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4 ottobre 2012

Gli ebrei arabi profughi, pedine di Israele
di Jonathan Cook
traduzione di Giuseppe Volpe

All’ombra della teatralità del primo ministro Benjamin Netanyahu alle Nazioni Unite la settimana scorsa, armato della sua bomba iraniana fumetto, i dirigenti israeliani hanno lanciato un’iniziativa più silenziosa, ma ugualmente combattiva, per cancellare qualsiasi speranza sia sopravvissuta di resuscitare il processo di pace.

Per la prima volta nella sua storia, Israele sta cercando di mettere sullo stesso piano i milioni di palestinesi nei campi profughi del Medio Oriente con milioni di cittadini israeliani discendenti di ebrei che, prima della creazione di Israele nel 1948, vivevano in paesi arabi.

Secondo il viceministro degli esteri, Danny Ayalon, i cui genitori provenivano in origine dall’Iraq, e che diretto la campagna governativa, quasi un milione di ebrei fuggì da paesi come l’Iraq, l’Egitto, il Marocco e lo Yemen. Questa cifra è superiore al numero generalmente accettato di 750.000 profughi palestinesi causati dalla guerra del 1948.

L’obiettivo di Israele è trasparente: spesa che la comunità internazionale possa essere convinta che la sofferenza dei profughi palestinesi è efficacemente cancellata dalle esperienze dei “profughi ebrei”. Se nulla si è potuto fare per gli ebrei arabi dopo tutti quegli anni, allora nemmeno i palestinesi dovrebbero attendersi alcun risarcimento.

Nelle ultimissime settimane quello è stato il messaggio implicito della campagna sui media sociali chiamata “Io sono un profugo”, che comprende video YouTube in cui ebrei raccontano che erano terrorizzati quando vivevano negli stati arabi dopo il 1948. Ayalon ha persino annunciato piani per una nuova giornata nazionale della memoria, la Giornata del Profugo Ebreo.

In questo mese il ministero degli esteri israeliano e organizzazioni ebraiche statunitensi hanno lanciato formalmente l’iniziativa, inscenando un congresso a New York pochi giorni prima della sessione d’apertura dell’Assemblea Generale.

La scelta israeliana dell’arena – l’ONU – non è casuale. La campagna è principalmente mirata a reprimere la mossa annunciata dal presidente palestinese Mahmoud Abbas, nel suo discorso all’Assemblea Generale la settimana scorsa, di cominciare a perseguire uno status della Palestina presso l’ONU come stato non membro.

Dopo che l’opposizione degli Stati Uniti ha costretto i palestinesi ad abortire la loro richiesta del riconoscimento dell’esistenza come stato al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, ci si attende che Abbas ritardi la presentazione della sua nuova richiesta fino a novembre, dopo la campagna presidenziale statunitense, per evitare di imbarazzare il presidente Barack Obama. La mossa di Abbas ha spinto Israele ad assumere l’offensiva.

Chiunque dubiti che l’interesse del governo israeliano per gli ebrei arabi non sia interamente cinico deve solo risalire alla provenienza della campagna. E’ stata presa in considerazione per la prima volta nel 2009, quando Netanyahu è stato costretto – sotto la pressione di Obama – a tenere un discorso a favore dello stato palestinese.

Immediatamente dopo, Netanyahu ha chiesto al Consiglio di Sicurezza dell’ONU (NSC), il cui ruolo comprende la valutazione delle minacce strategiche poste dai palestinesi, di entrare nel merito il sostegno al caso degli ebrei arabi nelle sedi internazionali.

Il parere del NSC è che gli ebrei arabi, noti in Israele come Mizrahim e comprendenti a limitata maggioranza della popolazione ebrea complessiva, dovrebbe essere resi un tema centrale del processo di pace. Come Israele sa, ciò crea un ostacolo permanente a un accordo.

Il NSC ha avanzato richieste impossibili: pentimento di tutti gli stati arabi prima che possa essere raggiunto un accordo di pace con i palestinesi; sganciamento della condizione di profugo dal diritto al ritorno; e diritto degli ebrei arabi a una contropartita maggiore di quella dei profughi palestinesi, in ragione della loro superiore ricchezza.

Israele sta lavorando anche su altri fronti per minare la causa dei profughi palestinesi. I suoi lobbisti statunitensi stanno pretendendo che l’UNRWA, l’agenzia dell’ONU per i rifugiati, sia smantellata. Stanno montando nel Congresso USA pressioni di entrambi i partiti per considerare profughi solo i palestinesi personalmente sfollati dalle loro case nel 1948, spogliando milioni di loro discendenti del loro status. Mentre un’altra mossa legislativa – apparentemente contraddittoria – insisterebbe che agli ebrei arabi fosse garantito lo stesso status di profughi riconosciuto ai palestinesi.

I palestinesi si oppongono con forza a qualsiasi collegamento tra gli ebrei arabi e i profughi palestinesi. Il motivo non meno importante, sostengono, è che non possono essere ritenuti responsabili di ciò che è accaduto in altri paesi. La giustizia per i profughi palestinesi è del tutto separata dalla giustizia per gli ebrei arabi. Inoltre molti, se non la maggioranza, degli ebrei arabi lasciarono i loro paesi volontariamente, diversamente dai palestinesi, per iniziare una nuova vita in Israele.  Persino dove le tensioni hanno costretto gli ebrei a fuggire, come in Iraq, è difficile sapere chi sia stato sempre dietro il conflitto etnico. Ci sono forti prove che l’agenzia di spionaggio israeliana, il Mossad, abbia inscenato operazioni sotto falsa bandiera negli stati arabi per alimentare la paura e l’ostilità necessarie per spingere in Israele gli ebrei arabi.

Analogamente, la pretesa di Israele di aver diritto a rappresentare collettivamente gli ebrei arabi e di avanzare una richiesta di risarcimento per conto loro ignora la realtà che Israele è stato lautamente risarcito per l’assorbimento degli ebrei, sia attraverso le massicce riparazioni postbelliche di paesi come la Germania, sia mediante i miliardi di dollari di sovvenzioni annue dagli Stati Uniti.

Ma c’è un motivo più forte per essere scettici a proposito di questa campagna. Classificare gli ebrei arabi come “profughi” trafigge la giustificazione centrale usata dai sionisti per la creazione di Israele: che esso è la patria naturale di tutti gli ebrei e l’unico luogo in cui possono essere al sicuro. Come ha osservato un tempo un ex parlamentare israeliano, Ran Hacohen: “Sono venuto su ordine del sionismo, per l’attrazione che questa terra esercita e per l’idea del riscatto. Nessuno mi definirà un profugo.”

Il governo Netanyahu sta sostenendo una tesi profondamente antisionista, che è stato costretto ad adottare per la sua stessa intransigenza nel processo di pace.

Il suo rifiuto di consentire un piccolo stato palestinese entro i confini del 1967 si traduce nel fatto che la comunità globale si sente costretta a riconsiderare gli eventi del 1948. Per la maggior parte degli ebrei arabi quel periodo è ora un capitolo chiuso. Per la maggior parte dei profughi palestinesi è ancora una ferita aperta.


Jonathan Cook ha vinto il premio speciale Martha Gellhorn 2011 per il giornalismo. I suoi libri più recenti sono “Israel and the Clash of Civilisations: Iraq, Iran and the Plan to Remake the Middle East (Pluto Presso) [Israele e lo scontro di civiltà: Iraq, Iran e il piano per rifare il Medio Oriente” e “Disappearing Palestine: Israel’s Experiments in Human Despair” (Zed Books) [La scomparsa della Palestina: esperimenti israeliani di umana disperazione]. Il suo sito web è: www.jkcook.net.

Una versione di questo articolo è apparsa in origine su The National, Abu Dhabi

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

www.znetitaly.org

Fonte: http://www.zcommunications.org/israel-s-refugee-pawns-by-jonathan-cook

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