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27 Giugno 2019

 

Aprire i porti, una questione di classe

di Alessandro Canella

direttore responsabile di Radio Città Fujiko, una delle più longeve esperienze radiofoniche indipendenti in Italia.

 

Sostenendo i migranti, i camalli di Genova che alcune settimane fa hanno bloccato i carichi di armi rivendicano il diritto dei lavoratori a decidere sulla produzione e rilanciano la solidarietà di classe

 

Possono i lavoratori, nello svolgimento delle loro mansioni, preoccuparsi se il loro lavoro contribuisce o meno a violare i diritti umani e decidere di esprimere, nelle parole e nei fatti, una posizione che condizioni le scelte di imprese e governi?

Se si osserva il protagonismo degli ultimi mesi dei portuali genovesi la risposta è affermativa e la premessa è quella cosa, ormai quasi mitologica, chiamata coscienza di classe.

Tutto inizia a metà del maggio scorso, ma a guardar bene cominciò esattamente 59 anni fa, il 30 giugno del 1960. Alla notizia che il primo di luglio in città si sarebbe svolto il congresso nazionale del Movimento sociale italiano, la sinistra politica e sociale seppe rispondere con un’opposizione di piazza, che si trasformò in un’autentica battaglia. Una guerriglia urbana che portò all’annullamento del congresso missino.

Tra i protagonisti della vicenda c’era un socialista, un certo Sandro Pertini, che davanti a trentamila persone tenne un discorso incendiario, di quelli che oggi solleverebbero condanne bipartisan. La provocazione, del resto, sembrava troppo grande per essere sopportata. Appena sedici anni prima, nel giugno del 1944, 1488 operai genovesi erano stati deportati a Mauthausen come rappresaglia agli scioperi che si erano tenuti a inizio mese. A compiere e ordinare i rastrellamenti nelle quattro fabbriche più combattive (la Siac di Campi, il Cantiere, la San Giorgio e la Piaggio di Sestri) furono gli occupanti tedeschi, fiancheggiati da polizia e brigate nere. Tra questi, spiccava il nome del prefetto Carlo Basile, che proprio il primo luglio del 1960 avrebbe dovuto presiedere il congresso missino.

Alla rabbia antifascista, in realtà, si sommava quella propriamente operaia. Mentre il paese stava vivendo il cosiddetto boom economico, alcune importanti industrie presenti nel territorio genovese stavano chiudendo i battenti. La battaglia del 30 giugno, dunque, cementò la coscienza di classe di migliaia di cittadini della Lanterna, portuali in primis.

È questo l’humus in cui vive la consapevolezza politica dei camallidi Genova. In un’epoca in cui il lavoro subisce fenomeni di atomizzazione, esemplificata dai tentativi di demolizione dei contratti nazionali e dal ricatto della precarietà che induce ad abbassare la testa e a preoccuparsi solamente di portare a casa un salario, i portuali hanno rilanciato due temi ormai caduti in disuso: la rivendicazione dell’etica e della decisionalità da parte dei lavoratori sulla produzione stessa. Un’accelerazione in avanti che ha dato i suoi frutti.

La prima apparizione della classe lavoratrice è avvenuta il 20 maggio scorso, quando la nave cargo battente bandiera dell’Arabia Saudita Bahri Yambu, carica di armi, è attraccata a un terminal del porto di Genova. Il Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali e la Filt Cgil erano là ad attenderla. I primi hanno raggiunto il terminal e bloccato l’ingresso degli ormeggiatori del porto, brandendo uno striscione con scritto: «Stop ai traffici di armi, guerra alla guerra».

È iniziato uno sciopero che aveva un proposito molto chiaro: nessuno avrebbe scaricato o caricato alcunché sulla nave, poiché gli armamenti e le strumentazioni accessorie sarebbero stati impegnati per la guerra in Yemen, di cui i portuali non volevano essere complici.

Dopo una lunga giornata di lotta, la battaglia è stata vinta: la Bahri Yambu ha dovuto lasciare il porto senza aver completato le operazioni che si era preposta.

Appena tre giorni dopo, ritroviamo i portuali nella giornata di mobilitazione contro il comizio di CasaPound. Scene che abbiamo visto in diverse città, dove alle manifestazioni autorizzate di forze neofasciste si sono contrapposti presìdi e cortei antifascisti.

A Genova l’opposizione è stata molto determinata, al punto che i pochi esponenti di CasaPound sono stati fatti allontanare in sicurezza e nelle cariche delle forze dell’ordine contro gli antifascisti è rimasto coinvolto anche un giornalista di Repubblica, Stefano Origone, pestato dagli agenti senza alcun motivo.

Appena un mese dopo l’epicentro si sposta nuovamente al porto. Dopo aver chiuso i porti alle armi, i lavoratori hanno manifestato la disponibilità di aprirli alle persone a bordo della Sea Watch 3, allora bloccata da quasi due settimane al largo di Lampedusa. La loro disponibilità non è solo formale, come quella di alcuni sindaci in giro per l’Italia. I portuali fanno capire che sono disposti a mettere a disposizione i propri corpi e la propria determinazione per garantire che i naufraghi vengano accolti.

I portuali ribaltano le politiche salviniane: mentre il ministro dell’interno chiude i porti ai migranti e apre le porte alla diffusione delle armi attraverso la legge sulla legittima difesa, la classe lavoratrice chiude i porti alle armi e apre all’umanità e all’accoglienza.

«Chi conosce il mare sa che non è solo un posto dove fare il bagno a luglio e agosto – osserva Ricky, esponente del Collettivo autonomo lavoratori portuali – Il mare è una cosa terribile, per cui chi è in mezzo al mare, chi scappa, chi è in difficoltà va aiutato, va salvato e fatto sbarcare in un porto accogliente. Su questo non si discute. È così e basta».

Il ragionamento del lavoratore rientra in una logica complessiva, che lui stesso esplicita: «Quello dei traffici di armi è un esempio, ma noi dai porti vediamo anche le grandi crociere, il grande lusso, lo spreco, lo sfarzo e non possiamo dimenticarci delle persone che scappano dalle cause di tutto ciò». In una parola: dalle disuguaglianze.

Eppure, i camalli di Genova si muovono su un terreno fragile, che li espone a contestazioni di matrice padronale. Il crollo del ponte Morandi nell’agosto dell’anno scorso ha stimolato le profezie su un possibile collasso di uno dei comparti più importanti della città, che movimenta milioni di tonnellate di merce, impiega una forza lavoro di duemila unità ed è il secondo porto italiano per traffico dopo quello di Trieste. Il rischio della retorica sui posti di lavoro che si perderebbero è dietro l’angolo. Ne sanno qualcosa nel ravennate, dove la battaglia contro le trivelle nel Mediterraneo ha usato proprio queste argomentazioni.

I portuali genovesi, documenti alla mano, hanno affrontato anche questa obiezione. «I traffici nel porto di Genova non dipendono dai generatori bellici della Teknel Srl di Roma con 14 dipendenti che dal 2016 al 2018 ha raddoppiato i suoi guadagni con un calo delle spese notevoli e mantenendo i suoi 14 dipendenti – hanno scritto in un post su Facebook – Non vogliamo fare i conti in tasca a nessuno ma se dovesse essere tocchiamo con mano una globalizzazione selvaggia che rimarca inconfutabilmente sempre di più la nostra precarietà e il nostro sfruttamento alla stregua della ricchezza dei prenditori del nostro porto di Genova!».

Il protagonismo dei portuali, questa determinazione e capacità di riconoscersi in una classe e di intervenire collegialmente anche su questioni non strettamente legate alla quotidianità della produzione, sta risvegliando l’intera città che qualcuno avrebbe immaginato piegata dal crollo del ponte Morandi e dalla rassegnazione.

Il prossimo 30 giugno, in occasione dell’anniversario dei fatti del 1960, come ogni anno la città celebrerà la ricorrenza. I movimenti sociali e i portuali daranno vita a un corteo, ma ci saranno iniziative anche dell’Anpi e della Camera del lavoro, che a Genova sembra avere ancora il coraggio di un tempo.

 

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