Nucleare: a chi conviene?
Le tecnologie, i rischi, i costi
di Gianni Francesco Mattioli, Massimo Scalia

introduzione di Gianni Silvestrini

Kyoto Books - Edizioni Ambiente 2010

stralcio dal capitolo 1 pagina 61
stralcio dal capitolo 3 pagina 117
stralcio dal capitolo 4 pagina 129

stralcio dal capitolo 1 pagina 61

Solo l’Italia, unico tra i paesi dell’Occidente industrializzato, all’indomani dell’incidente di Chernobyl, effettuò, sotto la spinta della subalternità della politica all’emotività di massa, la scelta sciagurata di bloccare il nucleare: questa sentenza non corrisponde alla realtà dei fatti e tuttavia è stata così ripetuta all’opinione pubblica da essere ormai considerata vera. È forse utile, allora, partire con qualche racconto.

In realtà, la vicenda nucleare si giocò in Italia all’inizio degli anni ’60, quando il nostro paese era tra quelli maggiormente impegnati in questo settore, così come nel settore delle grandi macchine di calcolo.

Non senza significato era stato il fatto che la firma nel 1957 del trattato che aveva sancito la nascita dell’Euratom, la Comunità europea dell’energia atomica, fosse avvenuta proprio a Roma.

Ma, solo qualche anno dopo gli Usa, il grande paese amico e alleato, permisero sì la nascita del primo governo di centro-sinistra, ma una condizione non scritta fu che l’Italia abbandonasse velleità importanti in ambedue i settori indicati. Così, l’Olivetti Grandi Macchine viene ceduta alla General Electric (Olge) e, in campo energetico, l’Italia diviene grande paese raffinatore di petrolio, uscendo dai primati che aveva nel campo nucleare, ma anche geotermico e idroelettrico.

Ed è non senza significato – certo non esaltante – che il rapido decollo dell’energia nucleare fosse avvenuto in Italia nel contesto delle imprese elettriche private, mentre il suo tramonto si situa nel contesto dell’energia elettrica nazionalizzata.

Per una generazione di giovani fisici, che insieme ai professori Edoardo Amaldi, Giorgio Salvini, aveva manifestato contro queste scelte e a sostegno di Felice Ippolito (geologo e presidente del Cnrn, il primo ente costituito in Italia per la promozione del nucleare negli anni ’60), fu dunque stupefacente che una quindicina di anni dopo, nel 1977, si rilanciasse un programma nucleare (i 20.000 Mw annunciati dal Programma energetico proposto dal ministro dell’Industria Donat Cattin), quando l’Italia aveva perso ormai la capacità di gestire in modo autonomo le tecnologie Westinghouse e General Electric che avrebbe importato. Fu detto, allora, che la difficile prospettiva del petrolio imponeva la “diversificazione delle fonti energetiche”, ma chi si dedicò ad approfondire la situazione scoprì che il mercato interno dell’elettromeccanica in Usa si veniva progressivamente chiudendo: dal 1978, prima dunque dell’incidente di Three Miles Island e ben prima dell’incidente di Chernobyl, non ci sarebbe stato più per alcuni decenni nessun nuovo ordinativo di impianti nucleari, a causa della enorme lievitazione dei costi richiesta dalle condizioni di sicurezza e dalle misure di mitigazione degli effetti sanitari (associati al rilascio di radiazioni in condizioni di funzionamento di routine degli impianti) richieste dalle popolazioni. Ciò rendeva sempre meno appetibile per le imprese elettriche private americane il kWh nucleare e si chiudeva negli Usa la stagione dell’ampia diffusione di reattori nucleari che, sotto l’egida di “Atoms for Peace”, aveva fornito plutonio agli arsenali militari.

Dalla chiusura del mercato interno veniva, allora, la pressione delle imprese elettromeccaniche nucleari per allargare, in via sostitutiva, il mercato internazionale dei reattori.

In Italia partì, dunque, il cantiere di Montalto di Castro (2.000 Mw) e, successivamente, si iniziò la predisposizione dell’area di “Leri Cavour” in Piemonte (2.000 Mw), che avrebbe ospitato l’impianto Trino 2.

Il programma prevedeva poi altri 2.000 Mw a Viadana, in Lombardia e poi 2.000 Mw a Termoli, in Molise e 2.000 Mw in Puglia (Avetrana o Carovigno). Si sarebbe poi proseguito con il Veneto e la Sicilia. Per tutti questi siti il Comitato nazionale per l’energia nucleare cominciò gradualmente la ricognizione delle condizioni di fattibilità, mentre l’informazione alle popolazioni veniva gestita con quel misto di ammiccamento e di sotterfugio che rappresenta ormai la pratica usuale per le localizzazioni di impianti di qualche “complessità”.

Nel corso degli anni ’80, si delineava la chiusura delle tre piccole centrali (Trino, Latina, Garigliano), ormai vecchie, e, anche per la centrale di Caorso, fermata nell’ottobre 1986 per la ricarica del combustibile, si poneva il problema se valesse la pena di effettuare il costoso restyling che si rendeva necessario per tener conto dell’esperienza generata dall’incidente di Three Miles Island.

[…]

A seguito di Chernobyl, il nucleare viene bloccato in tutti i paesi dell’Ocse: non si procederà a nessun nuovo ordinativo di reattori – proprio come già si era verificato negli Usa, dove, come abbiamo visto, a partire dal 1978 non era stata commissionata nessuna nuova installazione e un centinaio di progetti erano stati accantonati. “L’impegno attuale in quel Paese – registra Guido Cosenza – per quanto riguarda gli impianti nucleari, è quasi esclusivamente diretto a protrarre la vita degli apparati dai quarant’anni programmati a sessanta”. (B.I,1).

La situazione di stallo nella realizzazione di nuovi impianti nei paesi Ocse dura a tutt’oggi, con la sola eccezione del Giappone. Austria (1978, referendum), Svezia (1980, referendum) e Spagna hanno chiuso i programmi nucleari prima dell’Italia e analoga scelta è stata effettuata, più recentemente, dalla Germania, con la definizione della exit strategy dalla produzione di energia elettronucleare entro il 2020 .

Dunque, questo blocco generale dello sviluppo dell’energia nucleare, che non parte nella modesta Italia, ma negli Stati Uniti e si estende poi agli altri paesi avanzati, è la tappa di questa tecnologia, che si tende a cancellare nel dibattito disinformato. Eppure basterebbe confrontare la realtà attuale – alcune centinaia di reattori in tutto il mondo – con la prospettiva di migliaia di centrali che, sotto l’egida di “Atoms for Peace”, si prometteva che avrebbero donato ai popoli della terra energia elettrica quasi gratis.

[…]

In Europa l’unico reattore in costruzione da qualche anno è Olkiluoto 3, in Finlandia – primo reattore commissionato nell’Europa Occidentale dal disastro di Chernobyl – ma, nonostante i forti sussidi finanziari ricevuti (prestito per 1,95 miliardi di euro a tasso agevolato dalla tedesca Bayerische Landesbank, garanzie sul prestito di 610 milioni dall’istituto francese Coface) e la sfida che voleva rappresentare, i tempi previsti per la consegna si sono allungati di oltre tre anni e i costi di costruzione sono aumentati del 70% (B.I.2).

Quanto alla Francia – esaurita la motivazione strategica della force de frappe – non ha proceduto al rinnovo degli impianti relativi al trattamento del combustibile, ha chiuso – come si chiarirà nel capitolo 2 – la sua filiera legata all’utilizzazione dell’uranio 238, mentre la realizzazione di un nuovo impianto Epr (european pressurized reactor) – un prototipo di terza generazione “avanzata” – sta incontrando difficoltà e ritardi, anche per gli interventi dell’autorità di controllo per la sicurezza nucleare, del tutto analoghi a quelli che hanno fatto una pessima reclame al reattore finlandese.

L’Italia, dunque, fece nel 1988 (Governo De Mita) quello che stavano facendo gli altri: non procedette più alla realizzazione di nuovi impianti. Si dirà: avrebbe potuto portare a compimento Montalto di Castro. Orbene: l’uso dell’energia nucleare non è solo il funzionamento dei reattori, ma sono necessari i servizi complessi e costosi del ciclo del combustibile (arricchimento, riprocessamento, scorie), per il passato commissionati, in parte, ad altri paesi. Con quale razionalità si poteva dunque completare un reattore e per ciò doversi dotare dei servizi del ciclo?

Nelle mutate condizioni strategiche, come si è detto, la Francia si ritrovava ora un programma nucleare sovradimensionato rispetto alla domanda di base (cioè di flusso continuo di energia elettrica, cui si aggiunge in alcune ore della giornata, la cosiddetta domanda “di picco”). Anzi: esso esponeva lo stato a un grosso indebitamento. Da qui il corteggiamento all’Italia perché le sue importazioni di energia elettrica avessero la caratteristica di forniture non interrompibili.

Va da sé che riconoscere ai kWh francesi questa caratteristica permetteva all’Italia di spuntare un prezzo più basso.

 Ma quanto costa in realtà quel kWh?

Per dare una risposta a questo interrogativo, bisogna comprendere bene la complessità di una centrale nucleare, anzi, più in generale la complessità del ciclo del combustibile nucleare: alla base di questa complessità, sta, da una parte, la questione della radioattività e del suo impatto sanitario e ambientale e, dall’altra, la questione militare, il problema, cioè, della proliferazione degli armamenti atomici.

Per parlare di costo del kWh, dobbiamo dunque affrontare la problematica delle radiazioni, che spesso riesce a scomparire dal discorso sull’energia nucleare.

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stralcio dal capitolo 3 pagina 117

[...] Alla base del problema sta l’interazione tra le radiazioni emesse dalle sostanze radioattive che intervengono nei processi considerati e le cellule del nostro corpo. Come abbiamo visto (paragrafo 2.2), a seconda dell’energia delle radiazioni incidenti, si distinguono radiazioni ionizzanti (ad alta energia) e radiazioni non ionizzanti (a bassa energia). Queste ultime riguardano, più particolarmente, altre attività – la trasmissione dell’energia elettrica (elettrodotti), le telecomunicazioni – delle quali non ci occupiamo in questa sede.

Si è già osservato che i diversi tipi di radiazioni ionizzanti presentano capacità diverse di penetrare la materia e da ciò derivano conseguenze radioprotezionistiche diverse.

[…]

Gli effetti sanitari delle radiazioni ionizzanti si distinguono in effetti somatici ed effetti genetici: i primi (in particolare: tumori, leucemie) riguardano le cellule della linea somatica e si manifestano nel soggetto irradiato, mentre i secondi riguardano il patrimonio ereditario della linea germinale che è trasmissibile alle successive generazioni e dunque si manifestano nella progenie dell’individuo irradiato.

Le radiazioni ionizzanti causano, poi, nei tessuti irradiati sia effetti deterministici che effetti stocastici.

Spiega Icrp: “Gli effetti deterministici risultano dalla distruzione di cellule in modo che, se la dose è abbastanza elevata, essa causa una perdita di cellule tale da menomare la funzione di quel tessuto. La probabilità di causare un tale danno sarà nulla per piccole dosi, ma al di sopra di un certo livello di dose (la soglia per l’effetto clinico) la probabilità registrerà un’impennata, cioè il 100% degli individui irraggiati subirà quell’effetto. Al di sotto della soglia, la gravità del danno sanitario crescerà con la dose.

Effetti stocastici possono risultare allorché una cellula irradiata è modificata invece che distrutta. Cellule somatiche modificate possono successivamente, anche dopo intervalli di tempo prolungati, svilupparsi dando luogo a un cancro. Meccanismi di difesa e di riparazione rendono molto bassa questa probabilità. E tuttavia la probabilità di un cancro risultante da radiazioni cresce con l’incremento di dose, probabilmente senza soglia. La severità del cancro non è determinata dalla dose. Se poi il danno riguarda una cellula la cui funzione sia quella di trasmettere informazione genetica alla generazione successiva, qualsiasi effetto risultante, di qualsiasi tipo e gravità, si esprime nella progenie della persona esposta” (B.3.6).

Si tratta di fenomeni complessi i cui effetti sono caratterizzati da leggi di carattere probabilistico, nel senso che, per una classe di persone esposte a una certa dose di radiazioni, generalmente si può effettuare solo una previsione statistica dell’effetto sanitario di tale esposizione, indicando cioè quale percentuale delle persone esposte manifesterà quell’effetto sanitario.

Si perviene così a stime di rischio, nel senso che non sarà determinabile quale individuo manifesterà l’effetto, ma si avrà un’indicazione del numero degli individui che quell’effetto manifesteranno.

“Scopo della radioprotezione – dichiara la Icrp – è quello di evitare gli effetti deterministici stabilendo limiti di dose al di sotto delle soglie. Quanto agli eventi stocastici, si ritiene che essi siano inevitabili, sia pure con bassa frequenza, anche alle dosi più basse”.

Gli effetti deterministici si hanno in corrispondenza a dosi molto elevate di radiazioni, e dunque, per lo più, in condizioni incidentali. Di ben maggiore importanza sono, dal punto di vista sanitario, gli effetti stocastici (o anche tardivi), che, come si è visto, insorgono in corrispondenza a dosi piccole o piccolissime, cioè in condizioni di funzionamento normale degli impianti.

Le tre principali sorgenti di informazione sugli effetti stocastici sono costituite dagli studi epidemiologici sui sopravvissuti negli attacchi con bombe nucleari a Hiroshima e Nagasaki, su pazienti esposti a radiazioni per diagnosi o trattamenti medicali e su alcuni gruppi di lavoratori esposti, al lavoro, alle radiazioni o a sostanze radioattive.

“Contrariamente agli effetti immediati, gli effetti somatici tardivi possono insorgere per un danno che interessa una o poche cellule d’un qualsiasi organo o tessuto. Il loro tempo di comparsa è molto variabile e si sa che nell’uomo essi possono insorgere fino a trenta anni dopo l’avvenuta irradiazione. Gli effetti somatici tardivi sono rappresentati da leucemie e tumori solidi di svariato tipo istologico e con ampio spettro di malignità, da malattie degenerative, particolarmente di tipo vascolare, da cataratta del cristallino e, forse, da un aspecifico accorciamento della durata della vita” (B.4.4).

Lo studio della correlazione tra dose ricevuta e percentuale degli individui colpiti da eventi sanitari somatici o genetici, nel caso delle dosi piccole o piccolissime, è molto difficile poiché, per effettuare una corretta statistica, si tratta evidentemente di disporre di gruppi di individui o di animali – esposti e di confronto – molto numerosi, sempre più numerosi quanto più piccola è la dose considerata.

L’Icrp non ha modificato, da almeno trenta anni, sia per i danni somatici che per i danni genetici, l’ipotesi che l’andamento degli effetti in funzione della dose – e dunque il rischio – sia alle basse dosi (cioè al di sotto di circa 100 mSv – milliSievert) del tipo lineare e senza soglia. Secondo questa ipotesi, ogni pur minimo incremento di dose può indurre nella classe di individui esposti un corrispondente maggior rischio.

L’uso di questa ipotesi è considerato dalla Commissione “il miglior approccio pratico per trattare il rischio derivante dall’esposizione alle radiazioni e commisurato con il ‘principio di precauzione’ (Unesco, 2005)” (B.3.7).

Questa osservazione si applica in particolare al fondo naturale di radioattività: quante volte abbiamo sentito improvvidi confronti tra dosi rilasciate da un impianto nucleare e la dose, più considerevole, associata al fondo naturale! Confronto del tutto improprio, come si vede, dal momento che le due dosi vanno invece sommate.

[…]

Vogliamo concludere il capitolo su una vicenda recente che, da una parte, mette in evidenza una situazione ancora più grave di quanto sin qui conosciuto in materia di effetti sanitari dei reattori, ma dall’altra mostra un comportamento istituzionale – quello della Germania – che andrebbe preso ad esempio.

Su richiesta di gruppi di cittadini preoccupati, l’Ufficio federale per la protezione dalle radiazioni commissiona nel 2003 all’Università di Mainz un’ampia ricerca per fare chiarezza sul sospetto di un elevato numero di casi di leucemie infantili in prossimità di centrali nucleari. I risultati della ricerca vengono resi pubblici nel 2008 e mettono in evidenza una significativa maggiore incidenza di tumori e di leucemie infantili: un incremento del 160% dei tumori embriogenetici e del 220% delle leucemie tra i bambini viventi entro cinque chilometri da tutte le centrali nucleari tedesche, incremento che diminuisce in correlazione con l’aumento della distanza dall’impianto.

A seguito del risultato della ricerca, l’Ufficio federale ha dichiarato: “Lo studio presente conferma che in Germania c’è una correlazione tra la distanza della casa dalla centrale nucleare più vicina al tempo della diagnosi e il rischio di sviluppare un cancro (leucemia in particolare) entro 5 anni dalla nascita”.

La vicenda mette in evidenza, come si è osservato, diversità di costumi nel rapporto tra cittadini e istituzioni (per l’Italia è un’abitudine, in campo nucleare: basterebbe ricordare le solenni dichiarazioni del governo Berlusconi sulla sicurezza di un deposito di scorie a Scanzano Ionico da insediare nelle rocce saline in quanto idrorepellenti, e ricordare i 600.000 m3 di acqua che piovvero addosso a coloro che realizzavano il deposito di Carlsbad (New Mexico): rocce saline, appunto).

La ricerca citata si impone all’attenzione innanzi tutto per la sua ampiezza: essa ha esaminato tutti i cancri comparsi in tutte le località nucleari tedesche tra il 1980 e il 2003. Si tratta dunque di una statistica adeguata, inoltre i risultati sono statisticamente significativi.

Si pose subito, tuttavia, l’interrogativo sul fatto che le dosi di radiazioni apprezzate – dovute alle emissioni (in ordine di grandezza) di trizio, carbonio 14, gas nobili – apparivano troppo piccole per giustificare, sulla base della correlazione dose/effetto oggi accettata in campo radioprotezionistico, effetti di cancerogenesi infantile così elevati. Si comprende dunque quanto rilevante fosse pervenire a una spiegazione.

La avanza ora Environmental Health (I. Fairlie: “Commentary: childhood cancer near nuclear power stations” – EH 2009, 8, 43) e può essere così sintetizzata: “Gli alti valori osservati di leucemie infantili possono rappresentare un effetto teratogeno derivante dai radionuclidi incorporati. Dosi derivanti dalle emissioni di radiazioni dai reattori su embrioni e feti nelle donne gravide possono risultare più elevate di quanto si supponesse: i tessuti ematopoietici si rivelano considerevolmente più radiosensibili negli embrioni e nei feti piuttosto che nei neonati”.

Seguono raccomandazioni per avvisare i residenti in loco e perché ulteriori ricerche siano dedicate a migliorare la nostra conoscenza del fenomeno.

Questi risultati non hanno bisogno di commenti. C’è solo da sperare che, una volta portati alla conoscenza di un più vasto pubblico, non si debba più sentire l’“esperto” di turno ripetere: ma che volete che debbano preoccuparsi le popolazioni: la dose che si prendono è minima!

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stralcio dal capitolo 4 pagina 129

[…] La questione “radiazioni” rappresenta, come abbiamo visto, un tale rischio sanitario da richiedere per questi impianti standard di qualità molto più esigenti e perciò controlli più restrittivi. Tutto ciò si traduce non solo in costi molto elevati, ma anche in procedure che allungano i tempi introducendo costi ulteriori. Ma su tutto questo le esperienze effettuate permettono ormai una “statistica” di previsione dei costi o, quantomeno, come vedremo nel prossimo capitolo, una stima definita del rischio di esposizione finanziaria. Ciò che invece resta ancora difficile da precisare è quanto incida sul costo del kWh la chiusura del ciclo del combustibile nucleare.

In realtà, è questo il punto più paradossale per effettuare valutazioni affidabili, poiché per le altre fonti energetiche utilizzate per la produzione di elettricità è possibile assegnare il relativo costo del kWh.

Ecco, ad esempio, le valutazioni proposte dal Cirps [...]: energia elettrica prodotta con carbone: 0,07 euro/kWh, se adottati i dispositivi di mitigazione del danno sanitario (non i dispositivi per la cattura della CO2, oggi non industrialmente maturi e affidabili); con olio combustibile: 0,05 euro/kWh; con gas naturale: 0,04 euro/kWh; con impianti miniidro: 0,04 euro/kWh, da fonte eolica: 0,03-0,05 euro/kWh.

Ma questa valutazione non è oggi possibile per l’energia elettrica prodotta dalla fonte nucleare.

[...]

Lo smaltimento delle scorie, ad esempio, come abbiamo visto al paragrafo 2.11.2, è tuttora materia di ricerca fondamentale: l’obiettivo finale è, come si è visto, quello dello stoccaggio in formazioni geologiche appropriate, caratterizzate da bassissima permeabilità e situate in zone geologicamente stabili. Per paradossale che possa apparire, a mezzo secolo dall’inizio di questa attività industriale e con oltre 400 centrali in funzione, non c’è un solo paese che abbia realizzato un sito per la sistemazione definitiva per le scorie di terza categoria. Due sono gli ordini di problemi: da una parte, come si è detto, l’individuazione di un sito appropriato e, dall’altra, gli enormi costi per la messa a punto del deposito e per il successivo stoccaggio dei rifiuti.

Con il fallimento della prospettiva di utilizzare le formazioni saline, sono ora in fase di studio vari tipi di formazioni geologiche, in particolare argillose, ma la stabilità geologica e le altre proprietà non sono state ancora dimostrate in modo adeguato, considerando i tempi necessari al decadimento dei rifiuti a vita lunghissima. “Una soluzione soddisfacente della gestione dei rifiuti radioattivi a lunghissima vita media – affermavano nel lontano 1976 gli scienziati del Laboratorio delle Radiazioni dell’Istituto superiore di sanità – sembra oggi richiedere progressi tecnico-scientifici di tale portata, da situarli su una scala di tempi non facilmente prevedibile”.

[…]

In ogni caso è l’amministratore delegato di Eni, Paolo Scaroni, a toglierci ogni dubbio su chi dovrà affrontare i costi del back end del nucleare ricordandoci che è impossibile nell’Occidente la costruzione di impianti nucleari senza prezzi minimi garantiti e senza mettere lo smantellamento delle centrali e la gestione delle scorie a carico dello Stato (B.4.5).

In conclusione, nella composizione del costo del kWh nucleare alcune componenti sono decisamente opache, altre neanche definibili (i costi della ricerca fondamentale ancora aperta): esso potrà anche risultare meno costoso, ma non c’è dubbio che si tratta di un prezzo politico dell’energia. In queste condizioni, è priva di significato ogni ulteriore analisi del costo del kWh nucleare.

Quanti tuttavia hanno avanzato proiezioni di costo del kWh nucleare (per esempio Eia/Doe: “Annual Energy Outlook 2004 and Projections to 2025”; MIT: “The future of nuclear power”, 2003; ed altri), che cercano di tener conto di elementi come il costo della gestione dei rifiuti radioattivi, pervengono comunque a stime dell’ordine dei 0,06-0,07 euro/kWh, da confrontare con i costi delle altre fonti, sopra esposti. Alla stessa stima – 0,08-0,11 dollari/kWh, tenendo conto del rapporto euro/dollaro – perviene un ampio studio più recente su tutto il nucleare; nella parte della valutazione economica da un lato si sottolinea come cruciale la questione dell’aleatorietà finanziaria e dall’altro si ricorda che la differenza tra prezzo e costo è tutta a carico del contribuente. (B.4.6).

Un indicatore significativo del “costo vero” del kWh nucleare si può trarre dal confronto delle vicende americana e francese. Come abbiamo visto le imprese elettriche americane abbandonano il nuovo nucleare nel 1978, mentre l’atomo cresce ancora in Francia per oltre un decennio, nello stretto intreccio tra force de frappe e nucleare civile.

[…] focalizzare la questione dei costi del nucleare sul costo del kWh è fuorviante, non sarà davvero la sua sbandierata e non dimostrata economicità a sostenere il rilancio del nucleare. Anzi, l’insistenza su questo tasto, non ingenua, sembra intesa a voler mettere in ombra il vero problema economico del nucleare: il finanziamento degli elevati capitali richiesti dagli investimenti e i tempi molto lunghi – oltre vent’anni – per il ritorno dei capitali investiti.

[...]

Ma quanto costa allora l’Epr-1600 che il governo italiano vorrebbe imporre, è il caso di dirlo (capitolo 6), nel nostro paese?

Dalla forcella iniziale – 2,8-3,4 milioni di euro – la sarabanda dei costi è levitata sopra i 4 milioni per megawatt. Ma anche questa, come tutte le cifre fornite dall’Enel, è al ribasso. La verità è apparsa senza veli nel luglio 2009, quando il governo canadese ha indetto una gara per nuove centrali nucleari. Areva offre il suo Epr a 7,4 milioni di dollari a megawatt, cioè circa cinque milioni di euro, al netto di eventuali sovra costi causati dall’allungamento dei tempi; il governo canadese rinuncia. Con l’occhio all’intesa Sarkozy-Berlusconi, quella cifra vuol dire che i quattro reattori dell’accordo (6.400 megawatt) verrebbero a costare a oggi oltre 32 miliardi di euro.

[...] ovunque il nucleare si può fare solo con gli incentivi dello Stato; e non solo nella Francia dove sia l’industria nucleare, Areva, che l’ente elettrico, EdF, sono direttamente proprietà dello Stato. Anche negli Stati Uniti, dove ricordavamo che il mercato dell’energia è libero, il nucleare fa eccezione, e per avere una qualche speranza deve ricorrere agli incentivi: quelli fissati da Bush nel 2005 – 1,8 centesimo di dollaro per kWh prodotto e finanziamenti agevolati per l’80% del capitale – e quelli di Obama del febbraio 2010 per altri 8,2 miliardi di dollari (capitolo 6).

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