Shimon Peres ai deputati italiani: «Vi racconto la mia visione di Gaza»
Partiti israeliani divisi su una soluzione
Truppe Onu a Gaza?
Senza un intervento dell’Ue, difficile una risoluzione duratura della crisi

Shimon Peres ai deputati italiani: «Vi racconto la mia visione di Gaza»
di Enzo Amendola

europaquotidiano - 3 agosto 2014 - TEL AVIV –

Dopo quattro settimane di guerra e tentativi di tregua saltati, una delegazione palestinese in Egitto lavora su una posizione unitaria tra le varie anime. Il governo Netanyahu intanto avvia ripiegamenti delle truppe nella Striscia di Gaza, senza trattare col nemico, mostrando ottimismo militare ad un’opinione pubblica interna sempre più dubbiosa per il futuro. Ma il dramma dei civili palestinesi imprigionati nella terza guerra tra Israele e Hamas aumenta. Oltre al tragico bilancio di vittime e feriti la situazione umanitaria peggiora: gli sfollati sono 215mila, quattro volte quelli dell’operazione “Piombo fuso” di fine 2008, di cui 182mila sono ospitati nelle 82 scuole dell’UNRWA.

In una Jaffa assolata e desolata, abbandonata da un turismo tipico per questa stagione dell’anno, entriamo nel Peres center for peace. Con una delegazione della commissione esteri del parlamento, guidata dal presidente Cicchitto, ci apprestiamo ad incontrare il premio Nobel Shimon Peres. «Siete la prima visita ufficiale da quando ha cessato il mandato di presidente», ci avvertono dal suo giovane staff.

Manca il direttore del centro Ido Sharir richiamato tra i riservisti dell’esercito israeliano. Veniamo ricevuti nella sede della fondazione privata, un gioiello dell’architettura progettato da Massimiliano Fuksas. Ma dell’Italia qui sono orgogliosi anche per il programma Saving Children finanziato interamente dalla cooperazione con svariati enti locali italiani a partire dalle regioni Umbria,Toscana e Emilia-Romagna. Rachel Haderi è la responsabile di questa operazione umanitaria che ha curato più di diecimila bambini palestinesi negli ospedali israeliani: «Siamo pronti a rispondere alle tante richieste che arriveranno dopo l’intervento militare. Siamo una ong, non facciamo politica, vogliamo costruire legami attraverso la cura degli indifesi, senza nessun limite o condizione».

«Questo centro è stato fondato nel 1996, per dare forza alle relazioni tra i popoli in conflitto al di là del ruolo dei governi», esordisce Peres accogliendoci nella sua stanza. «Tanti parlano e parlano, noi con questo centro preferiamo agire. Grazie alla rete italiana di sostegno economico svolgiamo un compito decisivo per avvicinare famiglie che soffrono».

La figura solenne, le foto e ricordi custoditi nella stanza rimandano alla sua carriera politica che ha attraversato tutte le tappe della storia del conflitto mediorientale. Tanti dei suoi discorsi e atti hanno caratterizzato la sinistra israeliana o segnato gesti simbolici come, da ultimo, l’incontro a Roma con Abu Mazen, ospiti di Papa Francesco. Mentre lo ascolto, il ricordo va ad un congresso dell’Internazionale socialista a Parigi, dove parlò di pace e negoziati dallo stesso palco con Arafat e Ehud Barak, ultimo premier laburista israeliano. Peres raccontò dinanzi ai leader presenti in sala, da Blair a Jospin a Schroeder, di essere andato anni addietro proprio a Parigi per comprare segretamente armi e combattere gli arabi: «Adesso – concluse – negoziamo la pace». La storia ci racconta che andò diversamente: la rottura nei negoziati a Camp David, la seconda Intifada e la sconfitta politica di Fatah, e poi le strategie neo-con post 11 settembre alla conquista del “grande Medio Oriente” fatto di assi del male e scontri armati.

Ma quell’immaginario di strette di mano tra leader israeliani e palestinesi ha segnato le coscienze di molti in Europa con la convinzione che la via per una pace stabile e duratura fosse a portata di mano. Spesso non si vuol riconoscere quanto la realtà del conflitto israelo-palestinese, dentro un nuovo tempo del Medio Oriente, sia completamente inedito per caratteri e sviluppi. E mentre per molti rimane nella mente la foto di Arafat e Rabin con Peres, o riecheggia la retorica degli accordi di Oslo, basta osservare la disgregazione della leadership palestinese e le fratture evidenti nel mondo israeliano, per accorgersi che siamo in un contesto completamente nuovo. Il Quartetto (Usa, Ue, Russia, Onu) è scomparso dai radar, il soft power europeo e la deterrenza americana sono stati apertamente sfidati dalle nuove potenze regionali che, lungo fratture settarie e pseudo religiose, si sfidano a suon di finanziamenti, guerre per procura e dirette satellitari. Un disordine nella regione in cui tutti gli esiti sono oggi in discussione.

Anche il conflitto in Terra Santa è risucchiato in questa spirale, con il campo moderato palestinese stritolato tra la folle guerra ad oltranza proclamata da Hamas e Jihad islamica e la destra israeliana al governo che ha seppellito da tempo tutti i tentativi di negoziato. «Dopo averlo insultato pubblicamente adesso tutti vogliono trattare con Abu Mazen», ci racconta Anat Ben-Nun di Peace Now, in un incontro con i network pacifisti a Tel Aviv. La destra del Likud, da tempo insieme a “Focolare ebraico” di Naftali Bennet, ha diviso e radicalizzato l’opinione pubblica sulle ragioni del conflitto con espressioni feroci tali da far apparire il premier Netanyahu un moderato della compagine al governo.

Ma in questo nuovo quadro non si possono ripercorrere comportamenti del passato o rimanere immobili in attesa di tempi migliori. Lo ammette anche Peres nel salutarci: «Quando ci sono due possibilità in conflitto bisogna avere visione e trovare una nuova via. I politici non possono comportarsi da gestori del quotidiano». Mentre l’ex presidente ragiona, parte delle truppe si ritirano dalla striscia di Gaza portando alla luce la divisione nel gabinetto israeliano tra chi vuole “distruggere Hamas” e chi vuole “calma in cambio di calma”.

Peres confessa di vivere ancora di immaginazioni perché «tutte le persone hanno l’età dei propri sogni». Chiude l’incontro descrivendo una Gaza del futuro con interventi economici possenti, infrastrutture e scambi economici con l’intera regione e con l’Europa. Un’isola che non c’è. Il vecchio leader la chiama «visione», a dirla tutta sembra utopia. Ma non ci sono alternative, visto il nuovo Medio Oriente in fiamme e l’atrocità della guerra a Gaza, ed è urgente avere coraggio e preparare un nuovo fotogramma di pace.

1 – continua


Partiti israeliani divisi su una soluzione
di Enzo Amendola

europaquotidiano - 4 agosto 2014 - GERUSALEMME –

La triste particolarità di chi viaggia in Terrasanta – in questi giorni di guerra nella Striscia di Gaza – consiste in una dotazione aggiuntiva di pazienza per comprendere le ragioni politiche di chi non la pensa come te.

Sia chiaro, non è una questione di etichetta, specialmente quando a pochi chilometri centinaia di morti innocenti e sofferenze gelano il sangue nelle vene. La ricerca di una soluzione politica che faccia cessare le armi deve innanzitutto convincere la parte forte di questa “guerra asimmetrica”, trovando terreni d’incontro o di scontro con i decisori politici israeliani.

In queste ore tutto è complicato per la diffidenza locale verso l’esterno, il sospetto verso chi non comprende le finalità dell’invasione di Tsahal e una rabbia per il lancio dei razzi di Hamas e Jihad islamica che spesso, accusano, fuori da Israele viene sottaciuto. Non ho mai giustificato il lancio di ordigni dalla Striscia, ma considerare “danni collaterali” di un’azione di self-defense innocenti, ostaggi di una guerra che non hanno voluto, è intollerabile.

Visitando la Knesset e i ministeri israeliani a Gerusalemme, con la delegazione della commissione esteri del parlamento, le sorprese e la complessità nei ragionamenti aumentano.

«Dopo la guerra, forse la pace?», si chiede Barak Ravid dalle colonne di Haaretz. Una domanda ottimista in quanto, ad oggi, non c’è nessuno sviluppo nelle due direzioni. Le ipotesi si moltiplicano e i punti di vista riaccendono un dibattito tra i partiti di maggioranza e opposizione sopito durante l’operazione militare. Su questa traccia ho scambiato opinioni con vari esponenti politici.

Il presidente del parlamento israeliano Yuli Edelstein è un esponente del Likud con una biografia sui generis. Nato in Russia da genitori ortodossi si collegò all’ebraismo tramite antiche radici familiari studiando l’ebraico clandestinamente. Non a caso è uno dei più famosi refusnik dell’ex Unione Sovietica, arrestato e condannato a tre anni di gulag nel 1984 da dove, dopo la liberazione, scappò in Israele. Oggi Edelstein, che vive in una colonia in territorio palestinese, prova a fare i conti con una situazione politica incandescente: «Il nostro unico nemico si chiama Hamas ma vogliamo aprire agli arabi moderati saldando una alleanza con Egitto ed altri contro il terrore. Un’alleanza che se funziona isolerà Hamas e ridarà forza ad Abu Mazen».

Un refrain che per tutto il giorno, come in un passaparola, riascolteremo da altri membri influenti della Knesset.

«Credetemi – conclude Edelstein – oggi su questa linea del dialogo, dopo l’intervento a Gaza, c’è una consistente maggioranza in parlamento trasversale ai partiti di governo e di minoranza». Come non volergli credere, peccato che la stessa maggioranza della Knesset per mesi ha ritenuto Abu Mazen incapace di mantenere gli accordi.

Lo ripetono con toni più accorti anche oggi deputati della commissione esteri e difesa guidata da Zeev Elkin, quasi come se fossero impreparati a tornare indietro da una retorica anti Autorità Palestinese usata da tempo (nel mentre si discute due attentati fanno salire l’allarme sicurezza a Gerusalemme radicalizzando le posizioni espresse).

Infatti, la destra al governo ne ha fatto una bandiera l’assenza di partner per la pace, con una competizione dai toni duri tra gli alleati e separati in casa del Likud di Netanyahu e Israel Beitenu (“Casa nostra Israele”) della destra radicale capeggiata dal ministro degli esteri Avigdor Liberman.

Ironia tragica della storia per i fratelli coltelli al governo, che devono da un lato difendere i propri convincimenti militari di sempre, ma cercano rumorosamente, dall’altro, una exit strategy politica dal conflitto. Entrambi sanno che questa via non può non passare dal negoziato con il bistrattato Abu Mazen e con i leader arabi moderati di un Medio Oriente in fiamme.

La sinistra d’opposizione divisa tra Laburisti e Meretz ha assecondato la reazione militare contro Hamas, in una posizione che agli occhi di militanti progressisti europei desta scalpore, figlia di un consenso popolare israeliano altissimo a favore degli attacchi su Gaza. Solo adesso che si intravede la prevedibile necessità di una uscita politica rialzano la testa e provano a dividere la compagine al governo forzando Netanyahu e i partiti centristi di Tzipi Livni e Yair Lapid a rompere con le tesi oltranziste di Israel Beiteneu.

Non a caso la leader della sinistra pacifista di Meretz, Zahava Gal-On, critica non la conduzione dell’operazione militare del governo ma la sua decisione di ritirarsi senza partecipare al negoziato al Cairo: «È il ritorno alla vecchia strategia di Netanyahu, gestire la disputa militare escludendo il negoziato di pace», commenta offrendo anche un’altra ipotesi: «Senza rafforzare i moderati palestinesi e mettere pressioni ad Hamas nel negoziato, senza riconoscere che la soluzione per Gaza passa per Ramallah, Hamas rischia di rafforzarsi e non di indebolirsi».

Il partito laburista ha dato una linea di credito a Netanyahu durante l’operazione militare e i distinguo iniziano solo ora, perché dopo il colpo inferto ad Hamas «siamo in un momento intermedio dove il ritorno alla calma e alla demilitarizzazione di Gaza non è assicurato – ragiona Isaac Herzog, presidente del Labour, formulando uno slogan accattivante – Adesso dopo protective edge serve un diplomatic protective edge, poiché non esiste una soluzione militare a lungo termine senza un accordo diplomatico».

Il Labour israeliano da tempo ha perso la centralità nella vita politica malgrado una storia gloriosa di leader e uomini che scelsero la pace come Rabin. Tra scissioni, divisioni e candidature a premier deboli nelle ultime due elezioni, ha una posizione difficile per risalire la china conquistando fiducia in un popolo con forti fratture sociali ma unito nella avversità ai nemici esterni.

Un po’ di ripresa la vuole organizzare la nuova generazione che si affaccia alla guida del partito, a cominciare dal quarantenne Hilik Bar, segretario generale dei laburisti e vice presidente della Knesset. «Noi siamo ad un punto delicato con la de-escalation delle operazioni a Gaza. Non nascondiamo il via libero dato al premier contro Hamas. Però siamo contro la visione della destra che legge il mondo arabo compatto contro Israele. Ho chiamato Netanyahu e gli ho detto di rispondere all’iniziativa e alle proposte per la pace che provengono dalla Lega araba. Adesso si è aperta una possibilità d’intesa necessaria che interessa molti nella regione per mettere gli estremisti fuori gioco e noi non possiamo lasciarla sfuggire – continua Bar – Adesso dobbiamo tornare al tavolo con Abu Mazen per dare un ulteriore schiaffo ad Hamas».

Come non volergli credere, ma conosciamo tutti molte delle resistenze israeliane al tavolo dei negoziati. Una su tutte, quella delle colonie in territorio palestinese da citare in cifre: nel 2013 gli insediamenti sono cresciuti del 123% rispetto al 2012 e nei nove mesi dei negoziati israelo- palestinesi su iniziativa Kerry (luglio 2013 – aprile 2014) sono stati promossi piani per la costruzione di 8.983 unità abitative e pubblicati bandi per altre 4.868 a Gerusalemme est e in Cisgiordania, per un totale di circa 14.000 unità, a cui si aggiungono innumerevoli avamposti.

Non recede Hilik Bar: «Bisogna tornare a negoziare e se non lo vuole fare Netanyahu, si togliesse da mezzo e lasciasse spazio ad una nuova generazione».

Me lo auguro per lui ma soprattutto per chi non si arrende alla via della pace.

2 – continua


Truppe Onu a Gaza?
di Enzo Amendola

europaquotidiano - 5 agosto 2014 - GERUSALEMME –

Con il ritiro delle truppe israeliane dalla Striscia di Gaza e una tregua dichiarata in Egitto, si apre uno scenario nuovo in cui la comunità internazionale è chiamata a riorganizzare l’agenda.

Chi vuole cambiare la direzione agli eventi – che tanti lutti e sofferenze hanno creato – in queste ore deve assumersi una nuova responsabilità. Non è tempo di analisi o rinvii, non si può tirare un sospiro di sollievo per la fine delle ostilità perché la terza guerra di Gaza tra Israele e Hamas nasconde ancora terribili insidie, e usare il condizionale in queste ore frenetiche è d’obbligo.

La ragione politica detta la linea: per fermare definitivamente le operazioni militari serve adesso una soluzione diplomatica che non solo solidifichi la tregua proclamata targata al Sisi, ma apra una prospettiva inedita tra Israele e Palestina che sia un segnale di controtendenza per l’intero Medio Oriente in fiamme.

Il primo quesito risiede nell’azione di Hamas e della Jihad islamica dopo il ripiegamento fuori la Striscia di Tsahal: fermerà il lancio di razzi o romperà definitivamente con un fronte arabo moderato che chiede il cessate il fuoco? Nei colloqui intrattenuti anche con esperti israeliani e palestinesi, nell’ambito di una delegazione parlamentare italiana, questo è punto dibattuto.

Ma la tregua impone anche al campo israeliano un riposizionamento tattico e strategico verso una riapertura negoziale. E su questo versante le sorprese non mancano vista la fibrillazione politica tra le forze di governo e opposizioni e nella stessa maggioranza che sostiene Netanyahu. Una guerra totale ad Hamas sarebbe lunga e foriera di un numero atroce di vite umane.

Di questi movimenti e rovesciamenti di campo il più emblematico è del ministro degli esteri Avigdor Lieberman, leader indiscusso della destra radicale.

Ne sono stato testimone questa mattina, in un incontro lungo e intenso, proprio con l’esponente politico di Casa nostra Israele. La sua foto oggi campeggia su tutti i maggiori quotidiani in quanto, ieri, in un’importante riunione della commissione esteri e difesa della Knesset, ha parlato esplicitamente di un coinvolgimento dell’Onu a Gaza. Di quella seduta rimbalzano sulla stampa le versioni più disparate, incluso un attacco frontale alla credibilità di Abu Mazen come interlocutore.

Di Lieberman è risaputa la sua attitudine a usare formule politiche brutali, dichiarazioni al piombo che hanno rafforzato la sua ascesa nella politica israeliana. Per districarci nella selva dei “si dice” abbiamo chiesto direttamente al ministro della sua proposta maturata nelle ultime ore. Cito testualmente la risposta: «Per gestire Gaza, in maniera appropriata, bisogna portare le Nazioni Unite con un mandato basato su una risoluzione del consiglio di sicurezza che costituisca una nuova autorità di governo nella Striscia». Non nascondo la mia lontananza politica da Lieberman e onestamente questa dichiarazione secca e chiara mi lascia un po’ sbigottito. Il timore di una boutade è forte nonostante l’ufficialità della riunione.

Infatti, da tempo Israele ha rifiutato il ruolo dell’Onu come soggetto d’interposizione tra i due popoli in lotta, e da sempre – tramite il veto Usa in consiglio di sicurezza – ha respinto l’invio di caschi blu in Terra Santa. L’unica eccezione è stata nel 2006 quando su pressioni europee, in prima fila il governo italiano guidato da Prodi con D’Alema agli esteri, si sancì una missione Onu per porre fine alla guerra israelo-libanese. Le truppe si posizionarono sul confine e Hezbollah cessò gli attacchi contro Israele le cui truppe rientrarono nei confini. Una vera storia di successo nei mandati di peacekeeping del Palazzo di Vetro.

Chiediamo di nuovo a Lieberman com vuole concretizzare la sua idea. Risposta secca: «Non è un auspicio, stiamo studiando la procedura legale nel quadro dell’Onu per definire un mandato di questo genere. Serve una formulazione di una risoluzione richiesta dalle parti, Israele e Anp».

La mia insolenza si è fatta strada e ho chiesto ancora se questo presupponesse anche un invio di truppe internazionali sul terreno. Il tono della voce basso ma senza fronzoli e diplomatismi del padrone di casa non si è fatto attendere: «Il “pacchetto” della soluzione possibile è unico, e dentro ci sono anche le truppe».

Gli ultimi minuti dell’incontro hanno segnato un’inedita prospettiva nelle dichiarazioni di un ministro di prima fascia israeliano che mi hanno fatto sostituire la delusione piena per gli inaccettabili attacchi ad Abu Mazen: «Quando convoca le elezioni nessuno lo sa…». O considerazioni sull’ipocrisia dei media europei, a suo giudizio unilaterali, nel descrivere la guerra di Gaza.

Lieberman è famoso per una visione del mondo suddiviso tra moderati (Occidente e Israele) contrapposti al radicalismo dei network del terrore di cui Hamas è solo una parte. Una visione che ha sempre presupposto solo l’uso della forza ma che, proprio nella vicenda degli ultimi giorni, si è rivelata una strategia non risolutiva e con un prezzo di sangue innocente sproporzionato.

L’apertura sul coinvolgimento dell’Onu, utilizzando casistiche similari come il Kosovo o Timor Est, in tutti i casi accende i riflettori sull’intero gabinetto Netanyahu (che non ha espresso ancora una posizione sul tema) per una traccia da cui sarà difficile ritornare indietro. È bene non sottovalutare la provvisorietà dell’idea del ministro: le retromarce da queste parti sono sempre state praticate.

Una proposta da sottoporre al fuoco di fila dei partiti israeliani – senza nessun mistero sugli attriti tra Netanyahu e Lieberman – e alle incertezze negoziali per avviare una procedura di diritto internazionale complessa. Ma questo spiraglio sarebbe improvvido lasciarlo cadere dalle cancellerie all’opera.

Mi torna subito alla mente, mentre ascolto il capo della diplomazia israeliana, che forse con Giorgio Tonini, mio omologo al senato, avevamo fatto bene a proporre in parlamento da subito un negoziato che prevedesse caschi blu. Indicammo una duplice finalità: demilitarizzare Gaza, garantire la fine del lancio dei razzi di Hamas e riaprire la “prigione” della Striscia per aiutare i palestinesi messi in ginocchio dalla violenza e dalla fame.

La via per una soluzione politico-diplomatica è certamente ancora lunga e piena di rischi e fallimenti. Tocca agli ambasciatori della pace non farsi sfuggire aperture rilevanti, perché riuscire a salvare Gaza avrebbe un impatto decisivo su tutta la Mezzaluna mediorientale.

3 – continua


«Senza un intervento dell’Ue, difficile una risoluzione duratura della crisi»
di Enzo Amendola

europaquotidiano - 6 agosto 2014 - RAMALLAH –

«Ho detto a Khaleed Meshal, il leader indiscusso di Hamas, una settimana fa a Doha, davanti a testimoni, che nel negoziato per la tregua dobbiamo avere una delegazione unica ed un programma unico». Così esordisce Saeb Erakat, capo negoziatore palestinese di Abu Mazen, nel suo ufficio al centro della capitale palestinese.

In queste ore la tregua nella guerra di Gaza viene discussa ad un vertice al Cairo partecipato anche da una delegazione israeliana. Se il cessate il fuoco reggerà, si potrà aprire uno spiraglio diplomatico da sostenere con forza. Ma soprattutto, da subito, si potrà intervenire per l’emergenza umanitaria nella Striscia.

Gli esponenti di Fatah che incontriamo in questi giorni tragici sanno bene che anche per la loro forza politica si apre una possibilità di uscire dall’angolo e recuperare legami internazionali indeboliti nel tempo.

Nessuno fa mistero della delusione per il negoziato tra israeliani e palestinesi portato avanti per nove mesi dal segretario di stato Usa John Kerry. «Voi europei non c’eravate nella stanza – racconta Mohammad Sthayeh del comitato centrale di Fatah – alla fine non si è arrivati da nessuna parte, anzi non si è proceduto da nessuna parte e, anche se ci vedevamo in gran segreto, non si è creato nessun clima di fiducia. Kerry in quei mesi ha incontrato Abu Mazen quarantacinque volte per procedere nei negoziati, ma intanto Netanyahu ha continuato, fuori della porta, a costruire colonie sul nostro territorio, 62 palestinesi sono stati uccisi e 314 arrestati».

In definitiva la pax americana non ha prodotto nulla e le critiche sui metodi usati piovono da tutte le parti. Non fa sconti nemmeno Yossi Beilin, già negoziatore ad Oslo nel team israeliano ed ex leader di Meretz, che usa critiche simili ai suoi vicini palestinesi e riassume: «Netanyahu non voleva andare oltre un accordo ad interim, Abu Mazen non aveva garanzie da Gaza e Kerry non aveva capito tutti questi limiti».

Poco dopo la chiusura dei round negoziali, ad aprile si è scivolati dritto nell’inferno della guerra con l’uccisione dei ragazzi innocenti israeliani e palestinesi, poi da giugno fino all’escalation dei razzi di Hamas e l’invasione di Tsahal.

L’accusa su chi ha scatenato le armi è univoca tra gli interlocutori palestinesi: «Hanno iniziato gli israeliani e hanno accumulato crimini di guerra che noi solleveremo in sede legale internazionale. Sono ventidue anni da Oslo e ancora ci occupano e non ci permettono libertà di movimento in Cisgiordania, mentre Gaza è sotto embargo da anni», non ha dubbi Nabil Shaat, per anni al fianco di Arafat. Nella loro ricostruzione degli eventi c’è l’accusa che questa tempesta di piombo sia stata usata anche per distruggere il processo di riconciliazione tra le forze politiche palestinesi, a partire da Fatah e Hamas. Un evento storico data la rottura tra i due maggiori partiti dopo la cacciata dei moderati anni fa da Gaza, e l’ascesa dei Fratelli Musulmani pro-Hamas in Egitto (prima del colpo di stato militare).

«L’accordo con Hamas è stato chiuso il 23 aprile scorso, prevedeva un governo insieme con una gestione pubblica unica, una sola forza di sicurezza e una legislazione comune», racconta Erekat, colui che si definisce «il negoziatore più debole della storia, perché rappresento una autorità senza nessuna autorità sui propri territori».

Questo sospetto si aggiunge alla rabbia popolare che pervade la West Bank dopo anni di occupazione e le immagini del sangue versato dai palestinesi di Gaza. Non a caso in queste ore è complicato ragionare di strategie a lungo periodo, in alcuni casi non si può andare oltre espressioni di solidarietà.

Ma sotto questa cappa pesante e la denuncia per l’ignavia della comunità internazionale, nella leadership trapela una distanza tra Fatah e la guida di Hamas, vista l’autonomia militare e decisionale degli uomini di Khaled Meshaal. A questa osservazione molti del partito fondato da Arafat rispondono eludendo le difficoltà.

La debolezza di Abu Mazen, raccontano, nell’unire il popolo palestinese è figlia anche delle resistenze negoziali del gabinetto Netanyahu che fa di tutto per delegittimare il presidente palestinese dinanzi ai bisogni della sua gente. «Nell’accordo con Hamas lo slogan era chiaro “ballots e non bullets”, volevamo una linea pacifica in vista di elezioni generali sei mesi dopo la nascita del governo di transizione», continua Erekat.

«Adesso abbiamo 1871 morti e 9567 feriti, case distrutte e sfollati, l’unica centrale elettrica di Gaza spazzata via – esordisce Rami Hamdallah, primo ministro palestinese – ci vorranno miliardi di dollari per ricostruire tutto». Il suo compito sarà decisivo, anche perché gli aiuti umanitari dovranno districarsi tra le procedure israeliane e il faticoso ma decisivo lavoro dell’UNRWA, l’agenzia delle Nazioni Unite che lavora per i rifugiati palestinesi, nata con un mandato a tempo ma che opera da 65 anni, e che nel bollettino di guerra di Gaza conta 11 caduti.

La cooperazione italiana non si è ritirata da Gaza. Anzi il nostro è stato il primo paese europeo a consegnare ieri – presente il viceministro Lapo Pistelli – trenta tonnellate di aiuti umanitari. E proprio l’Italia presiederà, con la Norvegia, una conferenza dei donatori alla ricostruzione di Gaza ai primi di settembre ad Oslo.

Accanto a questo sforzo, i palestinesi ci chiedono più presenza politica, più attivismo e anche, se necessario, un duro scontro sulle resistenze di entrambe i versanti. Questa è l’unica strada, soprattutto per gli stati europei per spingere Israele a negoziati serrati che garantiscano terra e libertà alla Anp, e per intimare alla classe politica palestinese il rifiuto totale di strategie, spesso autolesioniste quanto folli, a cominciare da quelle di Hamas e dalla Jihad islamica.

È tempo per l’Europa di togliersi da dosso lo “sfottò”, in uso da queste parti, di essere un “payer ma non un player“, utilizzando in queste ore tutti gli spiragli aperti, inclusa la presenza Onu che i palestinesi auspicano da sempre e sui cui alla Knesset non fanno più muro.

Esiste un campo politico palestinese che chiede cambiamento anche fuori Fatah, a partire da personalità come Mustafa Barghouti o Hanan Ashrawi, e non si rassegnano ad essere schiacciati tra gli estremismi.

«Preferirei che si partisse da noi palestinesi, ricostruendo le istituzioni e un compromesso sociale. Rifiutando la violenza per usare tutte le energie nel ricostruire il paese ed essere forti nel negoziato», dice l’ex premier Salam Fayyad, espressione di una terza via politica molto razionale ma con poco seguito popolare.

Tante ipotesi ma, in conclusione, tanto sostegno è necessario in queste ore per i fautori di una soluzione politica che non faccia ripiombare questa terra in un altro conflitto. Lo si deve alle vittime innocenti e ad un messaggio da irradiare in un Medio Oriente, mai dimenticarlo, stremato da vecchi e nuovi conflitti. Far marciare insieme un sentimento di pace e giustizia in una regione dove le aspirazioni si combattono è complicato, perché, come sospira il patriarca Fouad Twal di Gerusalemme: «Viviamo in una Terra di dubbi e di domande».

4 – fine

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