naturalmente, orari più corti o lavoro più lento si sarebbero tradotti in una paga inferiore). Reagirebbe a esercizi arbitrari dell’autorità del padrone insistendo non soltanto sui propri “diritti”, ma anche su quelli dei suoi compagni minatori. Prepotenze dei capi e altre forme di mancanza di rispetto incontrerebbero una resistenza immediata [164]. Costruendo su questa cultura di sfida, comitati sindacali dei pozzi esercitavano un considerevole controllo sui tempi, sui metodi e sulla distribuzione del lavoro [165].

Howat si guadagnò fama a livello nazionale per la sua difesa militante del diritto di scioperare. Dopo il 1900 i contratti dell’UMW contenevano sempre più frequentemente clausole che obbligavano i dirigenti sindacali a contribuire a far valere di doveri di non scioperare [166]. Howat si rifiutò di farlo. Di fronte a uno sciopero selvaggio era solito affermare che poiché non aveva ordinato agli scioperanti di lasciare il lavoro non poteva ordinare loro di tornarvi. Howat sostenne questa politica nonostante le proteste dei datori di lavoro e – come la Commissione USA sul Carbone fu costretta ad ammettere – “normalmente vinceva” [167]. Arrivati ai primi anni ’20 la posizione irremovibile di Howat gli aveva guadagnato la reputazione di “uno dei dirigenti sindacali più potenti del paese” [168].

Howat era un leader carismatico di stampo repubblicano civico. Persino i suoi critici riconoscevano la sua integrità e dedizione incrollabili alla causa dei minatori [169]. Essendo privo delle competenze di un esperto di economia o di un politicante abituato alle manovre dietro le quinte [170] egli parlava il linguaggio e coltivava la pratica della libertà dei minatori [171].  Il commentatore radicale James Cannon colse bene parte del fascino di Howat quando elogiò il leader del Kansas per essere riuscito, nonostante diciannove anni da dirigente sindacale, a evitare di imparare “la professione di dirigente sindacale” e a pensare “come uno scavatore di carbone” [172]. Howat aveva un fascino carismatico per la sua volontà di affrontare anche le autorità più elevate attingendo alla cultura resistenziale della libertà dei lavoratori [173]. La sua maggiore debolezza era una caparbietà che gli impediva di prestare attenzione ai consigli persino dei suoi più leali sostenitori poiché “se riteneva giusta una cosa, non era in grado di vederla in nessun altro modo” [174].

Con soli 10.000 membri in uno stato in larga misura diversamente non sindacalizzato, i minatori del Kansas avevano bisogno di alleati forti nella loro sfida alla Corte Arbitrale dell’Industria. Howat li trovò in Illinois, dove era in corso di valutazione da parte dell’assemblea costituzionale dello stato dell’Illinois numerose proposte di tribunali dell’industria. Alla guida dell’opposizione lavoratrice c’era John Hunter Walker, presidente della Federazione del Lavoro dello Stato dell’Illinois ed ex leader del Distretto 12 dell’UMW in Illinois, forte di 100.000 membri. Come Howat, Walker era un minatore di carbone autodidatta che aveva partecipato alle prime battaglie organizzative ed era salito alla dirigenza del sindacato percorrendo una serie di posizioni elettive. Anche se Howat e Walker occasionalmente avevano le loro differenze, condividevano una forte dedizione alla libertà dei minatori [175].

Secondo lo storico ufficiale della Federazione dell’Illinois, Walker era un “uomo di emozioni forti” che lasciava “ad altri le sottigliezze della legge costituzionale” [176]. Questo giudizio riflette la visione progressista della legge come terreno di competenze tecniche, non di dedizioni viscerali. Walker non vedeva tale separazione. Nel bel mezzo della lotta del Kansas, si prese una pausa dalle diatribe emotive contro la “legge schiavista” del Kansas e si imbarcò in uno studio generale, sotto la guida di Felix Frankfurter, delle origini, effetti e costituzionalità delle ingiunzioni ai lavoratori. Walker aveva sufficiente fiducia in sé stesso come pensatore giuridico per gustarsi il piacere di impegnarsi in discussioni con Frankfurter a proposito dei tribunali e delle ingiunzioni ai lavoratori [177].

Lungi dal separare emozioni e legge costituzionale, Howat e Walker vedevano le due cose inseparabilmente intrecciate. La libertà promessa del Tredicesimo Emendamento andava vissuta e avvertita quotidianamente o sarebbe andata persa. Anche un solo momento di rispetto della legge sulla Corte dell’Industria avrebbe smentito la loro affermazione che si trattava di una legge “schiavistica”, poiché nessun cittadino rispettoso di sé stesso si sarebbe sottoposto alla schiavitù. “Che la legge sia dichiarata incostituzionale o no”, scrisse Howat a Walker, “dobbiamo entrare nell’ordine di idee che andremo in carcere piuttosto che essere complici della schiavizzazione dei lavoratori di questo stato” [178]. Walker abbracciò questa posizione come “la sola che possiamo prendere conservando il rispetto di noi stessi” [179]. Parlando a una riunione di massa di scioperanti, egli avvertì che “quando uomini accettano un legge simile, ammettono di essere schiavi” [180].

Questa posizione di principio era accoppiata a una visione strategica che si affidava allo spirito e alla vitalità del movimento, piuttosto che alla beneficienza dei tribunali o dei parlamenti. Howat presagiva che se i minatori si fossero conformati alla legge nell’attesa di un caso di verifica, si sarebbe dimostrato estremamente difficile fare un voltafaccia e sfidare la legge dopo aver perso in tribunale. “Se la sentenza ci fosse contraria”, osservava, “ci si aspetterebbe da noi che rispettassimo la legge e ci adeguassimo a essa e continuassimo in futuro come tanti schiavi” [181]. Per contro la politica della sfida aperta, scriveva Walker, avrebbe ispirato “tutti gli uomini e le donne buone del nostro paese … a battersi con un vigore maggiore che mai per impedire l’assassinio della nostra Repubblica” [182].

I leader della resistenza mostravano un atteggiamento profondamente ambivalente nei confronti dei tribunali. Da un lato contavano sui minatori per che si formassero le proprie opinioni costituzionali e respingessero quelle delle corti. I precedenti legali potevano “offrire pretesti plausibili in base ai quali giudici servili e conformisti” potevano confermare la legge, “ma le menti dei lavoratori” l’avrebbero abbattuta “e nessun tribunale può convincerle a fare il  contrario” [183]. La libertà costituzionale sarebbe stata difesa non dai tribunali, che la violavano regolarmente, bensì dallo “spirito combattivo e dal sacrificio e dalla determinazione di uomini che credono nella giustizia” [184]. Secondo Howat i tribunali, i parlamenti e le imprese si erano “alleati per incatenare gli uomini al loro lavoro e schiacciare la vita del lavoro organizzato in tutto il paese” [185].  Una causa di verifica si sarebbe certamente conclusa a sfavore dei minatori perché, come avvertì l’avvocato Phillip Callery del Distretto 14, contestare la legge sulla Corte dell’Industria presso la Corte Suprema sarebbe stato come “intentar causa al diavolo nell’inferno” [186]. D’altro canto gli attivisti spesso si esprimevano come se fosse una conclusione scontata che i tribunali avrebbero cancellato la legge e “emancipato” i lavoratori. Anche nelle assemblee di massa che proclamarono lo sciopero costituzionale alcuni oratori espressero fiducia che la Corte Suprema avrebbe deciso a favore dei minatori [187].

Agli occhi dei capi della resistenza entrambe le visioni erano giuste: i tribunali erano profondamente ostili, ma alla fine avrebbero cassato la legge. Per ottenere questo risultato, tuttavia, ci sarebbe voluta più che la sola persuasione razionale. La dirigenza pianificò di “abbattere la legge” prima che potesse essere messa alla prova nei tribunali di livello superiore [188]. Contestare la legge in tribunale senza aver prima dimostrato che i lavoratori “si sarebbero assolutamente rifiutati di riconoscere una legge simile e … [così] di piegarsi a esserne servi e schiavi”, sostenne Walker, “avrebbe significato farla dichiarare costituzionale” [189].  “Lo sciopero dei minatori”, spiegò l’avvocato Callerey, avrebbe fornito “l’argomento necessario” per una vittoria in tribunale, cioè che la legge sulla Corte dell’Industria era “inoperante e inefficace” [190]. Lo stesso valeva per l’azione nei confronti del potere legislativo. Poiché il movimento del lavoro era gravemente svantaggiato nella politica del Kansas, sia per i suoi piccoli numeri sia per la sua concentrazione geografica, le normali pressioni lobbistiche non sarebbero state sufficienti [191]. La revoca della legge poteva essere attesa solo dopo che i lavoratori avessero dimostrato che la legge non avrebbe funzionato [192].

B. Due leggi in Kansas

Un ammiratore descrisse successivamente la strategia del Distretto 14 del Kansas come aver “puntato le armi dei lavoratori” contro la Corte dell’Industria “ignorandola completamente” [193]. Sarebbe più accurato dire che il sindacato si determinò a procedere come se la corte non esistesse, un’impresa che richiedeva la massima attenzione. In effetti i minatori costruirono un mondo legale alternativo nel quale la Corte dell’Industria non aveva spazio. Nel marzo del 1920 il congresso del Distretto ritenne che la legge imponesse una servitù involontaria e autorizzò Howat a proclamare uno sciopero “in qualsiasi momento egli ritenesse opportuno” [194]. I delegati modificarono anche lo statuto del loro distretto per vietare ai membri di ricorrere alla Corte dell’Industria a pena di sanzioni di 50 dollari per le violazioni dei membri e di 5.000 dollari per le violazioni dei dirigenti [195]. James Cannon sostenne che i minatori avevano “revocato” la legge sulla Corte dell’Industria e che il Kansas era a quel punto “diviso tra due autorità: il governo del Kansas e il Sindacato dei Minatori del Kansas” [196].

La prima iniziativa della Corte dell’Industria fu un’inchiesta sull’industria mineraria del carbone. Nell’aprile del 1920 Howat e altri dirigenti del Distretto 14 furono citati a comparire come testimoni. Si rifiutarono e furono condannati per oltraggio alla corte [197].  Quando i loro dirigenti furono incarcerati i minatori cessarono di lavorare “per dimostrare la sfida del mondo del lavoro alla legge” [198]. Diverse migliaia di dimostranti marciarono sulla prigione agitando bandiere statunitensi e preceduti da una banda in parata.  Temendo un assalto al carcere, lo sceriffo permise a Howat di parlare alla folla. Howat promise che non avrebbe mai riconosciuto la legge schiavista e promise che il governatore Allen avrebbe “imparato una volta per tutte che in Kansas i giorni dello schiavismo sono finiti” [199]. I minatori tornarono al lavoro dopo che Howat fu rilasciato su cauzione [200].

Nei dieci mesi successivi la lotta ribollì. Un’estate di proteste a sorpresa contro il lavoro di sabato non riuscirono a produrre una resa dei conti [201]. Howat si candidò alla vicepresidenza dell’UMW, perdendo di poco contro il candidato di John L. Lewis, Philip Murray [202]. Alla fine, il 4 febbraio 1921, il Consiglio Esecutivo del Distretto 14 chiamò 200 minatori al primo sciopero ufficiale dalla data di entrata in vigore della legge sulla Corte dell’Industria [203]. Questa protesta, nota come lo “Sciopero Mishmash” portò alla fine al verdetto del giudice Brandeis nel caso Dorchy contro il Kansas [204], tuttora citato come il principale verdetto sullo status costituzionale degli scioperi.  

Ai promotori progressisti della Corte dell’Industria, lo sciopero Mishmash offriva una gradita occasione per dimostrare l’efficacia del tribunale sia nel fermare gli scioperi sia nel risolvere le controversie sindacali. Il procuratore generale dello stato, Richard Hopkins, depositò accuse penali contro Howat e August Dorchy, vicepresidente del Distretto 14, per aver violato le norme contro lo sciopero contenute nella legge sulla Corte dell’Industria [205]. Mentre Hopkins passava a controllare i minatori, la Corte dell’Industria tenne una udienza sulla vertenza sottostante. Karl Mishmash affermava che gli erano dovuti 187,40 dollari di arretrati per il suo lavoro tra il 1917 e il 1918 [206]. Per oltre due anni la sua rivendicazione era rimasta impantanata nella procedura sulle infrazioni contrattuali. Sotto gli occhi di un vasto pubblico, le testimonianze stabilirono con soddisfazione di tutti che la pretesa di Mishmash era fondata e la Corte dell’Industria gli riconobbe prontamente la paga con gli interessi [207].

Nel frattempo Howat e i minatori del Kansas si attennero meticolosamente alla loro propria legge, in base alla quale la Corte dell’Industria non aveva esistenza legale. Howat ignorò le citazioni del tribunale a testimoniare [208]. Si rifiutò di accettare l’esecuzione dell’ordine della corte che confermava il diritto di Mishmash, spiegando al vicesceriffo che non intendeva mancare personalmente di rispetto [209]. Quando l’assegno di Mishmash fu depositato presso il tribunale locale per essere ritirato, Howat insistette che lo sciopero non sarebbe stato revocato fino a quando Mishmash non avesse ricevuto l’assegno direttamente dalla società condannata [210]. Quando Mishmash ritirò il denaro dalla società si rifiutò di accettare i 32,78 dollari di interessi che gli erano stati riconosciuti, spiegando che in base al contratto non era dovuto alcun interesse [211]. Howat dichiarò che “né le ingiunzioni, né la Corte dell’Industria possono fermare gli scioperi” [212] e la maggior parte dei minatori fu dalla sua parte scioperando dal giorno della sua udienza sino a quando Mishmash incassò i suoi arretrati dai datori di lavoro [213].

Ciò nonostante, nell’arco di meno di due settimane lo stato aveva avviato procedure penali contro i leader dello sciopero e la Corte dell’Industria aveva risolto la disputa sottostante. I progressisti misero a confronto il riuscito uso della ragione da parte della Corte e l’irragionevolezza degli scioperanti. Il New York Times derise l’”invincibile” Howat per aver proclamato uno sciopero che era “temerario nella sua futilità” ed elogiò la Corte dell’Industria per “essere stata pioniera a buon fine nel difficile campo delle relazioni industriali” [214]. Il Nation concesse tre pagine al giudice della Corte dell’Industria Clyde M. Reed per sostenere la sua tesi che la vicenda illustrava perfettamente “il vantaggio che un tribunale equo e imparziale investito del potere dello stato” aveva sull’arma dello sciopero [215].

Il processo penale di Howat e Dorchy fu fissato per la fine di giugno 1921. La Confederazione Sindacale del Kansas lo proclamò “il massimo processo storico, per quanto riguarda i diritti umani, dopo il processo di Dred Scott” [216] e i minatori chiusero le miniere di carbone nella settimana del processo [217]. La procedura concreta non fu all’altezza delle loro aspettative. L’accusa si limitò a dimostrare quello che era già stato ammesso: che Howat e Dorchy avevano proclamato lo sciopero. Quando l’avvocato della difesa, Jake Sheppard, tentò un’analogia tra la legge della Corte dell’Industria e la legge sugli Schiavi Fuggitivi il giudice Boss lo interruppe dichiarandolo irrispettoso.

Con la sola difesa dei minatori così esclusa, la giuria rese un verdetto giudicandoli colpevoli di reato minore [misdemeanor]. Ciascun imputato fu condannato a sei mesi di carcere e a una multa di 500 dollari [218].

Imperterrito, il sindacato continuare a costruire una procedura legale alternativa. Attribuendo il verdetto della giuria alle istruzioni ristrette del giudice, il sindacato avvicinò i giurati dopo il processo e sollecitò un secondo verdetto, non condizionato. Almeno undici dei dodici giurati firmarono una dichiarazione giurata dichiarando di essere “assolutamente e decisamente contrari … alla legge sulla corte dell’industria”, di ritenere che gli imputati non avessero fatto nulla di male e di essere arrivata al loro verdetto solo perché avevano giurato di “essersi attenuti alla legge così come interpretata nelle istruzioni della corte” [219].

C. Sciopero non comune             

Il 30 settembre 1921 Howat e Dorchy entrarono in carcere [220]. Diverse migliaia di minatori con le loro mogli si radunarono per un incontro di massa nel cuore del distretto carbonifero [221]. Affollarono la sala totalmente e strariparono all’esterno. Rimasero in piedi per tutta la riunione, spingendo in avanti per sentire che cosa veniva detto. Le donne salirono su sedie per vedere meglio. Spesso diversi aspiranti oratori sollecitarono contemporaneamente l’attenzione della folla [222]. Dopo aver osservato per mesi la Corte dell’Industria in azione, la comunità dei minatori era pronta a emettere il giudizio.

Nessuno dei leader progressisti del Kansas era presente, ma avevano già preparato la loro tesi  e l’avevano esposta ai minatori. Secondo loro il movimento del lavoro era composto da due strati: i lavoratori della base, che avrebbero tratto vantaggio dalla Corte dell’Industria e i leader sindacali che “vivevano dello sfruttamento delle controversie riguardanti il lavoro [223]” e fuorviavano deliberatamente i lavoratori inducendoli a opporsi alla Corte contro i loro interessi. Così l’obiettivo immediato fu di sottrarre la base dei lavoratori all’influenza dei loro dirigenti sindacali [224]. I sostenitori della Corte prevedevano che i lavoratori avrebbero imparato ad apprezzare i vantaggi del tribunale dell’industria sperimentandone i risultati. Nei primi di anni di attività, la corte aveva stabilito quella che appariva un’impressionante precedente a favore dei lavoratori. Su quindici casi sottoposti da lavoratori e sindacati con richieste di aumento dei salari, dodici ebbero successo totalmente o parzialmente, e due dei tre casi proposti per bloccare riduzioni di salario ebbero parziale successo [225].

Nel bacino carbonifero le azioni della corte sembravano calcolate attentamente per spingere la base dei lavoratori contro i suoi leader. La corte imposte restrizioni alle trattenute sui salari per incassare le multe dai singoli minatori [226]. Proibì alle imprese di addebitare tassi d’usura sui piccoli anticipi di contante, una pratica cui il sindacato non aveva tentato di porre rimedio [227] e – nel caso più pubblicizzato – riconobbe a Karl Mishmash il diritto alla paga arretrata [228]. La corte fu attenta a evitare qualsiasi iniziativa contro gli scioperi non autorizzati, che avrebbe reso necessarie procedure dirette contro i minatori comuni [229]. Si astenne, invece, pazientemente per più di un anno dall’imporre il divieto di sciopero, fino a quando Howat alla fine autorizzò lo sciopero Mishmash. Arrivati all’epoca della grande riunione di massa, la corte aveva creato forti precedenti a favore di singoli minatori in dispute sia con i datori di lavoro sia con i loro dirigenti sindacali.

A giudicare dall’atmosfera della riunione, tuttavia, i minatori non si lasciarono impressionare. Un membro afroamericano del sindacato prese la parola e raccontò come aveva lasciato le miniere non sindacalizzate della West Virginia perché si era reso conto di “essere tenuto in schiavitù, là … ‘Non mi era mai piaciuto scavare carbone, fino a quando non sono venuto in questo stato vent’anni fa. E adesso la Corte dell’Industria ha reso schiavi i minatori del Kansas’” [230]. Un altro minatore dichiarò che avrebbe preferito andare in prigione per il resto della vita, piuttosto che vedere i suoi bambini soffrire la schiavitù sotto la Corte dell’Industria. Poiché quello non era “uno sciopero qualsiasi”, sostenne, “non andrebbe seguito nessun precedente” [231]. Doveva scioperare ogni settore, invece della prassi consueta di permettere agli addetti alla manutenzione di occuparsi dei lavori necessari per prevenire gravi danni alle miniere. Altri oratori presero una posizione analogamente assolutista. Una risoluzione di limitare lo sciopero alle miniere del Kansas, per permettere ai membri fuori dallo stato di guadagnare e contribuire ai fondi per lo sciopero, ricevette solo un unico flebile “Sì” [232].  A una domanda se il sindacato dovesse estrarre carbone per gli acquedotti e le centrali elettriche fu risposto con un coro di “no” [233]. Questa linea dura fu in seguito abbandonata [234], ma fu indicativa del clima dell’incontro.

Per la prima volta i minatori passarono all’attacco con l’esplicito proposito di rovesciare la legge sulla Corte dell’Industria. La riunione di massa approvò all’unanimità una risoluzione che dichiarava che il Distretto 14 era impegnato in una lotta per la vita o per la morte contro i poteri politici dello stato del Kansas, i monopoli e la legge sulla Corte dell’Industria [235].  I minatori decisero che lo sciopero sarebbe continuato fino a quando Howat e Dorchy non fossero rilasciati dal carcere o la legge sulla Corte dell’Industria fosse revocata [236].  Nelle citazioni introduttive a questa parte abbiamo visto Williamo Huggins, estensore e primo giudice della Corte dell’Industria costretto a fare un imbarazzante voltafaccia. Ma su un punto le sue dichiarazioni, altrimenti contraddittorie, furono coerenti. Il Kansas era realmente una “terra di legge e ordine”; soltanto che c’erano due leggi e due ordini; ufficiali e non ufficiali. La dirigenza del Distretto 14 costruì un regime legale alternativo nel quale la Corte dell’Industria non esisteva. Quando alla fine lo stato raccolse la sfida e incarcerò i loro leader, i minatori della base accettarono la legge del sindacato e respinsero quella dello stato. I sostenitori progressisti della Corte dell’Industria avevano commesso un grave errore strategico. Il loro ritratto della politica sindacale a due livelli – dirigenti sindacali “aristocratici” da una parte e lavoratori comuni dall’altra – appiattiva indebitamente la realtà. Un terzo strato, intermedio, aveva sostenuto il movimento di resistenza e controllato la riunione dello sciopero: gli attivisti sindacali locali.

IV. TRE NARRATIVE COSTITUZIONALI

Nel mezzo dello sciopero costituzionale un giovane economista di nome Herbert Feis si recò nelle miniere del Kansas per scoprire perché, esattamente, i minatori si opponevano alla Corte dell’Industria. Dopo un’estenuante serie di interviste Feis rimase perplesso. Non era riuscito a carpire richieste concrete, specifiche. Invece, gran parte dell’opposizione dei minatori sembrava viscerale ed emotiva [237]. Il professor John Hugh Bowers non aveva fatto meglio: “Quando intervistiamo qualcuno che si effettivamente si oppone alla Corte dell’Industria”, lamentava, “normalmente si rifiuta di fornire una qualsiasi ragione per il suo atteggiamento” [238].

Feis e Bowers erano intellettuali progressisti che sinceramente ritenevano che la Corte dell’Industria potesse essere utile agli interessi dei lavoratori. Cercavano di distillare dall’opposizione dei minatori un insieme di rivendicazioni specifiche, strumentali che potessero essere gestite in un contesto amministrativo. Non identificandone nessuna, Bowers non si sentì riferire alcuna ragione, mentre Feis ne ascoltò così tante che “si può trovare”, nell’opposizione del sindacato alla Corte, “qualsiasi cosa uno vada cercando” [239].

Resoconti successivi hanno seguirono le orme di Bowers e Feis. I minatori erano presentati o come persone ostinate e irrazionali nel non perseguire quello che gli intellettuali progressisti consideravano il loro interesse immediato, oppure come manipolate da Howat per scopi di parte dell’UMW [240]. Resoconti sia contemporanei sia successivi sono unanimi nell’ignorare o nello scartare sommariamente le spiegazioni del loro comportamento da parte dei membri del sindacato. Attraverso le lenti teoriche della genesi del diritto, quelle stesse spiegazioni assumono un ruolo di primo piano. Nella parte II abbiamo considerato la struttura argomentativa della costituzione della libertà del lavoro come articolata dai leader della resistenza. Ora amplieremo il campo dell’indagine a due dimensioni: contenuto e base costituente. Innanzitutto la teoria della genesi del diritto postula che gli esterni al sistema legale ufficiale creano significato legale non mediante argomenti legali tecnici, bensì attraverso narrative. Invece di limitare la nostra indagine alla trattazione legale, come nella Parte II (o al discorso economico sulle preferenze e gli interessi, come fecero Feis e Bowers), ascolteremo il linguaggio letterario della narrativa e della metafora [241].

Secondo: la teoria della genesi del diritto mette in guardia contro il presupposto che le idee di un movimento sociale possano essere dedotte dalle dichiarazioni dei suoi leader. Nei casi in cui le esperienze dei leader e degli attivisti varino in misura significativa, non ci stupirà scoprire variazioni della consapevolezza legale. Invece di concentrarsi principalmente sulle idee della dirigenza, riserveremo speciale attenzione ai testi prodotti da attivisti locali.

A. Una narrativa costituzionale della libertà prodotta dal mondo del lavoro

Mentre Feis e Bowers ebbero il vantaggio delle interviste personali, noi dobbiamo affidarci alle fonti scritte. Grazie principalmente al Workers Chronicle di Pittsburg, Kansas, che pubblicò numerose lettere e risoluzioni del sindacato locale, sono state conservate dichiarazioni di più di sessanta attivisti e gruppi locali [242]. Esaminando tali dichiarazioni è facile vedere perché Feis e Bowers, con la loro predisposizione razionalista, furono così frustrati. Alcune sono costituite da poco più che un epiteto, come “schiavi del lavoro del Kansas” o “Corte Schiavista dell’Industria di Allen”. Anche quando gli attivisti s’infervoravano, sembravano spesso più intenti a verbalizzare passione che a identificare specifiche manchevolezze della legge. Forzavano al limite il linguaggio nell’esprimere la loro indignazione per “le spire schiaviste del rettile della Corte dell’Industria” [243] e “i tentacoli cancerogeni” della piovra della Corte dell’Industria, con le sue “oscene zanne” nel corpo della nazione [244].

Se, tuttavia, abbandoniamo la ricerca progressista di rivendicazioni specifiche, le dichiarazioni trasmettono un racconto coerente. In acuto contrasto con i giudici, che narravano vicende di singoli lavoratori che esercitavano il loro diritto di mercato di “vendere il loro lavoro in cambio di ciò che ritenevano meglio … proprio come i loro datori di lavoro possono vendere il loro rame o carbone” [245], gli attivisti parlavano di schiavitù e di emancipazione. Un’abbondanza di colorite metafore – catene, manette, ceppi e fruste – testimonia l’importanza della sottomissione fisica [246]. Se i minatori si fossero sottomessi alla Corte dell’Industria sarebbero stati “manovrati come lo Zio Tom” [247].

La carta della libertà del lavoro presenta i lavoratori come parte di un movimento intergenerazionale per la libertà, che prosegue l’opera dei loro predecessori e preserva la promessa di libertà per i loro figli. “In ciascuna età e generazione fin dall’inizio e lungo tutto il percorso, anno dopo anno,” scrisse un minatore, ”la famiglia umana deve lottare” contro la schiavitù [248]. Gli attivisti consideravano lo sciopero come una continuazione della Guerra Civile per abolire la schiavitù. Espressioni esclamative come “il grido di battaglia per la libertà” [249] e “mezzo schiavo e mezzo libero” [250] abbondano nei loro scritti. Howat vestiva i panni di John Brown o Abraham Lincoln, mentre la legge sulla Corte dell’Industria era la nuova legge sugli Schiavi Fuggiaschi [251]. La messa al bando della schiavitù e della servitù involontaria prescritta dal Tredicesimo Emendamento offriva un collegamento diretto tra il linguaggio anti-schiavistico dei lavoratori e la Costituzione. Alcuni membri del sindacato si schierarono con i loro avversari datori di lavoro nel ritenere che l’Emendamento riguardava soltanto la schiavitù come proprietà di esseri umani e non quella industriale. Il congresso dell’AFL del 1912 respinse una risoluzione che avrebbe impegnato la Federazione a lanciare una campagna per un emendamento alla costituzione che proibisse la “schiavitù del salario e la servitù volontaria” [252]. Gli attivisti dell’IWW del Kansas erano del parere che la Corte dell’Industria si fermava prima di violare l’Emendamento perché permetteva ai singoli lavoratori di licenziarsi [253].

Molto più comunemente, tuttavia, i lavoratori si appellavano alla Costituzione per le loro idee sulla libertà del lavoro. Di fronte a decisioni opposte dei tribunali, numerosi attivisti locali affermavano costantemente che la legge privava i lavoratori dei loro diritti costituzionali [254]. Alcuni si spingevano oltre il diritto positivo per contestare la violazione di “libertà date da Dio” [255], ma la legge naturale era invocata meno frequentemente rispetto alla Costituzione. In forte contrasto con il periodo prebellico, quando gli attivisti contro la schiavitù ritenevano necessario invocare la legge naturale contro la Costituzione, i costituzionalisti del lavoro potevano plausibilmente presupporre che la Costituzione – mediante il Tredicesimo Emendamento – incorporasse la legge naturale [256].  La Bibbia e la Costituzione erano dalla stessa parte e Gesù poteva unirsi a John Brown, Abraham Lincoln e Eugene Debs nel pantheon degli eroi della lotta allo schiavismo.

Per gli osservatori della classe media il linguaggio dei lavoratori a proposito di libertà e schiavitù non era più che un mucchio di slogan vuoti.  Considerato che i lavoratori godevano non soltanto del diritto individuale di licenziarsi, ma anche del diritto di voto, difficilmente potevano affermare di condividere la condizione degli schiavi trattati da proprietà. La “stupidata” della “servitù involontaria”, scherniva Feis, era “troppo ben noto per meritare commenti” [257].  Tuttavia, come avrebbe osservato in seguito l’antropologo Clifford Geertz, lo slogan della schiavitù del lavoro non era inteso come un’etichetta letterale, bensì come un tropo o metafora. E una metafora potrebbe “ricavare la sua potenza dalla capacità di afferrare, formulare e comunicare realtà sociali che sfuggono al linguaggio temperato della scienza” [258]. Nonostante suonasse astratto, il parlare di libertà e di schiavitù da parte degli attivisti era radicato nelle esperienze vissute di potere e di impotenza.

B. Esperienze di libertà e di schiavitù

In profondità sottoterra i minatori del carbone portavano avanti la tradizione della “libertà del minatore”, un insieme di idee, simboli e pratiche che sostenevano la “virilità” e prevenivano l’”asservimento” [259]. Solo uno schiavo avrebbe permesso al capo di dirgli quando o come fare il suo lavoro e nessun vero uomo avrebbe mancato di sostenere i propri fratelli minatori in una disputa con la direzione. Nonostante le regole padronali e gli accordi di contrattazione collettiva, molti minatori decidevano quando interrompere il lavoro e ancora negli anni ’20 i membri dei comitati sindacali non solo decidevano quando le miniere andavano chiuse per motivi di sicurezza, ma facevano anche valere un diritto di consultazione nel caso di introduzione di nuova tecnologia [260].

Gli attivisti minatori vedevano vividi esempi di schiavismo sia nel passato sia nelle miniere non sindacalizzate del loro tempo. Attivisti di origine britannica, come dominavano l’iniziale UMW, tramandavano racconti dei giorni in cui i loro antenati erano stati comprati e venduti come cose [261]. Anche negli Stati  Uniti i minatori erano stati resi schiavi dagli imprenditori del carbone sotto il regime dei negozi aziendali, dei salari pagati con buoni di acquisto e della repressione armata degli scioperi [262]. Minatori afroamericani, che parlavano con speciale autorevolezza al riguardo, segnalavano che queste condizioni continuavano a persistere nella West Virginia priva di sindacati. Testimoniando davanti a un comitato del Congresso a proposito della repressione di uno sciopero nelle miniere di carbone della West Virginia, il minatore e attivista sindacale nero George Echols commentò di essere stato “cresciuto come schiavo … e so com’era quando ero schiavo e sento che adesso è come allora” [263]. Un altro scioperante nero raccontò al comitato che “qui… un uomo è come se fosse in schiavitù” [264].  Alla riunione di massa che lanciò lo sciopero costituzionale del Kansas, G.W. Van Hook, un attivista sindacale nero, prese la parola e raccontò di aver lasciato la West Virginia “perché aveva scoperto di esservi tenuto in schiavitù” [265].

Nella sua influente opera, Power and Powerlessness, John Gaventa ha studiato un’area mineraria carbonifera del Tennessee simile per molti aspetti ai distretti “schiavi” della West Virginia. Gaventa non ha riferito alcuna violazione dei diritti di lasciare il lavoro o di votare con scheda segreta. Tuttavia, nonostante una generale povertà e disuguaglianza, i poveri dell’area non fecero virtualmente alcun tentativo di migliorare la loro condizione mediante azioni economiche o politiche [266]. Confrontando le varie comunità dell’area, Gaventa ha scoperto che il grado di inerzia in ciascuna di esse era collegato al suo “indice di vulnerabilità”: la misura della dipendenza delle persone dalle élite per cibo, alloggio e canali di istruzione e comunicazione [267]. Dove le società minerarie erano proprietarie degli alloggi, controllavano il commercio al dettaglio mediante gli spacci aziendali, fornivano scuole e finanziavano chiese, la gente seguiva docilmente la direzione dell’élite [268]. Questa arrendevolezza potrebbe apparire sorprendente, considerato che molti minatori erano membri del distretto dell’UMW del Tennessee. Ma il distretto aveva perso la sua autonomia e i dirigenti nominati dal presidente dell’Internazionale governavano in un modo autocratico calcolato per rafforzare l’arrendevolezza [269]. Privi di una qualsiasi esperienza di azione efficace, molti minatori interiorizzavano l’idea dell’élite che erano nati pecore, incapaci di pensiero e azione indipendente. Gaventa ha colto la loro condizione in una metafora non molto diversa da quella della schiavitù: colonizzazione interiore [270].

Misurati in base all’indice di vulnerabilità di Gaventa, i minatori del Kansas e dell’Illinois dei primi anni ’20 erano ben lontani dalla posizione peggiore. Solo circa il 18,5% dei minatori del Kansas e il 9% dei lavoratori dell’Illinois viveva in alloggi di proprietà delle imprese, rispetto a circa il 70% in Tennessee [271]. Sia il Distretto quattordici, (Kansas) sia il Distretto 12 (Illinois) erano fortemente organizzati dall’UMW [272]. Il Distretto 14 patrocinava un settimanale, il Workers Chronicle, che pubblicava notizie sindacali nazionali e internazionali, nonché sviluppi locali, e il Distretto 12 in tale periodo aveva cominciato a pubblicare il proprio giornale, l’Illinois Miner.

Entrambi i distretti sindacali sostenevano una robusta democrazia interna. Il Distretto 14 era diviso in circa 140 sezioni locali, con una media di circa settanta membri ciascuna [273]. Queste piccole unità eleggevano i propri dirigenti e decidevano su temi di grande interesse per i membri, incluse la gestione dei reclami e la dichiarazione di scioperi a sorpresa. Nelle miniere in profondità i sindacati locali erano integrati da comitati eletti di pozzo con competenza su questioni vitali come la pesatura accurata del carbone (di evidente importanza per i minatori pagati a tonnellata), la supervisione della sicurezza della miniera e l’organizzazione di un’equa distribuzione dei vagoni [274]. Howat e i suoi alleati vincevano in generale le elezioni distrettuali con ampi margini, ma c’erano anche competizioni forti e un membro in carica del consiglio fu destituito nel 1919 [275]. Contemporaneamente, la politica sindacale nel Distretto 12 dell’Illinois era vivace e contesa, con il presidente Frank Farrington, uno scaltro sindacalista attento prevalentemente agli aspetti economici, che lottava che conservare un margine precario su una coalizione di radicali [276].

Come avrebbe previsto il modello di Gaventa, i minatori del Kansas e dell’Illinois intervenivano vigorosamente nell’arena politica. Prima della guerra Howat e altri dirigenti del Distretto 14 appartenevano al Partito Socialista e ne erano vigorosi promotori. Eugene Debs aveva portato le contee carbonifere del Kansas alle elezioni presidenziali nel 1912 e il partito aveva conquistato numerose cariche a livello locale e di contea [277]. I socialisti erano influenti anche nel Distretto 12 dell’Illinois, gli eminenti membri del partito Duncan MacDonald e Adolph Germer, insieme con John Hunter Walker, detenevano cariche distrettuali [278]. Declinando il Partito Socialista, esso fu sostituito da quello che John Laslett ha chiamato un “nuovo movimento sociale” [279]. Nel Distretto 12 i radicali si diedero da fare attorno a Farrington per mettere in atto un programma che includesse una spinta a nazionalizzare l’industria del carbone, campagne per leggi di disciplina del settore e un tentativo di creare spacci cooperativi [280]. Il Distretto 14 fece lo stesso [281]. Il Distretto 12 e quello 14 erano dunque in forte contrasto con la “schiavitù” dei bacini carboniferi non sindacalizzati. La libertà del minatore era traboccata dai pozzi ed era entrata nell’arena pubblica. Mediante un insieme di istituzioni e pratiche basate sui luoghi di lavoro e sulle comunità, la gente delle comunità minerarie del carbone aveva conquistato una certa misura di controllo sulla propria vita quotidiana.

C. Narrativa costituzionale industriale dello scambio commerciale

L’esperienza e il linguaggio della schiavitù industriale separavano gli attivisti operai dalla cultura legale dominante. Dagli anni ’90 del 1800 agli anni ’30 del 1900 la maggior parte dei tribunali si era affiancata agli imprenditori nell’assimilare le relazioni industriali al modello espositivo della transazione commerciale; i lavoratori razionalmente attenti ai propri interessi avrebbero cercato di massimizzare i propri salari e le proprie condizioni di lavoro esercitando la loro libertà di contrattare nel mercato del lavoro. Continuando una tradizione abolizionista della classe media, il lavoro era visto come una merce, da acquistare e vendere come qualsiasi altra [282]. Come affermò la Corte Suprema della Pennsylvania, un lavoratore “può vendere il proprio lavoro in cambio di ciò che ritiene meglio … proprio come il suo datore di lavoro può vendere il proprio ferro o carbone” [283].  In questo modo, il modello merceologico del lavoro sosteneva una visione del contratto individuale di lavoro come rapporto simmetrico [284]. La libertà contrattuale individuale era, secondo la Corte Suprema, “essenziale per il lavoro tanto quanto per il capitalista” [285]. I lavoratori esercitavano la loro libertà nel momento di sottoscrizione del contratto, quando godevano dello stesso diritto formale dell’imprenditore di entrare o rifiutare di entrare in rapporto di occupazione [286]. Da quel momento e fino al termine del rapporto di lavoro il rapporto era un rapporto tra padrone e servo, poiché si riteneva che il lavoratore avesse concesso il controllo della propria attività giornaliera in cambio di ricompense materiali. La metafora merceologica corrispondeva dunque non solo all’esperienza di vita della classe imprenditoriale, le cui attività lavorative erano incentrate su transazioni commerciali di un genere o di un altro, ma anche all’esperienza dei lavoratori nel momento in cui accettavano il posto.

La metafora merceologica implicava un ruolo problematico per i sindacati. Se i lavoratori erano venditori di merce allora i sindacati erano cartelli di venditori di merce, o “monopolisti del lavoro” [287]. I giudici federali impiegavano l’immagine del mercato nel ritenere che le combinazioni di lavoro potevano essere “limitativi del commercio” in base alle leggi antitrust [288]. I giudici statali applicavano il testo del diritto comune sugli “obiettivi illegali” per vietare forme ampie e solidaristiche di azione collettiva che assomigliavano molto a un’attività imprenditoriale, come grandi scioperi per salari più elevati [289].  Secondo l’appropriata espressione di Christopher Tomlins, questo regime conferiva solo una “legittimità condizionata” al sindacalismo, come limitata eccezione collettiva al modello preferito del mercato del lavoro individuale in cui i singoli lavoratori vendevano la loro fittizia ‘merce’ lavoro a fittizie ‘persone’ imprese [290]. La base sindacale respingeva risolutamente questo modello. Nella sua esperienza la pretesa “vendita” del lavoro dava all’imprenditore un diritto di comandare al lavoratore nella sua attività quotidiana. Lungi dal vendere una merce-lavoro separabile, i lavoratori vendevano le loro “mani e muscoli” [291].  “Un uomo può esercitare la sua capacità di lavoro nell’interesse di un altro”, spiegò Victor Olander, “ma non può darla o venderla a una qualsiasi altra persone senza allo stesso tempo consegnare il suo stesso corpo” [292].

Molti attivisti del lavoro capivano che lo scontro tra le narrative del lavoro e del potere, anche se solo una questione di parole, poteva esercitare un’influenza che avrebbe determinato le loro vite. Senza il vantaggio della moderna psicologia cognitiva o della teoria culturale, affermavano che la metafora della merce rifletteva modi di pensare profondamente radicati che influenzavano l’azione. L’idea che il lavoro potesse “essere comprato senza comprare l’uomo”, spiegò il Workers Chronicle, andava “alle radici della nostra struttura sociale” [293]. Il suo funzionamento di poteva vedere quando i lavoratori erano chiamati “braccia” o “lavoratori dei muscoli” o quando un gruppo di lavoratori era chiamato un “branco” [294].

La teoria merceologica aveva un rapporto di “causa ed effetto” con le ingiunzioni ai lavoratori; chiunque non capisse questo “resterebbe sbalordito nel vedere che un fiammifero acceso fa esplodere della polvere da sparo” [295]. Per dirigenti sindacali come Samuel Gompers e Andrew Furuseth, le conseguenze operative della metafora merceologica era così chiare che la sezione 6 della legge Clayton – che dichiarava in termini astratti che “il lavoro di un essere umano non è una merce o un articolo di commercio” [296] – poteva servire da “Magna Carta del lavoro negli Stati Uniti” [297]. Quando una norma simile fu inserita nel Trattato di Versailles, William Green la festeggiò come “l’idea che è stata la luce e la speranza di innumerevoli milioni che faticano” [298].

D. La narrativa costituzionale progressista “del pubblico”

In luogo della narrativa di emancipazione degli aderenti al sindacato, i progressisti ne offrivano una di progresso in cui sociologi, dirigenti governativi e altri cosiddetti esperti disinteressati intendevano guidare interessi “di parte”, come il lavoro e il capitale, in direzione di una società migliore [299].  Diversamente dai lavoratori, che non erano in grado di capire – per non parlare di risolvere – i problemi economici, questi esperti avrebbero trovato modi per correggere le cause del malcontento industriale [300].

I riformatori riformisti cercarono di convincere gli aderenti al sindacato che l’intera impresa di combattere sulla base di una metafora era mal diretta. Edwin Witte redarguì i sindacalisti per essersi impegnati in discussioni “astratte” sul lavoro-merce quando i problemi del lavoro erano “di natura economica” [301]. Il New Republic rimproverò i sindacalisti perché “urlavano contro la schiavitù industriale” quando i fatti, non le concezioni, avrebbero indicato la via a una legge soddisfacente [302]. Feis e Bowers portarono questa posizione alla sua conclusione logica quando restarono sordi nei confronti dei minatori del Kansas che riversavano argomenti metaforici.

Pur mentre rimproveravano i sindacalisti di sprecare tempo in astrazioni, tuttavia, i riformatori della classe media avanzavano vigorosamente le proprie. Essi aggiungevano una glossa di linguaggio politico al modello del mercato. In questa visione i lavoratori erano “cittadini”, non semplici venditori di merce. William Allen White sosteneva che quando il pubblico fissava salari era “interessato non al lavoro come merce, bensì al lavoratore come cittadino” [303]. Per W. Jett Lauck, la creazione di tribunali governativi sui salari era un “ripudio della teoria che il lavoro è una merce” [304].

Nonostante la retorica antimerceologica, il pensiero progressista conservava il modello del mercato, pur in un ruolo più limitato. Quando i riformatori affermavano di ripudiare la nozione che il lavoro era una merce, intendevano dire che il lavoro non sarebbe stato soggetto al funzionamento non regolato del mercato. Ma ciò non distingueva il lavoro dalle merci comuni; i riformatori volevano regolare entrambi i settori. Il lavoro avrebbe continuato a essere trattato come le merci non umane, ma a quel punto i diritti di tutti i venditori di merci umane e non umane sarebbero stati dipendenti dai capricci della politica legislativa ordinaria. I tentativi del mondo del lavoro di separare una classe di diritti del lavoro per una protezione costituzionale continuativa erano enfaticamente respinti: se le combinazioni di capitali dovevano essere private di protezione, altrettanto dovevano esserlo le combinazioni di lavoro [305].  Per i membri del sindacato questa era semplicemente un’altra applicazione della metafora della merce, che sostituiva il governo al dominio delle imprese. Quasi a sottolineare questo punto, i progressisti si riferivano ai loro diritti preferiti, quelli della libertà di espressione e di stampa, come a diritti “personali” diversamente dai diritti “economici” di capitale e lavoro [307].

V. COSTITUZIONE DELL’EMANCIPAZIONE

A seconda del punto di vista di chi osserva il potere, la carta della libertà del lavoro potrebbe sembrar avere conseguenze emancipatrici, debilitanti o persino patologiche per il movimento del lavoro. Come abbiamo visto, gli intellettuali progressisti rimproveravano ai sindacalisti di concentrarsi su concetti astratti (come il lavoro considerato merce) invece che su fatti economici, di parlare di diritti fondamentali invece che di effetti distributivi e di guardare, alla ricerca di soluzioni, alla Costituzione piuttosto che alle scienze sociali. In quest’ottica la carta della libertà del lavoro impediva ai sindacalisti di partecipare efficacemente ai particolari processi del potere maggiormente valorizzati dai riformatori progressisti: puntare risorse organizzative, finanziarie e informative su legislazioni favorevoli decise da datori di lavoro e dirigenti governativi.

La maggior parte degli attivisti, tuttavia, era meno interessata a manipolare i dirigenti pubblici e più a sostenere il potere del movimento sul campo. Per questi attivisti la genesi del diritto offriva un modo per costituire i lavoratori come gruppo capace di azione collettiva. Per gruppi non dotati di un’autorità ufficiale, la differenza tra la legiferazione alternativa e la fantasticheria legale sta nell’impegno dei membri del gruppo a vivere secondo la propria legge [308]. Senza tale impegno, i membri del gruppo potrebbero, sì, combattere per i propri privilegi ma non sarebbero “disobbedienti o qualsiasi principio articolato nel caso dovessero capitolare”, né “giudicherebbero qualcuno degno di biasimo – fuorilegge – se dovesse arrendersi” [309]. Per gli attivisti, dunque, promuovere l’impegno – non schierare le risorse – era la chiave del potere del movimento [310].

William Forbath e Leon Fink hanno osservato che il costituzionalismo del lavoro poteva servire a mobilitare i lavoratori e a giustificare il sindacalismo [311]. Ciò nonostante alla fine concludono che la svolta al costituzionalismo minava il potere della classe lavoratrice cooptando i membri del sindacato nell’ideologia dell’industria, riducendo la sfera della solidarietà e allontanando i lavoratori dall’azione politica [312]. Queste conclusioni, che sono coerenti con il modello della rivolta costituzionale come cooptazione egemone, contrastano fortemente con quelle proposte dal modello della genesi del diritto. Dove le esperienze e gli interessi di un gruppo subordinato differiscono ampiamente da quelli dei gruppi dominanti, ci aspetteremmo di trovare discorsi critici sui diritti che non è necessario tendano a minare la solidarietà o l’azione politica radicale (313). Forbath e Fink hanno guardato principalmente al pensiero costituzionale e all’azione di dirigenti sindacali nazionali e – come vedremo nella parte VI – i loro resoconti sono tanto accurati quanto quelli ufficiali. Ma quando ci si concentra sugli attivisti locali, le cui esperienze differivano da quelle dei gruppi dominanti in misura molto più rilevante di quanto differivano quelle dei dirigenti sindacali, emerge un quadro molto diverso.

Incorporati nella narrativa costituzionale della schiavitù e dell’emancipazione vi erano approcci a cinque problemi solitamente affrontati dai movimenti sociali insorgenti: (1) la cooptazione da parte di gruppi dominanti; (2) la repressione legale; (3) le barriere all’azione collettiva; (4) un’identità negativa di gruppo e (5) la spoliticizzazione della retorica costituzionale andava mano nella mano con appelli alla solidarietà di classe e all’azione politica. Ciascuno di questi approcci era contestato dalla narrativa avversaria del lavoro inteso come merce, specialmente nella sua variante progressista.

A. Evitare la cooptazione

Gli attivisti del lavoro consideravano il sindacalismo un veicolo per l’emancipazione dei lavoratori. La capacità del movimento del lavoro di svolgere tale ruolo è, come ha osservato Alain Touraine, “minacciata da due pericoli opposti: la subordinazione all’azione politica da una parte e, dall’altra, l’autolimitazione a rivendicazioni frammentarie o conquiste monetarie” [314]. I promotori della carta della libertà del lavoro cercavano di evitare entrambi i pericoli. Non si spingevano tanto in là da rifiutare direttamente la politica ordinaria e la contrattazione collettiva (come faceva l’IWW) [315] ma le relegavano invece a una condizione strumentale subordinata. Gli attivisti operai lottavano per generare una cultura del movimento che fosse in grado sia di sostenere l’autonomia e il potere del movimento, sia di tenere a bada le considerazioni di guadagno materiale immediato.

La legge costituzionale offriva un quadro di riferimento per questa struttura di valori a due livelli [316]. I membri del sindacato elevavano la lotta per l’azione collettiva diretta sopra la normale attività di pressione e la contrattazione collettiva. Si rifiutavano di partecipare a istituzioni incostituzionali anche quando la mancata partecipazione comportava sacrifici materiali. Gompers, ad esempio, criticava severamente i membri del sindacato che cercavano di ottenere ingiunzioni legali contro gli imprenditori, anche se lo stratagemma poteva produrre risultati materiali considerevoli [317].  Il Distretto 14 e la Federazione del Lavoro del Kansas mantennero un rigido boicottaggio della Corte dell’Industria molto dopo che essa aveva consolidato un quadro di sentenze a favore dei lavoratori e dei sindacati nella maggior parte delle cause salariali [318]. Questa priorità dei diritti e delle libertà sul guadagno materiale immediato è fortemente presente negli scritti degli attivisti sindacali locali. Si diceva degli scioperanti che lottavano per i “diritti umani” [319], per la “giustizia e la libertà” [320], per l’”onore” [321], valori che non erano commensurabili ai guadagni finanziari. La Corte dell’Industria di Allen era condannata, prediceva un poeta-minatore, perché era andata a scontrarsi con “un gruppo di uomini / che non volevano vendere la loro anima” [322].  Howat era “chiuso in carcere”, scrisse una donna dell’area delle miniere, “perché si era schierato per i diritti dell’uomo che lavora e non aveva gli occhi fissi sui dollari” [323]. Un attivista contemplò senza vacillare la distruzione della sua comunità:

“Il nostro distretto è rovinato. Questa piccola città di Arcadia, Kansas, che era nota per le sue attività nel mondo finanziario e industriale, assiste oggi a una tendenza al declino. Le miniere nei pressi, che erano la vita della città, stanno ora facendo preparativi per asportare le rotaia … Ma siamo disposti a essere chiamati “radicali”, “rossi”, a essere incarcerati … e come l’apostolo Giovanni, l’autore del libro della Rivelazione, a essere esiliati a Patmo prima di rinunciare ai nostri diritti di cittadini statunitensi” [324].

B. Superare i problemi dell’azione collettiva

Questa stessa struttura dualista offriva un approccio allo spinoso problema degli approfittatori. Dal punto di vista di un lavoratore razionalmente egoista, l’attività sindacale poteva comportare rischi enormi: perdita del lavoro, incarcerazione e persino ferite o la morte per mano dei vigilanti, della polizia o dei soldati. D’altro canto c’era scarsa probabilità che la partecipazione recasse vantaggi strumentali poiché, in azioni di qualsiasi dimensione, nessuna singola partecipazione individuale avrebbe influenzato in modo percepibile il risultato. I singoli avevano tutti gli incentivi per approfittare degli sforzi degli altri. Sindacati forti potevano dispensare incentivi – come la carota di cariche sindacali o il bastone dell’ostracismo – ma tali incentivi non potevano spiegare la dedizione e l’impegno del nucleo centrale degli attivisti che sosteneva la resistenza in tempi di debolezza. I lavoratori cercavano ricompense di altro genere.

Al posto delle ricompense private, pecuniarie, la costituzione della libertà del lavoro offriva la soddisfazione pubblica di azioni pubbliche significative, immortalità storica e interconnessione sociale [325]. Promuoveva l’aspirazione a essere uno di quelli che “non vogliono vendere la propria anima” [326], che non hanno gli occhi “fissi sui dollari” [327] e che preferirebbero andare in carcere piuttosto che “rinunciare ai nostri diritti di cittadini statunitensi” [328]. “Il nome di Alexander Howat vivrà e uscirà dalle labbra dei lavoratori, uomini e donne, di questo paese” scrisse un camionista dell’Illinois, “molto dopo che i suoi persecutori saranno dimenticati e ricordati soltanto con disprezzo” [329].  Per trascendere la logica dell’egoismo individuale, gli attivisti operai invocavano il loro collegamento con le comunità basato sul movimento sociale, sulla classe, la nazione e la spiritualità. Le donne del distretto carbonifero contestavano la “legge per rendere schiavi i nostri figli” [330] e gli attivisti sollecitavano i propri compagni a “tenere in mente che la vita dei bambini che crescete dipenderà dalle situazioni in cui li lascerete” [331]. Howat era acclamato come un “combattente … nella grande guerra di classe” [332] che “vive nel cuore di ogni soldato leale della lotta di classe” [333].  Gli scioperanti dichiaravano che stavano “lottando per tutti i lavoratori organizzati degli Stati Uniti” [334] e i loro sostenitori fuori dal Kansas erano d’accordo [335]. 

La retorica di classe andava mano nella mano con gli argomenti costituzionali. Lo stesso attivista che richiamava i leali soldati della lotta di classe, lodava anche “lo spirito di Howat che anima oggi il movimento del lavoro, che è ‘né schiavitù né servitù involontaria’ saranno perpetrate ai danni della classe lavoratrice [336]. Secondo il Topeka Industrial Council la Corte dell’Industria cercava di “rendere la classe lavoratrice schiava in diretta violazione dei suoi diritti costituzionali” [331].

Mentre gli attivisti lottavano per elevare le proteste collettive per rivendicare i diritti al di sopra dei guadagni materiali immediati, i progressisti facevano del loro meglio per convincere i lavoratori che tali diritti non erano in realtà nulla di più che un mezzo per un maggior benessere materiale. In questa visione progressista il diritto di sciopero non aveva nulla a che vedere con la libertà o la democrazia e invece tutto a che fare con l’ottenimento di accordo migliore per la vendita della forza lavoro. Presentando un reclamo presso la Corte dell’Industria i lavoratori potevano ottenere “tutti i benefici che si potrebbero ottenere con uno sciopero, e anche maggiori, senza la necessità di scioperare” [338]. Persino i progressisti vicini al sindacato argomentavano spensieratamente a sfavore del problema dell’impegno in azioni collettive. Per Robert Hoxie, ad esempio, l’azione collettiva era la “conseguenza naturale” della tendenza dei lavoratori che condividevano un ambiente sociale ed economico a sviluppare una “psicologia di gruppo” [339]. Selig Perlman, analogamente, affermava che la “reale psicologia” del lavoratore salario era da rinvenire in parte nel “suo desiderio di solidarietà”, che a sua volta derivava dall’esperienza condivisa della partecipazione al mercato del lavoro [340].

C. Sopravvivere alla repressione legale

Pochi anni prima dello sciopero costituzionale, Robert Hoxie aveva osservato che la legge statunitense era così permeata di individualismo che il sindacalismo era “nella sua stessa essenza qualcosa di illegale, nei suoi stessi obiettivi e nel  suo spirito una sfida alla legge” [341].  Hoxie non stava certo esagerando. Anche se gli scioperi principali pacifici per paghe più elevate o migliori condizioni di lavoro restavano in teoria legali, si trattava di quei rari scioperi così privi di mezzi e finalità inaccettabili [per il sistema – n.d.t.] da non correre il rischio di provvedimenti ingiuntivi per iniziativa della magistratura che in larga misura concordava che “non esiste e non può esistere una cosa come un picchettaggio pacifico” [342]. In questo regime legale, infrazioni di routine e diffuse della legge erano essenziali per la sopravvivenza del movimento del lavoro. “Gli uomini che fondarono il Sindacato dei Minatori non furono troppo accondiscendenti o troppo vili per farsi mettere in prigione”, notava una circolare di un minatore, e “se lo fossero stati non avremmo avuto nessun sindacato” [343].

Al tempo stesso, gli aderenti al sindacato si rifiutavano con forza di accettare lo status di fuorilegge [344]. La carta della libertà del lavoro spiegava che i cittadini rispettosi della legge avevano il dovere positivo di violare le restrizioni all’azione collettiva. “La stessa Costituzione pone i nostri sacri diritti al di sopra del governo” [345] osservava uno sostenitore dello sciopero, mentre un sindacato locale deliberava che Howat e Dorchy avevano “semplicemente fatto il loro dovere ed esercitato i loro diritti di cittadini statunitensi” [346].

D. Liberazione cognitiva

Come ha osservato John Gaventa, l’esperienza della sconfitta accoppiata a una socializzazione negativa può incoraggiare un “senso di impotenza”, una sensazione di non essere semplicemente il genere di persone in grado di realizzare il cambiamento [347]. Prima che i membri normalmente fatalisti di un gruppo sociale possano creare un movimento sociale devono intraprendere quella che Douglas McAdam ha definito “liberazione cognitiva”, una reinterpretazione della loro situazione che conduce a una “nuova sensazione di efficacia” [348].

In conseguenza gli studiosi del potere hanno suggerito che un fattore chiave nel determinare la capacità di gruppi privi di potere di impegnarsi in resistenza è lo sviluppo di un’identità positiva di gruppo che rappresenti i membri del gruppo come attori efficaci [349]. Tradizionalmente i dirigenti e i politici del mondo del lavoro avevano evocato l’identità onorevole del produttore; i lavoratori manifestavano come persone che conoscevano la “retorica dell’orgoglio” [350].  Di fronte all’automazione, alla de-specializzazione e al sempre maggiore controllo, tuttavia, il linguaggio dell’orgoglio del produttore divenne meno un’affermazione di efficacia personale e più un rammarico per il potere perduto [351]. La carta della libertà del lavoro spostò il problema dell’identità dal campo economico a quello politico. Presentò i lavoratori come “uomini e donne liberi” incaricati della missione storica di salvare la repubblica dalla schiavitù industriale [352]. La narrazione della schiavitù e dell’emancipazione poteva offrire una struttura coerente a un insieme di eventi sconcertante e complesso, proponendo i vari partecipanti in ruoli carichi di significato, specificando i rapporti fondamentali tra loro e, cosa più importante, assegnando ai lavoratori e agli appartenenti al sindacato il compito prioritario e definitivo dell’auto-emancipazione.

Gli appartenenti al sindacato rivendicavano il diritto di agire, non semplicemente di essere trattati in certi modi da altri. Il divieto di scioperare avrebbe ridotto i lavoratori a una “virilità degradata, demoralizzata e servile” [353] non consona a cittadini di una democrazia. Diversamente dalle forme imposte della politica rappresentativa, il diritto di sciopero poteva essere esercitato sul luogo di lavoro, dove i lavoratori erano riuniti nel momento della passione collettiva [354].  Da questo punto di vista le proposte incentrate sullo stato degli esperti progressisti e dei socialisti statalisti minacciavano di sostituire una forma di dominio con un’altra. “Nessuno di loro vuole che i lavoratori salvino sé stessi”, osservava il Workers Chronicle. “Predicano tutti la ‘democrazia’ e la ‘libertà’, ma non le praticano quando di tratta dei percettori di salario” [355].

E. Politicizzazione delle relazioni industriali

Sia i giudici liberisti sia i riformatori progressisti utilizzavano la metafora della merce per rappresentare le relazioni industriali come una zona spoliticizzata dell’attività sociale [356]. Nelle mani dei giudici liberisti la metafora relegava le relazioni industriali nella sfera privata del mercato dove si diceva governasse la legge naturale della domanda e dell’offerta, piuttosto che la legge creata dagli uomini [357]. Per i riformatori progressisti, tuttavia, la sfera del mercato richiedeva l’intervento umano, ma non di tipo politicizzato. Essi sollecitavano un controllo presumibilmente non politico di esperti esercitato o da funzionari governativi (come la Corte dell’Industria) o da dirigenti delle imprese e del sindacato impegnati in contrattazioni collettive “volontarie” [358].

La Carta della libertà del lavoro contestava sia la tesi degli imprenditori mirata alla riprivatizzazione sia la tesi degli esperti promossa dai riformatori progressisti [359].  Descrivendo il contratto individuale di lavoro come un istituto di sottomissione corrispondente allo schiavismo, escludeva la possibilità di lasciare le relazioni industriali all’operare spontaneo delle leggi economiche naturali. E inquadrando il tema come di diritti fondamentali e di giustizia, proteggeva una sfera del pensiero e dell’azione dei lavoratori dalle intromissioni del discorso degli esperti. Gli attivisti operai autodidatti potevano non considerarsi pari agli scienziati per quanto riguardava la tecnologia, o agli economisti per quanto riguardava il livello ottimale dei salari, ma con la loro lunga tradizione di ‘legiferazione’ sindacale si consideravano del tutto competenti a decidere sulle questioni della giustizia.

Forse il Workers Chronicle poteva essersi rivolto direttamente a Feis e Bowers quando stigmatizzava

sedicenti “liberali” che affettano un atteggiamento paternalistico nei confronti dei percettori di salario … Si pongono nella stessa classe di insegnanti, medici, chirurghi, ingegneri, ricercatori e altri scienziati … Non riescono a capire quando il mondo del lavoro parla di libertà. “Cosa vogliono i lavoratori?” chiedono innocentemente, mentre i percettori di salario tuonano contro l’autocrazia industriale, le ingiunzioni ai lavoratori, l’usurpazione giudiziaria e l’intromissione del legislativo … Il diritto di organizzarsi, di avere voce in capitolo sulle condizioni di lavoro e di essere rappresentati da persone di loro scelte è di primaria importanza per i lavoratori … Nessun altro movimento, nessun altro programma ha sollevato i lavoratori dalla condizione di servi [360].

Nello sciopero del Kansas sembrò che gli appartenenti al sindacato avessero trovato uno splendido veicolo per dimostrare la loro dedizione ai loro diritti e alle loro libertà. Posti per la prima volta di fronte a un attacco aperto i sostenitori più forti della Corte dell’Industria si divisero. Il giudice presidente Huggins dichiarò che lo sciopero era un’emergenza e che la Corte dell’Industria aveva il dovere di intervenire [361]. Il governatore Allen non solo dissentì, ma sembrò usurpare l’autorità della corte quando annunciò che lo stato non sarebbe intervenuto in alcun modo a meno che vi fosse stata una grave scarsità di carbone [362]. Il Workers Chronicle esultò perché la profezia di Howat circa il fallimento della Corte si era dimostrata corretta [363].

Ma se i sostenitori della Corte erano divisi, i minatori erano divisi ancor più gravemente. Per mesi era andata ribollendo una disputa tra Howat e il presidente dell’UMW John L. Lewis. Il 12 ottobre 1921, proprio quando lo sciopero stava acquistando slancio, Lewis sospese sommariamente l’intera dirigenza eletta del Distretto 14 e la sostituì con nominati. Il nuovo presidente temporaneo, un oppositore di Howat, ordinò immediatamente agli scioperanti di tornare al lavoro [364].

VI. SCONTRO COSTITUZIONALE PRESSO LA CAMERA DEL LAVORO

Nei primi anni venti il sindacato dei minatori United Mine Workers of America (UMW) era di gran lunga il più grande e potente sindacato degli Stati Uniti. Tra l’agosto del 1921 e quello del 1922 il sindacato passò attraverso uno scioperò nazionale di quattro mesi e una virtuale guerra civile in West Virginia, che mise ventimila minatori armati contro cinquemila agenti di polizia e guardie private. L’organismo supremo dell’organizzazione, il congresso nazionale, si riunì due volte in quel periodo. In entrambe le occasioni i delegati dedicarono la maggior parte del loro tempo e delle loro energie a discutere appassionatamente non dello sciopero nazionale né della West Virginia, bensì della proprietà di uno sciopero di quaranta lavoratori in un’oscura miniera del Kansas. La maggior parte degli storici ha accettato il giudizio di John L. Lewis [365] che mentre Roma bruciava i minatori si gingillavano. E’ possibile tuttavia che stessero battendosi su temi di profonda importanza non solo per UMW ma anche per l’intero movimento del lavoro e persino per l’ordine costituzionale degli Stati Uniti.

Lo scontro tra le costituzioni del laissez-faire, progressista e della libertà nella politica in generale si replicavano all’interno del movimento del lavoro in forme più sottili. Come abbiamo visto, la carta della libertà del lavoro rifletteva l’esperienza e alimentava il potere degli attivisti sindacali locali. Come prevedrebbe la teoria della genesi del diritto, i dirigenti sindacali nazionali, la cui attività quotidiana assomigliava più da vicino a quella dei dirigenti d’azienda che a quella dei comuni appartenenti al sindacato, sviluppò le loro idee costituzionali distintive. Alcuni tentarono di modificare a fini sindacali la costituzione del laissez-faire imprenditoriale. Un gruppo più contenuto fece lo stesso con la costituzione progressista. Chiamo il primo approccio “carta del lavoro delle imprese”, il secondo “carta del lavoro progressista”. Entrambe dovevano avere ruoli importanti, non solo nello sciopero costituzionale ma anche nella transizione dal regime Lochner a quello Carolene Products della legge costituzionale.

A. Carta del lavoro delle imprese

Se il lavoro era una merce, allora – secondo i giudici conservatori – i sindacati erano cartelli illegittimi del lavoro o concorsi in “limitazione del commercio”. Ma le metafore commerciali potevano sostenere anche un modello legittimo dei sindacati. Se il capitale poteva creare grandi organizzazioni legalmente autorizzate per vendere merci, allora perché non il lavoro? Nel difendere il diritto di sciopero per un aumento dei salari, ad esempio, un artigiano specializzato proclamò che “si tratta semplicemente del prezzo dell’unica merce che abbiamo da vendere: il nostro lavoro!” [367]. I sostenitori del lavoro conseguirono la maggior parte delle loro vittorie in giudizio attenendosi a questo modello commerciale. Per passare dal laissaiz-faire individuale ai diritti sindacali operavano un’analogia tra le attività del sindacato e quelle dell’industria [368].  “Il lavoro organizzato è capitale organizzato, fatto di cervello e muscoli” e pertanto gode di diritti equivalenti” sostenne una corte sensibile [369].

La Legge sulla Corte dell’Industria, con le sue restrizioni sia al lavoro sia al capitale, offriva un’occasione d’oro agli appartenenti al sindacato per associare i diritti sindacali ai diritti dell’industria. Alcuni dirigenti sindacali la colsero. Tentarono di stimolare la protezione del diritto di sciopero ancorandola alla dottrina secondo cui le restrizioni alla libertà contrattuale invadevano la libertà in violazione della clausola sul giusto processo del Quattordicesimo Emendamento. Questa teoria si incardinava sull’analogia tra i diritti del lavoro e i diritti economici delle imprese che avevano ricevuto forte protezione in una molteplicità di sentenze statali e federali, esemplificate dall’annullamento, da parte della Corte Suprema, della legge sull’orario massimo in Lochner contro New York [370]. In quest’ottica la legge del Kansas era incostituzionale non semplicemente perché colpiva la libertà del lavoro ma anche perché invadeva “la libertà degli imprenditori e demoliva il concetto di proprietà privata [371]” Il governo non poteva limitare gli scioperi del capitale più di quanto potesse limitare gli scioperi del lavoro. Questo abbraccio dei diritti dell’imprenditoria condusse facilmente a critiche della legge come complotto “socialista-bolscevico” [372]. Lo United Mine Workers Journal, edito da un ex pubblicista della Camera di Commercio, si oppose alla legge dal punto di vista della carta del lavoro delle imprese, operando un’analogia tra il diritto del lavoratore di scioperare e il diritto dell’imprenditore di chiudere un impianto [373].

Anche se i dirigenti sindacali si scagliavano contro la metafora del lavoro come merce quando era utilizzata per giustificare le restrizioni del governo ai sindacati, la accettavano implicitamente quando definivano la libertà del lavoro come il diritto dei sindacati di concludere contratti per l’acquisto e la vendita di forza lavoro [374]. Questo tipo di libertà del mondo del lavoro corrispondeva all’esperienza dei funzionari sindacali, che passavano la maggior parte del loro tempo a trattare con gli imprenditori le condizioni e l’attuazione dei contratti di lavoro. All’epoca della lotta contro la Corte dell’Industria, tutti i principali contratti dell’UMW prevedevano che i dirigenti sindacali di qualsiasi livello assistessero i datori di lavoro nel far valere l’obbligo di non scioperare [375]. Per i dirigenti coinvolti in questo processo lo stimolante discorso dell’”inalienabile” diritto di sciopero dei lavoratori poteva avere implicazioni minacciose. I diritti contrattuali e le metafore commerciali avevano una speciale attrattiva per i dirigenti sindacali che gestivano (o sognavano di gestire) i loro sindacati come imprese economiche piuttosto che come associazioni democratiche. Proprio come le imprese operavano gerarchicamente, così volevano farlo i sindacati. Con l’emancipazione del lavoratore cancellata come scopo, l’opposizione interna organizzata diventava “un lusso che la maggior parte dei sindacati non può permettersi” [376].

Gli attivisti locali non condividevano la passione dei loro dirigenti nazionali per il modello imprenditoriale. Mentre i dirigenti invocavano diritti di “proprietà” e analogie con le imprese, gli attivisti – come mostra la tabella seguente – erano più propensi a combinare appelli a una legge più alta con discorsi di lotta di classe. Contrariamente all’idea che i discorsi giuridici siano intrinsecamente individualistici e conservatori, gli attivisti trovavano naturale impiegare il linguaggio dei diritti per inquadrare reclami collettivi, di classe. Un minatore del Kansas, ad esempio, avvertì che la Legge era mirata a “opprimere la classe lavoratrice per toglierle i diritti garantiti dalla costituzione … di scioperare per i diritti o contro l’oppressione della brutale classe capitalista del paese” [377].

TABELLA 1. PERCENTUALE DI ORATORI (su un totale di 36) CHE UNIVANO APPELLI A UNA LEGGE SUPERIORE A RETORICA IMPRENDITORIALE E DI CLASSE [378]

 

ATTIVISTI,DIRIGENTIE ORGANISMI

LOCALI

DIRIGENTI E ORGANISMI

REGIONALI

DIRIGENTI EORGANISMI

NAZIONALI

TOTALE

 

DI CLASSE [379]

85%

78%

14%

56%

ENTRAMBE

0%

0%

21%

8%

IMPRENDITORIALE[380]

15%

22%

64%

36%

TOTALE

100%

100%

100%

100%

 

Gli attivisti respingevano la retorica dell’antisocialismo. Il Workers Chronicle pubblicò numerosi articoli che sollecitavano la nazionalizzazione delle industrie chiave [381]. In un articolo di prima pagina nel bel mezzo dello sciopero costituzionale, un minatore spiegò che il piano di nazionalizzazione del sindacato, che chiedeva che i proprietari fossero risarciti, sarebbe stato ritenuto costituzionale se i lavoratori avessero “messo fretta alle corti mostrando che 500.000 minatori significano un affare riguardo alla nazionalizzazione”[382]. Naturalmente qualsiasi piano di nazionalizzazione avrebbe dovuto consentire il diritto di sciopero [383].

Dal punto di vista degli attivisti i sindacati difficilmente avrebbero potuto servire da strumento per la libertà dei lavoratori se essi stessi operavano autocraticamente. Dunque non era insolito sentire attivisti impiegare la carta della libertà del lavoro contro i loro stessi dirigenti sindacali. Per esprimere la sua insoddisfazione per la “gestione autocratica” di Lewis, ad esempio, un attivista chiese che “i diritti della base dovranno essere prevalenti e il padrone dovrà essere messo al suo posto di servitore e il servitore diventare padrone … [384]”.

Poiché la legge istitutiva della Corte dell’Industria violava sia la carta della libertà del lavoro sia la carta del lavoro delle imprese, sindacalisti conservatori come Matthew Woll poterono trovare una causa comune con radicali come Howat. Persino nel giugno del 1921, dopo che Howat e Dorchy erano stati condannati per oltraggio alla corte e accusati di violazione penale della Legge, i delegati al congresso dell’AFL furono unanimi nel lodare i minatori del Kansas “per essersi così coraggiosamente opposti a questa legge affrontando ingiunzioni e minacce di incarcerazione” [385].

Nonostante quest’affermazione di unità, John L. Lewis si appellò al Consiglio Esecutivo dell’AFL perché ordinasse ai suoi affiliare di smettere di aiutare gli scioperanti del Kansas [386]. Lewis e i suoi sostenitori ritenevano di aver trovato un tema che avrebbe separato la cucitura tra la carta della libertà e quella delle imprese: uno sciopero che violava non solo la legge sulla Corte dell’Industria ma anche in contratto dell’UMW con l’Associazione delle Imprese del Carbone del Sud-Ovest.

B. La Camera del Lavoro decide

A giudicare dalla tradizione dell’AFL, la fiducia di Lewis era ben riposta. Howat era stato sospeso per essersi rifiutato di ordinare a quaranta scioperanti a sorpresa di tornare al lavoro alle miniere Dean e Reliance, un’evidente violazione dell’obbligo contrattuale dei minatori, negoziato dall’UMW, di non scioperare [387]. Tale rifiuto era coerente con l’idea di Howat che il diritto di sciopero apparteneva ai lavoratori, non ai dirigenti sindacali, e che era inalienabile. Ma per i sostenitori della carta della libertà delle imprese, il diritto di sciopero era prezioso precisamente perché poteva essere ceduto in cambio di salari e condizioni di lavoro migliori. L’obbligo di rispettare gli accordi di non scioperare era ritenuto sacro dall’AFL, e da Samuel Gompers in particolare [388]. In effetti, per Gompers, l’intero scopo della lotta per i diritti era di consentire ai sindacati di negoziare contratti vincolanti [389].

Il 3 dicembre 1921 Gompers trasmise a Lewis la decisione del Consiglio Esecutivo. Questo notevole documento rappresenta forse il punto più alto del sostegno alla carta della libertà all’interno della dirigenza dell’AFL. Gompers ricordò a Lewis che il Consiglio aveva in precedenza condannato la Corte dell’Industria come tentativo di stabilire servitù involontaria, e che il congresso dell’AFL aveva votato all’unanimità un elogio al Distretto 14 per la sua opposizione alla legge una volta iniziati gli scioperi di Dean e Reliance [390]. Egli informò inoltre Lewis che il Consiglio era “del tutto persuaso che il tentativo di ottenere una decisione favorevole dalla magistratura a proposito della costituzionalità della Legge Industriale del Kansas si dimostrerà futile e che la sola speranza di revoca della norma famigerata sta nell’azione dei lavoratori sindacalizzati del Kansas” [391].  Quanto alla sacralità del contratto, il Consiglio dichiarava senza ambiguità che gli scioperi erano giustificati anche se violavano il contratto. “Qualsiasi cosa lei o io possiamo dire”, scrisse Gompers, “gli scioperi dei minatori del Kansas sono intesi dai lavoratori e dalla popolazione in generale come una lotta contro la legge dello stato sulla Corte dell’Industria [392]. Perciò il Consiglio si rifiutava di emettere alcuna dichiarazione di disapprovazione.

Alcuni storici hanno trovato difficile accettare che Gompers appoggiasse un radicale notorio come Howat per motivi di principio [393].  Anche se la sacralità del contratto stava a cuore a Gompers, lo stesso valeva per la difesa di Howat della carta della libertà del lavoro. Quando il governatore del Kansas, Allen, fece il giro del paese in un tentativo di esportare l’idea della Corte dell’Industria, gli stette alle calcagna presentando contestazioni di fronte ai parlamenti statali e impegnando Allen in uno spettacolare dibattito faccia a faccia alla Carnegie Hall [394]. Nei suoi discorsi Gompers sottolineò non le analogie con l’industria, bensì il diritto dei lavoratori di scioperare per difendersi dallo schiavismo. Alla Carnegie Hall ritenne importante difendere il diritto decisamente non industriale di attuare scioperi politici a sostegno di diritti democratici [395]. Forse, avendo superato la settantina, il “vecchio” stava trovando sempre più significativo che “la storia non onora nessuno più di chi, in passato, si è opposto a leggi ingiuste, anche arrivando alla ribellione” [396].

Nel frattempo, il 22 ottobre, i minatori del Kansas vissero la loro prima giornata di paga senza paga. Quello stesso giorno il quartier generale di Howat prese atto per la prima volta che alcune scavatrici a vapore erano in funzione, sebbene senza addetti al completo [397].  A causa della scarsità di lavoro nei mesi precedenti lo sciopero, pochi dei minatori avevano risparmi per tirare avanti. Il 4 novembre l’organizzatore dei soccorsi William Orr riferiva che erano disperatamente necessari aiuti [398].

L’immediato futuro degli scioperanti sarebbe stato deciso dal congresso di novembre del Distretto 12 dell’Illinois dell’UMW, che – unico tra gli alleati di Howat – possedeva risorse sufficienti per sostenere lo sciopero. Lewis si mosse rapidamente per prevenire la minaccia. Nel chiedere assistenza all’AFL, aveva professato un’affinità con la carta del lavoro delle imprese. Ma nell’opporsi all’appello dei minatori del Kansas al Distretto 12, lui e i suoi sostenitori avrebbero invocato una visione nuova e diversa del luogo di lavoro nell’ordine costituzionale: una visione radicata nel discorso progressista.

C. La “nuova” carta dei membri del sindacato e dei progressisti del lavoro

Quattro mesi prima dello sciopero costituzionale, i redattori del New Republic avevano avvertito i membri del sindacato che parlare di servitù e di libertà del lavoro non avrebbe fermato la diffusione delle corti dell’industria. Gli appartenenti al sindacato avrebbero dovuto convincere il pubblico “che il loro atteggiamento era dettato sia da interessi di classe sia da interessi generali [399]”. Sfortunatamente i sindacalisti ortodossi come Gompers avevano fallito in questo compito. Sono un cittadino “atipicamente filosofo” avrebbe accettato la tesi di Gompers che il pubblico avrebbe dovuto accettare dei problemi economici come prezzo della libertà dei lavoratori [400].

Fortunatamente, tuttavia, era in ascesa una forma alternativa di sindacalismo, il nuovo sindacalismo di Sidney Hillman e dell’Amalgamated Clothing Workers. Hillman avrebbe chiesto al pubblico di sopportare le difficoltà causate dalle dispute lavoro-capitale non nell’interesse della libertà, si entusiasmavano i redattori, bensì a vantaggio materiale di un sistema che prometteva ai consumatori “una maggiore qualità del lavoro e un’offerta più sicura” [401]. Avrebbe sostenuto la sua tesi non parlando di diritti fondamentali, bensì di economia. Avendo riconosciuto “che ci sono precisi limiti ai guadagni che si possono ricavare dal processo di ridurre l’orario e aumentare i salari”, i nuovi sindacalisti avrebbero ricercato altri utili “da un aumento dell’efficienza, quale l’aumento che si sarebbe ottenuto se ogni lavoratore si fosse sentito incitato a fare del suo meglio” [402]. L’obiezione alla Corte dell’Industria del Kansas non era dovuta al fatto che essa imponeva la servitù – cosa impossibile, visto che i lavoratori possedevano il diritto di voto – ma al fatto che impediva ai sindacati di promuovere l’efficienza industriale mediante un miglior morale dei lavoratori.

A prima vista John L. Lewis era le mille miglia lontano da Hillman. Mentre Hillman stava apprendendo il progressivismo presso Clarence Darrow e Jane Addams [403], Lewis si stava freneticamente facendo strada a forza verso la presidenza dell’UMW, cambiando le sue alleanze politiche dai socialisti ai volontaristi e facendo marcia indietro ogni volta che era necessario per approfittare di politiche settarie [404]. Ma Lewis, per quanto in modo tortuoso, si stava muovendo in direzione di una posizione coerente con i cardini principali del progressivismo.

Lewis condivideva il debole dei progressisti per la professionalità e i discorsi degli esperti. Egli era salito alla ribalta attraverso una serie di posizioni da nominato, conquistando il posto di facente funzioni di vice presidente internazionale senza aver mai vinto un’elezione a cariche distrettuali o internazionali. In ciascuna fase egli era avanzato grazie alle sue abilità di negoziatore, alla disciplina nel lavoro e a sveglie manovre settarie [405]. Egli cercava il consiglio di esperti con un addestramento accademico e aveva stabilito un rapporto stretto con l’economista e riformatore W. Jett Lauck [406]. Giocando le sue carte personali migliori egli insistette che il sindacato sarebbe progredito non grazie alle idee o alle azioni dei minatori comuni, bensì attraverso i negoziati specialistici della dirigenza, condotti su basi di mutuo rispetto con i dirigenti governativi e delle imprese [407]. Per Lewis il sindacato non era uno strumento per la libertà e il potere dei lavoratori, bensì uno strumento per ottenere un più elevato tenore di vita. Si sentiva a suo agio nel dichiarare che “[il sindacato] United Mine Workers è un’istituzione imprenditoriale; quanto meno … è questo che propongo agli imprenditori del carbone che partecipano ai contratti congiunti”[408].

Giunti all’epoca dello sciopero costituzionale, Lewis aveva sperimentato la capacità del governo di rafforzare la gerarchia sindacale sia contro gli imprenditori sia contro gli attivisti locali. Nel corso della prima guerra mondiale aveva visto l’amministrazione Wilson premere sui datori di lavoro affinché accettassero il diritto di iscrizione al sindacato, determinando il maggiore incremento di adesioni in settori sino ad allora non sindacalizzati. L’Accordo tripartito di Washington del 1917 aveva garantito notevoli aumenti dei salari, pur se la costo di una “clausola penale” che imponeva una multa di un dollaro per ogni giorno in cui un minatore avesse partecipato a uno sciopero non autorizzato [409]. Mentre Howat e molti attivisti locali contestavano la clausola penale come foriera di schiavismo [410], Lewis riconobbe che la clausola avrebbe rafforzato il potere dei dirigenti sindacali di vertice nei loro sforzi per controllare gli scioperi selvaggi e per ridurre l’influenza degli attivisti locali [411].

In questa fase della sua carriera, Lewis accettò l’idea della New Republic che il futuro del movimento del lavoro dipendeva dall’opinione pubblica e che la retorica e la pratica della carta della libertà del lavoro avrebbe allontanato il pubblico. Mise in atto questi punti quando il giudice Anderson emise un’ingiunzione contro lo  sciopero delle miniere di carbone nel 1919. Mentre Gompers e Howat sollecitarono la disobbedienza per forzare il problema costituzionale, Lewis si adeguò per motivi di patriottismo [412]. Invece di mobilitare gli iscritti a difendere il diritto di sciopero, assunse esperti e portò la causa del sindacato per salari più elevati e orario ridotto davanti alla Commissione del Carbone del presidente Wilson. Dopo che la Commissione ebbe emesso un giudizio deludente, Lewis sostenne che il sindacato aveva conseguito una vittoria simbolica, dimostrando al pubblico che l’UMW era “un’istituzione statunitense che crede negli ideali statunitensi e li sostiene” [413].

Mentre l’impegno di Lewis nei confronti della riforma era incerto (egli considerava le proposte più ambiziose – come la regolamentazione e la nazionalizzazione sistematiche – come effettivamente incostituzionali)[414], il presidente del Distretto dell’UMW della Pennsylvania Centrale, forte di 35.000 membri, era sinceramente convinto. Con l’aiuto di un gruppo di esperti progressista egli stilò e promosse il “Programma dei Minatori”, sollecitando i minatori a fare della richiesta dell’UMW della nazionalizzazione dell’industria del carbone la loro massima priorità [415]. Brophy condivideva il timore dei progressisti nei confronti dei discorsi sui diritti fondamentali e il suo piano di nazionalizzazione non citava il diritto di sciopero [416]. Il problema principale che i minatori del carbone avevano di fronte, sostenne, non era la libertà o il potere del lavoratore, bensì lo spreco economico e umano [417].  “I minatori sono consumatori”, proclamò, e “sono tanto ansiosi quanto ogni altro gruppo di trovare un modo … per estrarre la maggior quantità di carbone al costo più basso” [418].

In poche parole, Lewis e Brophy invertirono la priorità della carta della libertà dai diritti fondamentali alle conquiste materiali e spostarono il terreno di discussione dal linguaggio popolare dei diritti alla terminologia tecnica dell’economia. Reagirono alla Corte dell’Industria con il silenzio. Quando Howat chiese l’assistenza dell’UMW per la campagna di resistenza del Distretto 14, Lewis lo scoraggiò [419]. Con il congresso del Distretto 12 dell’Illinois – e il suo voto decisivo a sostegno dello sciopero del Kansas – in rapido avvicinamento, l’amministrazione Lewis avrebbe dovuto tuttavia prendere una posizione.

D. Corti affidabili e lavoratori prevenuti

Il presidente del Distretto 12, Frank Farrington, aveva invitato Lewis a partecipare al congresso, ma Lewis inviò al proprio posto il suo grande conciliatore, il segretario-tesoriere Green. Facendo di tutto per evitare attacchi (negò persino di aver criticato Howat e affermò, incredibilmente, che avrebbe fatto lo stesso se fosse stato nei panni di Howat) [420] Green tuttavia colpì al cuore della carta della libertà del lavoro. Si unì ai sostenitori di Howat nell’opinione che la Legge sulla Corte dell’Industria fosse incostituzionale, ma negò che il suo giudizio – o quello di qualsiasi altro sindacalista – potesse contrastare quello della Corte Suprema. L’opinione personale di Green era “solo” quella di un uomo comune e membro del sindacato, e dunque “prevenuta e faziosa” [421]. Prima di scioperare, sostenne Green, i minatori avrebbero dovuto produrre un precedente contro la legge, che li avrebbe istruiti se “essa era compatibile o no con la costituzione dello stato e della nazione” [422]. Lo United Mine Workers Journal previde in modo rassicurante che “le leggi di questo paese proteggeranno i diritti di tutti i cittadini” [423].

I leali a Lewis sostennero che la resistenza contro il governo era estranea agli Stati Uniti e futile [424]. Henry McAnarney presentò una logica costituzionale concisa nello United Mine Workers Journal. La resistenza, sostenne, non era necessaria nel sistema statunitense perché nessun “grande principio giuridico può essere reso efficace contro gli interessi del popolo e fatto valore contro la sua volontà” [425].  Perché no? Perché il popolo gode dei diritti “personali” preferenziali progressisti della partecipazione politica e della libertà di espressione: “Ha il potere di cambiare i propri rappresentanti a intervalli frequenti e ha il diritto di dichiarare le proprie opinioni attraverso i congressi di partito, le assemblee pubbliche, le petizioni e la stampa” [426].

I delegati dell’Illinois presero la decisione sul serio. Farrington avvertì che il sostegno a Howat e ai minatori del Kansas poteva costare al Distretto 12 la sua autorizzazione e ai membri i loro posti di lavoro [427]. Dopo una vivace discussione, tuttavia, il congresso votò con 535 a favore e 15 contrari il sostegno allo sciopero del Kansas e di assegnare a ciascuna sezione dell’Illinois un dollaro al mese per ogni membro da destinare al sostegno, un totale di 90.000 dollari al mese [428].

Due mesi dopo la dirigenza del Distretto 14 nominata da Lewis espulse gli scioperanti del Kansas dall’UMW [429]. Nei pochi giorni successivi il consiglio deposto di Howat insisteva che solo un pugno di scioperanti era tornato al lavoro [430] ma il 1 dicembre 1921, l’ispettore delle miniere statali riferiva che lavoravano 2.689 lavoratori [431] (rispetto agli 8.500 prima dello sciopero). Due giorni dopo il distretto carbonifero fu colpito dalla prima grande tempesta di neve dell’inverno [432]. Un membro del consiglio di Howat ammise che molte famiglie degli scioperanti mancavano di scarpe e i bambini non potevano andare a scuola a causa di vestiario inadeguato [433]. Dopo mesi di silenzio, gli imprenditori del carbone cominciarono a riferire che gli scioperanti stavano tornando al lavoro in numero considerevole [434].

In questo frangente fece il suo primo intervento pubblico nella lotta una nuova forza potente. Non molto dopo che era stata approvata la legge sulla Corte dell’Industria, il governatore Allen aveva osservato che “le mogli dei lavoratori stavano assumendo nei confronti della legge un interesse maggiore degli stessi uomini” [435]. Il governatore prevedeva che tali donne, che sopportavano “il carico di dolore e bisogno” durante gli scioperi, avrebbero appoggiato la sua nuova corte [436]. Fino a dicembre, tuttavia, le donne dei campi minerari non avevano preso alcuna iniziativa pubblica per frustrare le speranze di Allen.

E. Fianco a fianco

Ore prima dell’alba del 12 dicembre 1921 l’area industriale di Franklin, Kansas, era illuminata a giorno. Auto facevano la spola avanti e indietro, trasportando donne uomini dai vicini campi carboniferi. Mentre si avvicinava l’ora d’inizio del lavoro, circa 1.000 donne, molte con i bambini in braccio, formarono una fila e cominciarono a marciare verso la vicina miniera Jackson-Walker. Alla testa del corteo numerose donne portavano bandiere; sul retro, una folla di uomini le seguiva. Persino il Repubblicano Pittsburg Daily Headlight ammise che era “uno spettacolo pittoresco” [437]. Gli uomini restavano sullo sfondo mentre le donne impedivano ai lavoratori di entrare nella miniera. Aspiranti rompitori di scioperi in arrivo sul tram interurbano si ritrovarono incapaci di scendere. Con solo pochi vice ad assisterlo, lo sceriffo se ne rimase impotente in disparte. Dopo aver respinto 120 minatori, le donne proseguirono verso altre miniere [438].

La marcia delle donne era stata pianificata il giorno prima in un’assemblea cui avevano partecipato tra le 500 e le 1.200 donne [439]. Gli uomini erano stati esclusi. L’assemblea aveva adottato una risoluzione che aggiungeva una piega materna alla retorica standard dello sciopero. Poiché i loro mariti stavano “lottando contro una legge per rendere schiavi i nostri figli” le donne considerarono loro dovere schierarsi non dietro, bensì “fianco a fianco” con i loro uomini [440]. Per tre giorni le donne marciarono di miniera in miniera, impedendo ai lavoratori di entrarvi e facendo uscire le squadre già al lavoro. Il secondo giorno 2.500 donne, organizzate in quattro squadroni, visitarono le più grandi miniere della Contea di Crawford [441]. Un’auto fu presa a sassate e distrutta e numerosi minatori che non scioperavano furono aggrediti [442]. Il giorno successivo le donne organizzarono un corteo di automobili lungo più di due chilometri e mezzo, ma il loro principale bersaglio era già stato chiuso in previsione della marcia [443].

Nelle loro dichiarazioni pubbliche le donne abbracciavano la retorica dei minatori sui diritti, la libertà e l’opposizione allo schiavismo [444]. Dopo essere rimaste in silenzio per mesi, mentre gli scioperanti erano diffamati sulla stampa come stranieri radicali, le donne misero la bandiera statunitense al centro delle loro attività. Ciascuna marcia era aperta da donne portabandiera. A un certo punto una bandiera fu stesa attraverso una strada per fermare le auto che trasportavano i lavoratori a una miniera [445].  Le donne pretesero non solo che i minatori che lavoravano tornassero a unirsi agli scioperanti, ma anche che sigillassero le loro promesse baciando la bandiera [446].  Unendosi ad altri statunitensi della classe lavoratrice, le marciatrici avevano una propria interpretazione della bandiera. Dopo che un gruppo di marciatrici aveva chiesto al caposquadra Bob Murray di baciare la bandiera, un giornalista sbalordito commentò che “il motivo di ciò non è stato chiaro, visto che Murray è noto come uno statunitense assolutamente patriottico” [447]. Una marciatrice spiegò che “il signor Murray sapeva di aver prevaricato i lavoratori e dunque dovevamo raddrizzarlo” [448]. Per le marciatrici la bandiera statunitense era la “bandiera della libertà” e la marcia era mirata a garantire “la nostra democrazia che dovevamo avere dopo la guerra mondiale” [449].

Le donne revocarono le loro marce dopo che il governatore Allen inviò nel distretto carbonifero tre compagnie di soldati della Guardia Nazionale [450]. Nei due giorni successivi gli imprenditori si unirono ai leali a Lewis nell’affermare che al lavoro c’erano tanti lavoratori quanto prima delle marce [450].  Tuttavia presto ricaddero nel silenzio, quando divenne evidente che le donne erano riuscite a ravvivare lo sciopero. Il 17 dicembre Walker riferì che solo 702 uomini erano al lavoro, tra cui capisquadra e guardie [452]. Nella vigilia di Natale arrivarono quattro carri merci di provviste, tra cui dolci e frutta per i bambini degli scioperanti. “Persino il perennemente scoraggiato John Steele sentì che ‘le cose si mettevano meglio per noi’” [454].

F. Una verifica dell’impegno

Fino alla marcia delle donne, i sostenitori della Corte dell’Industria avevano sperato che gli sforzi congiunti dell’UMW International e degli imprenditori del carbone avrebbero vinto lo sciopero senza interventi dello stato. Facendo svanire tale speranza, le marciatrici aumentarono la posta in gioco nella lotta. La loro dedizione a una visione della democrazia statunitense, dimostrato attraverso la disobbedienza collettiva alla legge, sfidava la dedizione dello stato alla Legge della Corte dell’Industria [455]. Se lo stato non fosse riuscito a imporne efficacemente il rispetto, la Legge si sarebbe rivelata inutile.

Mentre la stessa Corte dell’Industria restava divisa e paralizzata, il procuratore generale dello stato, Hopkins, emerse a contrastare. Per costringere i minatori a tornare al lavoro, Hopkins ordinò alle amministrazioni locali di mettere in atto e far rispettare le leggi contro il vagabondaggio chiedendo l’incarcerazione di chiunque fosse trovato a “bighellonare senza mezzi visibili di sostegno” [456]. La sua interpretazione di “mezzi visibili di sostegno” escludeva i soccorsi agli scioperanti o il credito personale. IL 7 gennaio la polizia cominciò ad arrestare selettivamente attivisti sindacali per vagabondaggio [457].  Molti progressisti si rifiutarono di seguire Hopkins sulla via dell’intensificazione dell’impegno. Con l’approvazione delle ordinanze contro il vagabondaggio, lo spettro della servitù involontaria non sembrava più inverosimile. Per i redattori di New Republic le ordinanze stabilivano in modo conclusivo la dipendenza della Corte dell’Industria dal “principio del lavoro forzato” [458]. Scrivendo su Nation Charles Driscoll definì il periodo come “il regno del terrore della Corte dell’Industria” [459].  Il New York Times scrisse in un editoriale che “per una volta il signor Gompers ha una briciola di pretesto per le sue denunce, a lungo famigliari, contro la ‘schiavizzazione’ dei lavoratori” [460].  Persino Herbert Feis si dichiarò d’accordo esprimendo il parere che le ordinanze arrivavano “molto vicino a realizzare lo spauracchio della ‘servitù involontaria’ del signor Gompers” [461].

Sebbene costose per l’immagine nazionale della Corte dell’Industria, le ordinanze contro il vagabondaggio ottennero risultati rapidi nei campi carboniferi. Il 7 gennaio 1922 Hopkins poteva segnalare con soddisfazione che c’era “molto meno vagabondaggio di uomini oziosi nelle zone di ristoro e in altri luoghi dove gli agitatori rossi si erano andati incontrando per diffondere la loro maliziosa propaganda” [462]. Per la prima volta dopo settimane gli imprenditori affermarono che un numero considerevole di scioperanti stava tornando al lavoro [463].

Cinque giorni dopo Howat consigliò ai residui scioperanti di tornare al lavoro affermando che non c’era necessità di altre sofferenze perché la Corte dell’Industria era stata “interamente screditata” [464]. Gli imprenditori, tuttavia, si rifiutarono di accettare il ritorno degli scioperanti. “Temo” scrisse John Steele a Walker, “che abbiamo aspettato un giorno di troppo” [465]. Le speranze dei minatori, proseguiva Steele, dipendevano dall’assistenza dell’imminente congresso dell’UMW [466].

G. Delegati che urlano come matti

Il 14 febbraio 1922, il congresso dell’UMW International fu riconvocato con il proposito annunciato di pianificare la strategia degli imminenti negoziati sul contratto nazionale. Fu invece la questione del Kansas a dominare i lavori e scatenò l’esercizio più vigoroso e rauco di democrazia sindacale nazionale nella storia dell’UMW.

Lewis non fece a tempo ad aprire la seduta che Howat si alzò per ricorrere contro le iniziative dell’Internazionale contro il Distretto 14. Lewis e Howat procedettero a dimostrare le loro competenze di argomentazione giuridica in lungo dibattito a botta e risposta su vari ostacoli procedurali al ricorso (quali il fatto che Howat era privo del titolo di delegato). Howat alla fine non fu in grado di evitare la discussione sul merito [467].  Fresca di ritorno da un viaggio in Kansas, la leggendaria Madre Jones cercò di intervenire a favore di Howat, paragonandolo a John Brown e lodandolo per la sua nobile battaglia contro la legge schiavista del Kansas. Compromise, tuttavia, la forza del suo discorso esortando i lavoratori a “ridurre i toni” e a porre rimedio agli errori della dirigenza in “modo pragmatico” [468].

Per cinque giorni i delegati ignorarono tale consiglio, urlando, irridendo il presidente e occasionalmente prendendosi a pugni [469]. Howat conquistò un voto preliminare dell’assemblea, 977 contro 864, ma i suoi avversari raccolsero la forza necessaria per un appello [470]. Il giorno della conta decisiva Lewis si ritirò nel suo ufficio, rifiutandosi di presiedere il congresso e persino di votare [471].  La conta finale mostrò 2.073 voti a favore di Lewis e 1.955 contro [472]. Come riferito dal New York Times, il congresso si aggiornò “in mezzo a disordini selvaggi, con centinaia di delegati che urlavano come matti, lamentando la sconfitta di Alexander Howat” [474].

Nel calore del dibattito Howat aveva avvertito che se la sua sospensione fosse stata confermata “nei tempi a venire questa sarà un’organizzazione di un uomo solo” [475].  A confermare la sua profezia, la sospensione del Distretto 14 “fu quasi letteralmente la fine della gestione responsabile del secondo livello dello United Mine Workers of America” [476]. Arrivati al 1948, ventuno dei trentuno distretti erano stati sospesi [477]. Lewis fu così libero di perseguire il suo programma di svolta del potere dai comitati di miniera alla burocrazia sindacale centrale [478].

Con l’irrigidirsi dell’inverno, questi interessi di lungo corso non furono più al primo posto nelle menti dei minatori chiusi fuori. Poco dopo il congresso, il presidente del Distretto 12 dell’Illinois, Frank Farrington, offrì di continuare a sostenere finanziariamente lo sciopero del Kansas [479], ma le prospettive di lungo termine erano tetre. Con lo sciopero in larga misura spezzato e nessun aiuto in arrivo dall’Internazionale, i minatori furono ridotti a sperare soccorso da una fonte molto improbabile: le corti di giustizia.

Note


Questo articolo non sarebbe stato possibile senza il lavoro sottofinanziato e sottovalutato di archivisti di tutto il paese. Gene DeGruson, curatore delle Raccolte Speciali dell’Università Statale di Pittsburgh (Kansas), ha offerto assistenza ben oltre i doveri del suo lavoro non solo mettendo a disposizione rari materiali manoscritti ma anche aiutandomi a cogliere il passato attraverso le sue vivide interpretazioni poetiche (pubblicate in GENE DEGRUSON, GOAT’S HOUSE (1986) dalla Woodley Memonal Press, Topeka, Kan.). Speciale gratitudine è dovuta anche al personale del Tamiment Institute presso l’Università di New York e dell’Illinois Historical Survey, che mi ha consentito di completare il progetto con uno stanziamento minimo per gli spostamenti.

James Gray Pope 1997 Docente di diritto presso la Facoltà di Legge dell’Università Rutgers, Newark, New Jersey. Nel corso del lungo periodo di gestazione di questo articolo ho beneficiato delle idee di molte persone. Il fatto che qui ne ometterò alcune non dipende dall’importanza dei loro contributi, bensì è una testimonianza della fallacia della mia memoria. Donna Dorgan mi ha assistito nella strategia della ricerca in sede di avvio del progetto. Una prima versione dello scritto è stata presentata al congresso di Filadelfia dell’associazione “Diritto e Società” nel corso del quale mi sono avvantaggiato dei ponderati commenti di Dan Ernst e dei suggerimenti degli altri oratori. Come sempre, il seminario della facoltà della Rutgers ha generato reazioni vivaci e utili. Bruce Ackerman. Jennifer Hochchild e Daniel T. Rodgers hanno esaminato la bozza nel suo stadio più dilatato e hanno offerto suggerimenti assolutamente necessari, nonché incoraggiamento per l’impresa. Il mio collega Alan Hyde mi ha offerto consigli strategici cruciali e commenti dettagliati in più di una fase del progetto. Wayne Eastman, John Leubsdorf, Dorothy Roberts, Lew Sargentich, e William Palmer Gardner hanno individuato problemi che ho cercato di correggere.

Originale e fonte: Yale Law Journal, Vol. 106, pp. 941-1031, 1997

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

top