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27 febbraio 2010

San Suu Kyi prigioniera: non parteciperà a elezioni
di Rachele Gonnelli

«L’appello è stato respinto». Tre parole uscite dalla bocca di un funzionario rimasto anonimo della Suprema corte birmana hanno messo fine al filo di speranza per la liberazione di Aung San Suu Kyi in tempo per partecipare alle prossime elezioni in Birmania. La donna, sessantaquattrenne, premio Nobel per la Pace, leader indiscussa dell’opposizione, ha passato gli ultimi vent’anni quasi ininterrottamente da detenuta politica. 

La bravata e il pretesto L’ultima condanna, inizialmente a tre anni di lavori forzati poi commutati in un prolungamento dei domiciliari, è scattata per aver «ospitato» illegalmente un pacifista americano che nell’agosto scorso si era intrufolato nella sua casa sul lago a Rangoon, un gesto individuale volto a forzare l’isolamento imposto dalle autorità che finora nessuna pressione internazionale è riuscita a modificare. L’azione di John William Yeattaw, mormone cinquantenne, veterano del Vietnam con il mito di Rambo, ha dato il pretesto al regime di condannare la donna ad un’ulteriore pena detentiva di 18 mesi, che scadranno soltanto il prossimo novembre. Quando le elezioni - momento-chiave per l’avvio di una morbida transizione verso un sistema più democratico - sono previste ad ottobre. Ieri il segretario generale dell’Onu Ban Ki Moon, che aveva chiesto ripetutamente una riconsiderazione del caso, si è detto «deluso». 

I legali di Aung si erano rivolti alla Corte costituzionale presentando una serie di argomentate eccezioni. Nel ricorso si faceva presente che la condanna si basa sulla Costituzione del 1974, sostituita da un nuovo testo due anni fa con tanto di referendum vinto con il 94% dei voti. L’Alta Corte non ha comunicato le ragioni del verdetto negativo, per altro largamente atteso. Semplicemente non ha voluto dare contro al ministro dell'Interno Maung Oo che, senza aspettare i giudici, già un mese fa aveva dichiarato il suo pollice verso. Piero Fassino, incaricato dell’Unione europea per la Birmania, invita però a non interpretare il rigetto del ricorso come il chiudersi definitivo di una porta, quella del dialogo, che negli ultimi mesi sembrava aver fatto balenare una luce nel lungo tunnel della dittatura. «È chiaro che la sentenza è un fatto negativo, è ingiustificabile sul piano giuridico - dice - ma non mi pare cambi significativamente lo scenario». «Si va per stop and go », sintetizza. Ma i segnali positivi - come le numerose visite autorizzate negli ultimi mesi nella casa di Aung ad ambasciatori occidentali e dirigenti del suo partito - sembrano ancora prevalenti. 

È pur vero che Aung San Suu Kyi non sarebbe candidabile. La Costituzione vieta infatti l’eleggibilità di cittadini sposati con stranieri. E lei è la vedova di un professore britannico di origine cubana, Michael Aris. Del resto non è questo il suo obiettivo. È che il suo partito - la National League of Democracy - non ha ancora deciso se partecipare o no al voto. Attende garanzie. «È una decisione difficile - commenta il portavoce Khin Maung Swe - senza il rilascio dei prigionieri

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