Middle East On Line 10.01.2012
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Giovedì 19 Gennaio 2012

L’Inesorabile Avanzata Verso una Israele Più Grande
di Patrick Seale
traduzione: Mariano Mingarelli

In costante assenza di un risoluto intervento internazionale, lo scenario più probabile è che Israele cerchi di consolidare l’occupazione su più del 40% della West Bank, compresa la Valle del Giordano, espandendo le colonie o con altre forme di annessione definitiva.

L’anno appena trascorso ha inferto un duro colpo – forse addirittura quello definitivo – al progetto, a lungo sostenuto dalla comunità internazionale, di risolvere il conflitto israelo-palestinese sulla base di due Stati. Quando gli Stati Uniti si sono dimostrati incapaci di porre fine all’inarrestabile furto di terre, è parso che niente e nessuno fosse in grado di porre un freno alla ferrea ambizione israeliana di espandere i confini per costituire una “Israele più Grande”.

Che cosa porterà l’immediato futuro? In costante assenza di un risoluto intervento internazionale, lo scenario più probabile è che Israele cerchi di consolidare l’occupazione di più del 40% della West Bank, compresa la Valle del Giordano, espandendo le colonie o con altre forme di annessione definitiva. I principali centri a popolazione araba, come Nablus, Ramallah e Gerico verrebbero recintati, anche se Israele potrebbe permettere loro dei corridoi per la Giordania. Naturalmente, questa prima parte del progetto sarebbe presentata da Israele come una dolorosa concessione.

Se Israele riuscisse a farla franca, la fase successiva potrebbe essere molto più radicale, potendo comportare l’espulsione di un gran numero di palestinesi, probabilmente con il pretesto di una guerra, come è avvenuto nel 1948 e 1967, tanto da completare la creazione della “Israele più Grande” tra il mare e il fiume.

Dopo l’esperienza degli ultimi due anni, nessuno dovrebbe avere il minimo dubbio sul fatto che la coalizione di destra del primo ministro Benjamin Netanyahu sia assolutamente determinata a impedire la creazione nella West Bank di uno Stato palestinese. Per un po’, forse, dei bantustan, ma uno Stato palestinese, mai! È noto che Netanyahu è fortemente influenzato da suo padre, lo storico Benzion Netanyahu, ormai 101enne, che nel passato è stato segretario di Ze’ev Jabotinsky – “il padre del sionismo revisionista” – e che è rimasto per tutta la vita un veemente sostenitore di una Israele più Grande. Presentò una petizione contro il Piano di Spartizione delle Nazioni Unite per la Palestina del 29 novembre 1947 perché, come altri, voleva per gli ebrei l’intera Palestina. Questo resta il suo sogno.

Che Israele si appropri di tutta la West Bank o di solo il 40%, il Regno di Giordania, che è probabile sia inondato da palestinesi sfollati, sarà la prima vittima. Ariel Sharon, un fervente sostenitore delle colonie ebraiche nei Territori Palestinesi Occupati, era solito dire che “la Giordania è la Palestina”. Tremendamente preoccupata per il suo futuro – e a buona ragione - la Giordania di recente ha cercato di rilanciare il processo moribondo, ospitando un incontro ad Amman di rappresentanti israeliani e palestinesi, alla presenza di un inutile Quartetto. Com’era prevedibile, il risultato sembra esser stato del tutto pieno di concretezza.

Lo scorso anno, il più grande shock per il cosiddetto processo di pace è stato costituito dal collasso del presidente Barak Obama di fronte all’ostinazione di Netanyahu. Dato che Obama aveva fatto sorgere le speranze di una nuova politica americana più equilibrata nei confronti del conflitto israelo-palestinese, la sua sconfitta è stata tanto più dolorosa. Quando Israele si è rifiutato di spostarsi anche di poco, Obama ha semplicemente lasciato perdere, mostrando di non possedere alcuna tempra, neppure di quella “fermezza a fin di bene” nei confronti di Israele – che tanti osservatori del conflitto, tra cui gli ebrei americani liberal – avevano sperato di vedere. Il fallimento di Obama mette in evidenza l'enorme incidenza del controllo monopolistico dell’America sul processo di pace nel corso degli ultimi decenni, che ha semplicemente fatto da copertura per l'espandersi di Israele.

L'aiuto massiccio – finanziario, militare e politico – elargito dagli Stati Uniti a Israele pare non aver esercitato alcun influsso sulle politiche israeliane. L'influenza è stata tutta nel senso inverso. E’ Israele che è riuscita a plasmare la politica di Washington in Medio Oriente, non il contrario. Raramente si era visto nella storia un esempio talmente flagrante di coda che muove il cane.

Gli arabi non sono affatto in condizione di controllare l’espandersi di Israele. La Primavera Araba li ha indeboliti. I loro leader, che siano rivoluzionari o meno, lottano per far fronte alle ricadute delle sommosse popolari. Resta poco tempo o energia per la causa palestinese. Gli stessi palestinesi, sotto occupazione o sotto assedio, rimangono ostinatamente divisi. Sorprendentemente, Fatah e Hamas polemizzano ancora, e sembrano incapaci di fare fronte comune, benché il loro paese stia scomparendo sotto i loro occhi.

Non c’è da stupirsi che gli israeliani di linea dura ritengano che l'Israele più Grande Israele sia a portata di mano. Una spinta più forte, sembrano pensare, e sarà loro. Questo pare essere vero per gli ultra-ortodossi, più che mai interessati a mettere la loro impronta fondamentalista sulla società israeliana, e i cui membri si infiltrano in profondità nei ranghi di comando dell’IDF. E’ vero anche per i nazionalisti religiosi e chi li elegge, i coloni violenti e fanatici; è pure vero, naturalmente, per i politici dalla linea dura, come lo stesso Netanyahu, che sembrano credere che indebolendo e sovvertendo i vicini – e sfruttando la potenza americana ai loro fini egemonici, al momento soprattutto contro l’Iran – si permetta a Israele di continuare a dominare militarmente l’intera regione nel prossimo futuro. Pace, concessioni territoriali e convivenza pacifica sono semplicemente estranei alla loro mentalità.

Leader come Netanyahu hanno la responsabilità di aver sovrainteso a mutamenti molto significativi della società israeliana, tra cui un allarmante aumento dell’intolleranza, del razzismo e della brutalità. Anche la cosiddetta borghesia liberale israeliana, che si è accampata nelle tende a migliaia lo scorso anno per sottolineare le rivendicazioni economiche, sembra mostrare uno scarso interesse per l’odio che si accumula contro Israele a causa della continua oppressione e dispossessamento dei palestinesi.

Il conflitto arabo-israeliano – il cui nucleo è il problema palestinese – è stato la causa di guerre, massacri e innumerevoli altri fatti di violenza nel corso del 20° secolo. E ora minaccia di contaminare pure il secolo attuale. Lo spietato attacco israeliano a Gaza nel 2008–9 può divenire il precursore di eventi peggiori ancora a venire.

Lo scorso ottobre, in un discorso alla London School of Economics, il dott. Tony Klug, uno dei maggiori esperti britannici sul Medio Oriente, ha descritto la crescita della popolazione di coloni, da meno di 5.000 dei primi anni ’70 ai più di 500.000 di oggi, come “ uno dei suicidi-di-Stato più lunghi della storia.” “Israele, “ ha dichiarato,”deve affrontare ora una scelta difficile: congelare ogni ulteriore espansione delle colonie, come preludio a negoziati rapidi e mirati sulla base dei confini antecedenti al giugno ’67 con equi scambi di terreni, oppure prepararsi a un conflitto permanente e a una condizione indefinita di paria”.

E’ possibile un cambiamento di regime in Israele? Non si può escludere un miracolo. Ma non c’è ancora alcun segno del grande risveglio popolare che un tale risultato richiederebbe. Non è forse venuto il momento che la comunità internazionale metta insieme un pacchetto di sanzioni e incentivi che possano indurre Israele a cambiare rotta? Lo scopo, certo, deve essere non solo quello di salvare Israele dall’auto–distruzione, ma pure di risparmiare il Medio Oriente dall’esperienza traumatica di quella che potrebbe essere la guerra più terribile della storia moderna.

testo originale inglese:
http://www.middle-east-online.com/english/?id=49934

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