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24 maggio 2012

Israele. Vuoti di memoria collettivi: notte di pogrom contro la comunità africana
di Cecilia Dalla Negra

 Minacce di “deportazione” contro gli “infiltrati”, aggressioni, negozi dati alle fiamme: è una notte di pogrom nel quartiere di Hatikva, periferia di Tel Aviv. La violenza arriva dalla destra israeliana, e si rivolge contro la comunità africana. Episodi che si ripetono da settimane, come diretta conseguenza delle politiche del governo Nethanyahu contro i migranti. E di un vuoto di memoria collettivo. 

Non è stata la prima volta, probabilmente non sarà neanche l’ultima. Già il 26 aprile scorso la comunità migrante sudafricana a Tel Aviv, composta per la maggior parte da rifugiati e richiedenti asilo, aveva subito gravi attacchi: al termine delle celebrazioni per lo Yom Haatzmaut (la Giornata dell’Indipendenza israeliana) 5 bottiglie molotov erano state lanciate da “ignoti” contro le abitazioni di africani nei quartieri poveri di Tel Aviv. 

Nella notte tra il 23 e il 24 maggio è accaduto di nuovo, questa volta con una manifestazione organizzata e composta da un migliaio di persone, che ha visto la presenza di una delegazione di membri della Knesset, il parlamento israeliano.

Tutti esponenti del Likud, il partito nazionalista liberale guidato dal primo ministro Benjamin Nethanyahu, che per la destra di base, evidentemente, non è abbastanza a destra, nonostante le politiche aggressive nei confronti degli stranieri messe in atto dal governo. 

Una folla violenta ha invaso nella notte il quartiere di Hatikva, periferia di Tel Aviv, dove risiede la gran parte dei migranti africani arrivati in Israele in cerca di rifugio da Eritrea, Sud Africa o Darfour: i manifestanti hanno dato alle fiamme negozi, cassonetti, vetrine.

Automobili e taxi sono stati ripetutamente fermati da dimostranti che, picchiando sui finestrini o distruggendoli, erano in cerca di autisti e passeggeri africani.

Slogan razzisti sono stati urlati a gran voce per ore: “Vogliamo la deportazione dei sudanesi” e “infiltrati fuori da casa nostra”, in quella che è stata una vera e propria “caccia allo straniero”, sostenuta e supportata da membri del Parlamento. 

Tra loro, come riportato da testimoni attraverso i social network e dal quotidiano israeliano Ha’aretz, anche Miri Regev (Likud) che, rivolgendosi alle masse, ha definito i sudanesi “un cancro nel nostro corpo”, promettendo ai presenti: “Li rimanderemo tutti indietro”.

Tra i politici presenti anche Danny Danon (Likud), tra i parlamentari più attivi nella lotta contro i migranti, autore di un piano di espulsione che riguarderebbe circa l’80% dei rifugiati africani presenti nel paese, che nel rivolgersi ai manifestanti ha suggerito una sola soluzione possibile: “Dobbiamo iniziare a parlare di espulsione: non dobbiamo avere paura di pronunciare questa parola”. 

Si affrettano ad assicurare che non si tratta di razzismo: ma sono parole, intenzioni e azioni difficilmente definibili altrimenti, capaci di rimandare a una memoria storica collettiva non troppo distante nel tempo. Quello della notte scorsa, nel quartiere di Hatikva, è stato un Pogrom diretto, organizzato e attuato dalla destra estremista contro la popolazione migrante. 

E d’altra parte solo pochi giorni fa Nethanyahu, parlando del “problema” dei rifugiati, aveva definito l’immigrazione una “minaccia allo stato israeliano e alla sua identità ebraica”, solo l’ultima di tante esternazioni “non razziste” che hanno caratterizzato il suo mandato elettorale. 

Del marzo scorso l’annuncio di un progetto per la costruzione del più grande centro di detenzione per migranti nel deserto del Negev – per “porre fine alla piaga dell’immigrazione” – mentre è stata avviata recentemente la costruzione di un nuovo muro: 250 km al confine con l’Egitto, per evitare il passaggio dei “clandestini” provenienti dall’Africa e diretti in Israele. 

Una violenza – tanto governativa che popolare – capace di toccare apici di aggressione già da tempo: nel gennaio 2011 era stato interessato il quartiere periferico di Shapira, luogo disagiato dove le comunità migranti (mal)convivono con il sottoproletariato urbano israeliano, teatro di aggressioni e violenze ripetute. 

Ma nel corso del 2011 sono state tante anche le manifestazioni di violenza razziale e politica organizzate dalla destra israeliana, tra cui la pubblicazione, da parte di un gruppo di rabbini, dell’appello ai cittadini perché non affittassero le loro proprietà agli “infiltrati” stranieri. 

Oggi, secondo quanto riportato da Ha’aretz, il governo sarebbe sul punto di approvare un piano di deportazione di massa dei rifugiati, per rimpatriarli forzatamente in Sud Africa. 

Azioni che si collocano in perfetta armonia  - e sono diretta conseguenza - di una politica governativa ormai sempre più ghettizzante, discriminatoria e disumanizzante nei confronti dei non-ebrei presenti nel paese: palestinesi, arabi israeliani o sudafricani che siano

Capaci, tutti, di rappresentare un “serio rischio” al quell’equilibrio demografico tanto ricercato, e sempre più difficile da mantenere, che vorrebbe il paese decisamente ebraico, israeliano e, possibilmente, bianco. Ma democratico. 

 “A volte” – scrive un attivista israeliano su Twitter – “le nazioni sono affette da collettivi vuoti di memoria”. Come quando esseri umani diventano “infiltrati”, intere comunità sono “da deportare” e quartieri cittadini vengono investiti dalla violenza.

Quando la storia si ripete, ma dimostra che nemmeno le vittime sanno esserne degni alunni. 

 

Le foto dell’aggressione della notte scorsa sono visibili sul sito di Activestill, un video su quello di Free Palestine

 

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