Originale: Haaretz
http://znetitaly.altervista.org
20 novembre 2012

Il diritto di Israele all’”autodifesa”: una spettacolare vittoria propagandistica
di Amira Hass
traduzione di Giuseppe Volpe

Una delle straordinarie vittorie della propaganda israeliana è che il paese è stato accettato come vittima dei palestinesi, sia agli occhi del pubblico israeliano sia a quelli dei leader dell’occidente che si precipitano a parlare del diritto di Israele a difendersi. La propaganda è così efficace che, nelle tornate di ostilità, sono contati solo i missili palestinesi contro il sud di Israele, e ora su Tel Aviv. I missili, o i danni alla santità maggiore di tutte – una jeep dell’esercito – sono sempre considerati il punto di partenza e, assieme alla terrificante sirena, come se fossero tratti da qualche film sulla seconda guerra mondiale, costruiscono la meta-narrativa della vittima legittimata a difendersi.  

Ogni giorno, in realtà ogni istante, questa meta-narrativa consente a Israele di aggiungere un altro anello alla catena di espropriazioni di una nazione vecchia come lo stato stesso, riuscendo contemporaneamente a celare il fatto che un filo continuo lega il rifiuto del 1948 di consentire ai palestinesi di ritornare nelle loro case, l’espulsione, nei primi anni ’50, dei beduini dal deserto del Negev, l’attuale espulsione dei beduini dalla Valle del Giordano, le fattorie per gli ebrei nel Negev, la discriminazione nei bilanci israeliani e gli attacchi a colpi d’arma da fuoco dei pescatori di Gaza per impedire loro di guadagnarsi una vita rispettabile. Milioni di tali fili continui collegano il 1948 al presente. Sono il tessuto della vita per la nazione palestinese, per quanto diviso possa essere in sacche isolate. Sono il tessuto della vita dei cittadini palestinesi di Israele e di quelli che vivono nelle loro terre d’esilio.  

Ma questi fili non sono l’intero tessuto della vita. Anche la resistenza ai fili che noi israeliani tessiamo incessantemente fa parte del tessuto della vita dei palestinesi. Il termine ‘resistenza’ è stato svilito a significare la stessa maschia concorrenza riguardo a chi apparterrà il missile che esploderà più lontano (una concorrenza tra organizzazioni palestinesi e tra esse e l’esercito israeliano costituito). Ciò non invalida il fatto che, in essenza, la resistenza all’ingiustizia intrinseca nel dominio israeliano è una parte inseparabile della vita di tutti i palestinesi.

I ministeri stranieri e quelli occidentali dello sviluppo internazionale in occidente e negli Stati Uniti collaborano consapevolmente alla rappresentazione mendace di Israele come vittima, se non altro perché ricevono ogni settimana rapporti dai loro rappresentanti nella West Bank e nella Striscia di Gaza su un altro anello di espropriazione e oppressione che Israele ha aggiunto alla catena, o perché il denaro dei loro contribuenti compensa parte dei disastri umanitari, grandi e piccoli, inflitti da Israele.

L’8 novembre, due giorni prima dell’attacco ai santi tra i santi – soldati in una jeep dell’esercito – potrebbero aver letto dei soldati dell’esercito israeliano che avevano ucciso il tredicenne Ahmad Abu Daqqa, che stava giocando a pallone con gli amici nel villaggio di Abassan, a est di Khan Yunis. I soldati erano a un chilometro e mezzo dai bambini, all’interno della Striscia di Gaza, impegnati a “esporre” (una riverniciatura terminologica del verbo ‘distruggere’) terra agricola. Dunque perché il conto dell’aggressione non dovrebbe cominciare con un bambino? Il 10 novembre dopo l’attacco alla jeep, l’esercito israeliano ha ucciso altri quattro civili, tra i 16 e i 19 anni di età.

Crogiolandosi nell’ignoranza

I leader dell’occidente avrebbero potuto sapere, prima delle esercitazioni dell’esercito israeliano la settimana scorsa nella Valle del Giordano, che a dozzine di famiglie beduine era detto di evacuare le loro case.  Com’è straordinario che l’addestramento dell’esercito israeliano abbia sempre luogo dove vivono i beduini, non i coloni israeliani, e che rappresenti un motivo per espellerli. Un altro motivo. Un’altra espulsione. I leader dell’occidente avrebbero anche potuto sapere, dai rapporti in quadricromia su carta lucida che i loro paesi finanziano, che dall’inizio del 2012 Israele ha distrutto 569 edifici e strutture palestinesi, tra cui pozzi e 178 edifici residenziali. In tutto, da tali demolizioni sono state colpite 1.014 persone.

Non abbiamo sentito masse di residenti a Tel Aviv e nel sud ammonire gli amministratori dello stato sulle ramificazioni di questa distruzione presso la popolazione civile. Gli israeliani si crogiolano allegramente nella propria ignoranza. Queste informazioni e altri fatti simili sono disponibili e accessibili a chiunque sia davvero interessato. Ma gli israeliani scelgono di non sapere. Questa ignoranza voluta è una pietra angolare dell’edificio del senso di vittimismo di Israele. Ma l’ignoranza è ignoranza. Il fatto che gli israeliani non vogliano conoscere ciò che stanno facendo come potenza occupante non cancella i loro atti né la resistenza palestinese.

Nel 1993 i palestinesi fecero un dono a Israele, un’occasione d’oro per tagliare i fili che legano il 1948 al presente, per abbandonare le caratteristiche di espropriatore coloniale del paese, e di pianificare insieme un futuro diverso per i due popoli nella regione. La generazione palestinese che accettò gli Accordi di Oslo (pieni di trappole predisposte da astuti avvocati israeliani) è la generazione che era arrivata a conoscere una società israeliana dai molti volti, addirittura normale, perché l’occupazione del 1967 le aveva consentito (a fini di ottenere manodopera a basso costo) una libertà di movimento quasi completa. I palestinesi accettarono una soluzione basata su loro richieste minime. Uno dei pilastri di tali minime richieste era di trattare la Striscia di Gaza e la West Bank come un’unica entità territoriale.

Ma una volta avviata l’attuazione degli Accordi di Oslo, Israele fece sistematicamente tutto quel che poteva per rendere la Striscia di Gaza un’entità separata, scollegata, come parte dell’insistenza Israeliana a mantenere i fili del 1948 e a estenderli. Dall’ascesa di Hamas ha fatto di tutto per appoggiare l’impressione che Hamas preferisce, che la Striscia di Gaza sia un’entità politica separata dove non c’è occupazione. Se le cose stanno così, perché non vedere le cose in questo modo: come entità politica separata, ogni incursione nel territorio di Gaza è una violazione della sua sovranità, e Israele lo fa in continuazione. Il governo dello stato di Gaza non ha il diritto di reagire, di scoraggiare, o almeno il diritto maschio – gemello del diritto maschio dell’esercito israeliano – di spaventare gli israeliani proprio come Israele spaventa i palestinesi?

Ma Gaza non è uno stato. Gaza è sotto occupazione israeliana, nonostante tutte le acrobazie verbali sia di Hamas sia di Israele. I palestinesi che vivono là fanno parte di un popolo nel cui DNA vi è la resistenza all’oppressione.

Nella West Bank, gli attivisti palestinesi cercano di sviluppare un genere di resistenza diverso dalla resistenza maschia, armata. Ma l’esercito israeliano schiaccia tutta la resistenza popolare con zelo e determinazione. Non abbiamo sentito i residenti di Tel Aviv e del sud lamentarsi a proposito dell’equilibrio della deterrenza che l’esercito israeliano sta costruendo contro la popolazione civile palestinese.

E così Israele dà motivi ai palestinesi più giovani, per i quali Israele è una società anomala di soldati e coloni, di concludere che l’unica resistenza razionale consiste nel versare sangue e nel rispondere al terrore con il terrore. E così ogni anello israeliano di oppressione e ogni disprezzo israeliano riguardo all’esistenza dell’oppressione ci trascina ancor più giù per la china della competizione maschia.


Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

www.znetitaly.org

Fonte: http://www.zcommunications.org/israels-right-to-self-defense-a-tremendous-propaganda-victory-by-amira-hass

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