Il 16 marzo del 2003 Rachel Corrie muore a Rafah, schiacciata da un bulldozer israeliano, mentre tenta di impedire la demolizione di un’abitazione palestinese. Le sue lettere, indirizzate alla famiglia e pubblicate dopo la morte, raccontano una Gaza che non è diversa da quella odierna, in cui l’assedio israeliano continua e i raid si ripetono ciclicamente senza che le vittime facciano notizia. 


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16 marzo 2012  

 

Palestina. Rachel Corrie, 9 anni dopo
di Cecilia Dalla Negra

 

“Sono in Palestina da due settimane e un giorno, e ho ancora poche parole per descrivere ciò che vedo (…). Io non so se molti dei bambini qui abbiano mai vissuto senza i buchi di carri armati alle pareti, senza le torri di un esercito di occupazione che li sorveglia costantemente da un orizzonte vicino. Io penso, sebbene non sia del tutto sicura, che anche il più piccolo di questi bambini capisce che la vita non è così ovunque”. 

Rachel Corrie ha appena 23 anni quando la sua vita viene schiacciata da un bulldozer Caterpillar D9R dell’Esercito israeliano a Rafah, Striscia di Gaza, il 16 marzo del 2003.

Sulla collina di detriti che le ruspe hanno formato nei terreni che circondano l’abitazione del medico Samir Masri, Rachel sta dritta in piedi con un megafono, e indossa un giubbino arancione ben noto alle forze di occupazione israeliana. 

Lo portano gli attivisti internazionali presenti in Palestina con l’International Solidarity Movement (ISM) durante gli anni duri della seconda Intifada, per farsi riconoscere bene. Perché non si possa colpirli senza sapere che si tratta di cittadini stranieri, provenienti da diversi paesi del mondo, accomunati dall’obiettivo di impedire violenze e soprusi contro la popolazione civile interponendo il proprio corpo ai mezzi militari. 

Una lotta nonviolenta che anche Rachel Corrie ha deciso di intraprendere, partendo da una cittadina di periferia degli Stati Uniti, Olympia, per arrivare direttamente a Rafah poco più che ventenne. 

Sta dritta in piedi sul cumulo di macerie, sterpaglie e detriti, per impedire che la casa del dottor Masri e della sua famiglia venga demolita dalle ruspe israeliane. È diventata un volto amico, nei mesi precedenti, ed è sempre rimasta accanto a loro durante gli attacchi ripetuti dell’esercito israeliano, che apre il fuoco contro qualunque cosa si muova nella convinzione che all’interno dell’abitazione siano ospitati membri della resistenza armata palestinese.

La casa della famiglia Masri deve essere distrutta: costruita nella zona “cuscinetto” proprio al confine tra Rafah e l’Egitto, è divenuta uno scomodo ingombro alla bonifica necessaria per le esigenze militari. 

Sta dritta in piedi Rachel, e con il megafono spiega ai soldati di essere un’attivista internazionale, disarmata, e che da lì non ha intenzione di spostarsi.

Chi si trova alla guida del bulldozer non può che averla vista, perché le regole, nell’Ism, sono chiare: rendersi riconoscibili sempre. Gli attivisti che ne fanno parte non sono sprovveduti: conoscono bene i rischi che corrono ma non giocano a fare gli eroi. Le misure di sicurezza dello stesso esercito parlano chiaro: dicono che la ruspa dovrebbe mantenere una distanza di 10 metri da Rachel, proprio per evitare di farle del male.

Ma gli ordini, quel giorno, sono chiari. Andare avanti. 

È così che Rachel Corrie a 23 anni diventa un altro volto sui muri di Gaza, un altro manifesto affisso a memoria dei martiri, come vengono chiamate tutte le vittime dell’occupazione israeliana. 

Viene travolta dal bulldozer davanti agli occhi dei suoi compagni: la lama della ruspa la colpisce, la getta a terra, quindi il mezzo le passa sopra, schiacciandola. La corsa in ospedale non serve: quando arriva è già morta.

Poche settimane dopo, l’11 aprile 2003, durante un attacco armato dell’esercito israeliano a Rafah un cecchino colpisce alla testa Tom Hurndall, attivista britannico dell’Ism, mentre sta cercando di mettere in salvo un bambino inciampato che fugge tra i proiettili. Anche Tom, dopo 9 mesi di coma, morirà all’età di 21 anni. 

Dopo 16 mesi e 15 udienze, a luglio del 2011 si è conclusa ad Haifa la prima sessione del processo per la morte di Rachel. Sono stati i genitori, Cindy e Craig Corrie, a depositare una denuncia per omicidio nei confronti dello Stato di Israele e del Ministero della Difesa, e ci sono voluti 5 anni solo perché il processo prendesse avvio.

Gli Stati Uniti, rassicurati attraverso l’allora presidente George W. Bush, si sono affidati all’inchiesta indipendente israeliana, senza chiedere giustizia per l’uccisione di una cittadina americana, innocente e disarmata, ad opera delle forze armate israeliane. 

“Gaza nel 2003 era una zona di guerra” e il comportamento degli attivisti internazionali è stato “irresponsabile”.

Questa la linea di difesa israeliana che, nelle parole del colonnello Pinhas Zuaretz, comandante della Divisione Brigata Sud presente a Gaza nel 2003, spiega: “Gli attivisti non dovevano trovarsi lì”, e se c’erano “aiutavano i terroristi”.

La sentenza definitiva è attesa per aprile 2012, ma non sono molte le speranze di riuscire a dimostrare che la morte di Rachel non è stato un incidente, ma la chiara volontà di dare una lezione agli attivisti internazionali, scoraggiandone la presenza sul territorio palestinese. 

È così, con la morte di Rachel e Tom, che la Striscia di Gaza e i continui attacchi cui è sottoposta la popolazione civile fanno notizia in quella primavera del 2003. È così che le lettere di Rachel alla famiglia vengono pubblicate sui quotidiani internazionali, e sull’assedio di Gaza si accende una luce.

Eppure, quello che scrive nel 2003 non è diverso dalle parole di Vittorio Arrigoni, 8 anni più tardi, né di quelle che arrivano oggi da chi continua a difendere la popolazione civile con la propria presenza nella Striscia di Gaza.

Quando Rachel Corrie e Tom Hurndall muoiono a Gaza, in tutta la Palestina è scoppiata l’Intifada al-Aqsa, e Israele risponde con il pugno duro. Oggi non c’è un’Intifada in corso, ma le bombe di Israele continuano a cadere: 26 le vittime dell’ultimo raid,  nel silenzio generale dell’informazione italiana. 

“Sento altre forti esplosioni fuori, lontane, da qualche parte. Quando tornerò dalla Palestina, probabilmente soffrirò di incubi e mi sentirò in colpa per il fatto di non essere qui, ma posso incanalare tutto questo in altro lavoro. Venire qui è stata una delle cose migliori che io abbia mai fatto. E quindi, se sembro impazzita, o se l’esercito israeliano dovesse porre fine alla sua tradizione razzista di non far male ai bianchi, attribuite il motivo semplicemente al fatto che io mi trovo in mezzo a un genocidio che io anch’io sostengo in maniera indiretta, e del quale il mio governo è in larga misura responsabile”. (Rachel Corrie, 28 febbraio 2003).