https://www.mediapart.fr/

http://contropiano.org/

4 Maggio 2019

 

Il potere incendiario di Macron

di Edwy Plenel

Traduzione di Andrea Mencarelli (Potere al Popolo)

 

Questa Presidenza sembra voler suscitare nei propri confronti una collera che non riceverebbe in nessun altro modo. La menzogna sull’“attacco” non rintracciabile all’ospedale di Pitié-Salpêtrière, da parte di un’orda di “dimostranti violenti”, non può essere imputata unicamente all’incompetenza del Ministro degli Interni Christophe Castaner. 

 

Ripresa in loop dai governanti – dallo stesso Primo Ministro, dal Ministro della Salute e dal Direttore dell’AP-HP – è solo l’ennesima provocazione di un potere che non ha cessato, dall’emergere dei Gilets Jaunes, di aggredire violentemente coloro che lo contestano, attraverso le parole della propaganda e gli atti di repressione.

La risposta demagogica di Emmanuel Macron all’incendio accidentale di Notre-Dame de Paris rimarrà come metafora di ciò che è diventata la sua presidenza, ribaltando la sua promessa originaria di una “profonda rivoluzione democratica”: un potere incendiario. 

Liquidando con disprezzo le aspettative popolari, ridotte ai tumulti di una politica senza spirito né spessore, ridotta insomma all’effimero e al contingente quando sarebbe stato l’unico contabile dell’essenziale e del duraturo, ha subito ripreso questo fatto di cronaca come se fosse una terribile prova nazionale e morale, come se fosse un “attacco terroristico”.

Come i precedenti dell’11 settembre negli Stati Uniti, con la perdizione del Patriot Act, o del Bataclan francese con la sregolatezza della decadenza della nazionalità, si sentiva quindi legittimato a continuare ad andare avanti dritto, negando l’esigenza democratica sostenuta per sei mesi dal movimento sociale dei Gilets Jaunes. 

Chiuso nella sua torre d’avorio presidenziale, persiste nell’imporre la propria agenda, rifiutando qualsiasi dialogo reale, delegittimando la protesta popolare, chiedendo la repressione della polizia, escludendo qualsiasi discorso di pacificazione. Incitando l’odio di classe verso un popolo di invisibili, promuove la paura invece di assicurare l’armonia.

Secondo un vecchio significato, dice il Larousse, incendiario significa anche “ciò che è adatto o mira a scaldare le menti, a incitare alla rivolta o alla sedizione”. Da quando i Gilets Jaunes sono entrati a far parte del dibattito pubblico, il governo ha costantemente cercato di screditarli e delegittimarli. Dalla “folla odiosa” a “Jojo con un giubbotto giallo”, sono stati indicati come plebe ignorante e pericolosa, oscura e minacciosa, ridotti alla violenza, agli incidenti e alle deviazioni, nella testarda ignoranza delle dinamiche politiche originali e senza precedenti di questo movimento auto-organizzato.

Menzogne e repressione sono due facce della stessa medaglia di umiliazione e negazione di coloro che, prendendo sul serio il proprio status di cittadini, sono usciti dal loro isolamento e solitudine, facendosi strada l’uno verso l’altro per unirsi sulle rotatorie, su cause comuni di uguaglianza. I discorsi ufficiali dell’establishment negano questa realtà, fino al punto di inventarsi sfacciatamente una leggenda nera, accompagnano il concreto desiderio di cancellarne l’espressione pubblica mettendone in discussione un diritto fondamentale, quello di dimostrare, contestare e protestare.

“Abbiamo una stampa che non cerca più la verità”, aveva osato dichiarare il capo dello Stato alla fine di luglio 2018, quando si è proposto come scudo di Alexandre Benalla. Il contrasto tra la protezione di quest’ultimo, per il quale il Presidente ha ripetutamente invocato l’indulgenza, e la repressione costantemente richiesta contro i Gilets Jaunes, fino a banalizzare una violenza poliziesca senza precedenti, è sufficiente a dire che si trattava di una antifrasi: quella di un potere che teme la verità fino a negarla.

La menzogna sembra essere diventata, per questo, una seconda natura, ampiamente documentata su Mediapart. Da allora, nuovi esempi sono stati aggiunti all’inventario: dalla vendita di armi per la guerra sporca dello Yemen a varie “false notizie” sulle dimostrazioni, l’ultima del Primo maggio, fino al rifiuto di ammettere il passato  di estrema destra della capolista de La République En Marche (il “partito” di Macron, ndt) alle elezioni europee. Inusuale, in un partito che si presume di governo, l’uso non etico dei social network da parte dello staff di risposta del movimento presidenziale aggrava questo clima di negazione della verità a favore di voci, calunnie e insulti.

Al regime del colpo di stato permanente, il macronismo aggiunge l’uso permanente della contraffazione. Non c’è più ragione comune, non più verità condivisa, non più realtà verificata, ma solo l’affermazione che consoliderà il potere, anche senza verità. 

Non si tratta più solo di mentire per nascondersi, ma di mentire per cancellare. “La differenza tra la menzogna tradizionale e la menzogna moderna è più spesso la differenza tra nascondersi e distruggere”, ha osservato la filosofa Hannah Arendt in “Verità e Politica” (1967).

Nel successivo “La menzogna in politica” (1969), Hannah Arendt sottolinea il ruolo dannoso per la democrazia di questi “specialisti in risoluzione di problemi” che penetrano nel cuore dello Stato “convinti che la politica è solo una varietà di relazioni pubbliche”. In un avvertimento profetico, Arendt ha notato quanto questi cinici consiglieri, comunicatori, esperti di lavoro e strateghi – il cui entourage macroniano dello strauss-kahnismo offre molti esemplari – “hanno qualcosa in comune con semplici e puri bugiardi: cercano di sbarazzarsi dei fatti e sono convinti che questo è possibile perché sono realtà contingenti”.

Così, sotto questo governo, la Francia ufficiale continua a negare ciò che tutti i difensori dei diritti umani osservano, siano essi francesi (dal difensore dei diritti umani al presidente della CNCDH) o stranieri (dal Consiglio d’Europa ai relatori delle Nazioni Unite): la pericolosa regressione nei confronti delle libertà nel paese che si vantava di aver proclamato i diritti umani e dei cittadini. Di conseguenza, la violenza simbolica delle menzogne e la violenza effettiva della repressione extralegale, senza troppa moderazione o precauzione, stanno surriscaldando il paese invece di provare a placarlo.

Coloro che marciano con i Gilets Jaunes saranno “complici del peggio”, disse una volta Emmanuel Macron. La formula può essere facilmente rivolta contro di lui: un potere che, per resistere, distrugge tutta l’etica democratica, mente ripetutamente, viola le libertà, squalifica il proprio popolo, calunnia le sue opposizioni, rivendica la propria indifferenza all’ingiustizia, spinge la polizia a incriminare, non dice nulla sui dimostranti gravemente feriti, reclama condanne rapide, non ha mai una parola di compassione o empatia…

Questo presidente si comporta come se la sua vittoria nel 2017 gli avesse dato un assegno in bianco per cinque anni. Ma è così che si ritrova coinvolto in una pericolosa corsa a capofitto per la democrazia stessa, la sua cultura, le sue istituzioni, i suoi equilibri. Una corsa verso l’ignoto che non esclude l’abisso. Perché, nella sua cecità narcisistica, si sbaglia doppiamente: sull’essenza della democrazia e sulla natura della sua elezione. 

La democrazia non è la “tirannia morbida” che Tocqueville aveva già intravisto, dove il popolo è invitato solo a lasciare la propria condizione servile per scegliere il proprio padrone, prima di essere licenziato di nuovo. É un ecosistema fragile che richiede poteri separati, contropoteri attivi e, soprattutto, l’espressione permanente del popolo stesso, garantita dal rispetto dei diritti fondamentali, senza l’esercizio dei quali il diritto di voto non è altro che una finzione: il diritto di riunione, di esprimersi, di dimostrare, di essere informati.

Quanto alle elezioni del 2017, per mancanza di alternativa all’estrema destra, hanno investito proprio il presidente nell’improbabile rappresentazione di ciò di cui non vuole tenere conto: la sorda crisi democratica francese, questa “crisi della rappresentanza politica che è diventata endemica e quasi strutturale”, secondo la recente valutazione di Anne Muxel (Histoire d’une révolution électorale 2015-2018, Classiques Garnier, con Bruno Cautrès). 

Lungi dal fermare questa crisi, il nuovo governo l’ha rafforzata – si osserva – non tenendo conto dell’evento essenziale nascosto dalla sua vittoria: l’aumento senza precedenti dell’astensione e l’importanza di utilizzare la scheda bianca.

Elettori politici in “ritiro dal gioco politico”, un “malessere democratico”, una “richiesta di democratizzazione del funzionamento stesso della rappresentanza politica”: tante formule per riassumere il mandato risultante dalle “turbolenze” del 2017, a mille miglia dall’egocentrico potere personale incarnato da Emmanuel Macron nella sua rivendicazione di una presidenza jupiteriana. 

I Gilets Jaunes, che il governo e i suoi circoli di intellettuali hanno costantemente affidato all’estrema destra, sono prima di tutto l’espressione politica e sociale di questa realtà astensionista: un desiderio di democrazia.

Se, al di là delle loro lacune o delle loro bravate, le misure sostanziali economiche e sociali ottenute con la caparbia mobilitazione dei Gilets Jaunes – la cui efficacia può essere dimostrata dall’impotenza delle organizzazioni sindacali – non bastano a calmare la loro rabbia, è proprio perché il loro movimento sta portando con sé la questione democratica lasciata sottotraccia per due anni. 

Ciò che li unisce, nella loro diversità di background e sensibilità, è questa acuta consapevolezza che la promessa di una “profonda rivoluzione democratica” non realizzata, peggio, saccheggiata e negata, degenera davanti ai nostri occhi in una profonda regressione democratica.

L’emergere dei Gilets Jaunes corrisponde all’uscita, nell’autunno 2018, del film di Pierre Schoeller, “Un popolo e il suo re”, che racconta la rapida disaffezione del popolo del 1789 per Luigi XVI, che portò alla totale scomparsa dell’Ancien Régime. Rifiutando di mettere in discussione l’esausta monarchia elettiva su cui siede, perché preferisce il conforto illusorio della menzogna e della repressione, Emmanuel Macron corre il rischio di diventare un re senza popolo.

 

top