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sabato 7 luglio 2012 11:29

In manette bambina israeliana. Crimine: è figlia di immigrati
di Roberto Prinzi



A.J., 6 anni, arrestata a Tel Aviv. Di cittadinanza israeliana, è figlia di filippini. Oltre 400 i minori che per le nuove politiche etniche israeliane devono lasciare il Paese.

Tel Aviv, 07 luglio 2012, Nena News - Domenica Israele ha arrestato una minorenne. Drammatica notizia, si potrebbe pensare, ma niente di straordinario in Palestina: sono allarmanti i dati di minorenni palestinesi incarcerati nelle prigioni israeliane. 

Ma questa volta, per la prima volta e perciò ancora più drammaticamente, dietro le sbarre non vi è un giovanissimo palestinese ma una bambina nata e cresciuta in Israele, di madre lingua ebraica e che studia nel sistema educativo israeliano. A. J. Mathias ha sei anni ed è figlia di genitori provenienti dalle Filippine. Una settimana fa ha terminato l'asilo e tra due mesi deve iniziare la prima elementare.

La madre Annalyn è emigrata in Israele per lavorare ma, come spesso capita a molti qui, il suo visto per lavoro non è più valido e per cui da "lavoratrice regolare" è diventata per il Ministero dell'Interno "illegale". Domenica è stata arrestata con la figlia e detenuta nell'aeroporto Ben Gurion pronta per essere espulsa dal paese. L'impaurita A. J. ha raccontato la sua giornata da incubo all'organizzazione Israeli Children: «Ho pianto io per prima, poi mamma. Abbiamo visto la televisione, non c'è altro da fare. La cella aveva quattro letti, qui dormivo io con mamma, qui una donna dell'Africa con il suo bambino piccolo e sopra c'era qualcun'altra ma non so chi sia». 

Una storia assurda che punisce una "israeliana a tutti gli effetti", la cui "colpa" è quella di essere figlia di un'immigrata "irregolare". Nel ricorso presentato al tribunale di Petach Tikva lunedì, Annalyn ha ottenuto una parziale vittoria: la donna con la figlia sono libere su cauzione di 30.000 shekel (6.000 euro circa) e hanno venti giorni per lasciare lo "stato ebraico". Ieri l'organizzazione Israeli Children e alcune centinaia di manifestanti, principalmente lavoratori immigrati con i loro figli, hanno manifestato a Tel Aviv nei pressi della residenza del Ministro dell'Educazione Gide'on Sa'ar. Questi è accusato dai manifestanti di essere complice della decisione di espulsione di 400 bambini nati, cresciuti e che studiano in Israele decretata dal Ministro degli Interni Eli Yishai. 

Tra gli slogan si poteva leggere «Gide'on Sa'ar, anche questi bambini sono i tuoi studenti», «Non ci sono bambini illegali!», «Sa'ar, Sa'ar vergognati, come si può arrestare una bambina di sei anni?». Un'altra triste storia che ripropone un quesito dalla risposta, dopo sessantaquattro anni, ancora nebulosa: chi è "israeliano" in uno "stato ebraico" per Tel Aviv? 



Gli affari dell'immigrazione. Nel corso degli anni Israele ha fatto ricorso al lavoro dei palestinesi dei Territori Occupati pagandoli a prezzi più bassi rispetto a quanto avrebbe pagato un israeliano impiegato nelle medesime occupazioni. 

Negli anni '90, in seguito alla Prima Intifada, la chiusura della Striscia di Gaza e della Cisgiordania ha diminuito l'ingresso di lavoratori palestinesi in Israele. Per ovviare alla diminuzione di mano d'opera a basso costo, Tel Aviv ha pensato bene di riempire il "vuoto" che si era venuto a creare importando lavoratori dai paesi in via di sviluppo. Il loro impiego è principalmente nell'edilizia, nell'agricoltura, nella ristorazione e nell'assistenza. Questi lavoratori stranieri sono "arruolati" ed "importati" in Israele tramite società private di manodopera il cui unico scopo è il profitto economico. 

Secondo le norme in vigore, si può guadagnare per ogni lavoratore immigrato 3.400 shekel (quasi 700 euro). Di fatto, però, testimonianze e finanche i report del Controllore di Stato hanno denunciato che spesso il guadagno per la "mediazione" va dai 9.000$ ai 30.000$ per ogni lavoratore "importato". Per cui l'interesse delle società private di manodopera è chiaro: portare quanti più immigrati in Israele e ricambiare i "vecchi lavoratori" (da cui già hanno ottenuto i soldi della "mediazione") con dei "nuovi". Questa politica è nota come "Politica della porta girevole".

Secondo il rapporto del Centro di Assistenza per lavoratori stranieri, Eli Yishai è il Ministro degli Interni che ha concesso il maggior numero di visti per lavoro a stranieri affinché potessero entrare nel paese. Lo stesso Eli Yishai che ora vuole espellere 400 bambini figli di lavoratori immigrati.



Il visto di lavoro. La maggior parte dei lavoratori stranieri sono badanti. Per costoro i visti di lavoro possono allungarsi per molti anni fintanto che il datore di lavoro è vivo. Il problema è che perdere il visto di lavoro è molto semplice per cui sono tanti quelli che si trovano già in Israele ma che sono diventati disoccupati.

Prendiamo il caso dei badanti, ad esempio. Quando gli anziani che assistono muoiono, i lavoratori stranieri hanno 90 giorni per trovare un nuovo impiego. Ma a questo punto le società private non hanno alcun interesse ad aiutarli nella ricerca di un nuovo lavoro dal momento che questi lavoratori hanno già pagato il prezzo di "mediazione". Perciò, essendo disoccupati, diventano dall'oggi al domani "illegali". E "illegali" diventano a loro volta anche i loro figli nati e cresciuti in Israele. Su 70.000 colf sono nati circa 2.000 bambini. Questo basso numero si spiega con il fatto che la maggior parte delle donne è venuta in Israele solo per lavorare, guadagnare e tornare al loro paese.

I genitori dei bambini perdono il visto di lavoro anche quando le lavoratrici immigrate sono incinte. Il Ministero degli Interni regola questo caso con una norma chiamata "Procedura di lavoratrice straniera incinta". La seguente disposizione fa sì che molti bambini con le loro madri diventino "illegali". Dal momento in cui un bambino nasce, la madre e suo figlio non hanno uno status legale per Israele. Nell'Aprile 2011 la Corte Suprema israeliana ha stabilito che la procedura è «illegale perché lede i diritti delle madri e della famiglie».



Illegalità retroattiva. Nel corso degli anni Israele ha però seguito una politica non scritta per la quale non venivano cacciati i figli dei lavoratori immigrati e veniva concesso loro di restare con la madre (per oltre venti anni, fino al 2009, veniva espulsa la maggior parte dei padri così da incentivare l'abbandono del paese anche da parte della donna).

«Circa 1.200 bambini nati e cresciuti in Israele sono ora parte di questa società. Cacciarli è una punizione retroattiva derivante da una condizione che lo Stato ha creato con le sue mani» denuncia l'organizzazione Israeli Children. «L'unica soluzione sarebbe quella di affidarsi ad una organizzazione internazionale d'immigrazione, così come avviene in molti paesi e non a società private di manodopera. Bisogna stabilire una politica d'immigrazione che tenga in conto il bene dello Stato, i lavoratori israeliani e stranieri. Bisogna, insomma, stabilire una volta e per sempre una politica chiara e umana per tutto ciò che concerne gli immigrati per lavoro».

In effetti Israele non ha una vera e propria politica di immigrazione, ma si basa su procedure e norme interne del Ministero degli Interni. Nel 2009 l'Autorità per l'Immigrazione (nata proprio quell'anno) ha reso noto per la prima volta la volontà di espellere i bambini e le madri. Il pericolo di espulsione si è materializzato per quasi 1.200 bambini. Proprio per difendere i bambini e le madri dall'espulsione veniva formata l'organizzazione Israeli Children. 



Criteri per lo status legale. Nel mese di Agosto 2010 il governo ha stabilito i criteri per i quali è possibile concedere status legale ai bambini e alle famiglie: a) Il bambino è in Israele da 5 anni consecutivi, se non è nato qui deve essere entrato nel paese prima di aver compiuto 13 anni. b) I genitori del bambino sono entrati in Israele regolarmente. c) I bambini sono stati iscritti nel sistema pubblico nell'anno accademico 2009-2010. d) Il bambino è iscritto alla prima elementare (almeno) o ha finito la classe dodicesima nel 2010. e) Il bambino parla ebraico. Su 701 domande presentate, il Ministero degli Interni informava (Gennaio 2012) che solo una piccola parte di famiglie (quasi 240) sarebbe potuta rimanere, mentre le altre sarebbero state espulse.



«Sono esseri umani non oggetti». Allo stato attuale sono 400 i bambini che, nonostante siano iscritti nel sistema educativo israeliano, devono lasciare il paese. «Io lotto per A. J. perché lo Stato d'Israele deve prendere una decisione semplice e fondamentale: vuole continuare a importare tanti lavoratori stranieri? Se la risposta è no, Eli Yishai [Ministro degli Interni israeliano] deve annunciare la politica di "Cieli Chiusi", incoraggiare l'impiego di israeliani laddove ora sono impiegati gli immigrati» scrive sulla pagina Internet del quotidiano Ma'ariv Rotem Ilan, responsabile di Israeli Children. 

Ma «se la risposta è no», continua Ilan, «lo Stato d'Israele deve capire che l'ingente afflusso di lavoratori stranieri, in particolare di badanti, ha un prezzo umano da pagare. E il prezzo è quello di stabilire criteri chiari che spieghino dopo quanti anni e quali persone possono ottenere lo status legale nel paese. Se noi non siamo pronti a pagare il prezzo dobbiamo smettere subito di portare qui lavoratori. Perché noi stiamo portando qui esseri umani, non oggetti». 

Esseri umani, non oggetti. Ma dopotutto chi gode qui pienamente i diritti di un "essere umano"? Certo gli israeliani, ma dopotutto chi e che significa essere "israeliani"? Israeliani non sono certo i bambini "arabi", per sionisti pericolo demografico per l'"ebraicità dello Stato". Non sono certo i bambini nati e cresciuti in Israele, di madrelingua ebraica ma che hanno la "colpa" di essere figli di genitori immigrati come la storia della piccola A. J. insegna. Non sono i bambini "neri" degli infiltrati anche loro cacciati da Tel Aviv qualche settimana fa. E quanto un bambino "mizarachi" ("orientale", proveniente da un paese arabo) o "falashi" (etiope) è "israeliano" come uno bianco Ashkenazi?

In un paese in cui i bambini palestinesi vengono imprigionati, uccisi e picchiati da Tzahal (l'ultimo vergognoso atto a Hebron qualche giorno fa), in un paese di militari armati per strada, in un paese in cui la propaganda sionista insegna ai giovanissimi che l'"altro", l'"arabo" è il nemico (si legga il recente libro di Nurit Elhanan: Palestine in Israeli School Books), dove si organizzano tour a Gush Etzion per sparare a sagome dei "nemici", ecco in questo paese qual è il valore dell'infanzia? Chi ne ha diritto? Che significa essere bambino in Israele? É questo che l'innocente A. J. ci chiede. Nena News

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