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Giovedì, 10 Luglio, 2014

«Not in my name», paradossi di un paese diviso
di Antonio Picasso
giornalista freelance

La reazione all’invettiva di vendetta è virale. Giorni fa Noam Perel, rabbino capo della Bnei Akiva, il più grande movimento giovanile sionista, ha invocato l’uccisione di migliaia di arabi per vendicare i tre ragazzi israeliani rapiti e uccisi nei pressi di Hebron. Ma alle sue minacce la maggioranza non silenziosa dei giovani israeliani ha risposto alzando la voce, sia in patria sia all’estero, così come sui social network. «Not in my name» è stata la risposta su Twitter di una ragazza ebrea italiana alla proposta di Perel.

I giovani ebrei moderati, razionali ed educati ai principi dello Stato di diritto e della società civile rifiutano gli estremismi e li isolano.

Non esistono hashtag che facciano riferimento a fatti di Hebron. Ma l’opposizione alle dichiarazioni del rabbino Noam Perel, partono da Israele e raggiungono le singole comunità ebraiche occidentali. In Gran Bretagna prende la parola il rabbino capo Gideon Sylvester. In Scandinavia e Nord America le filiali del movimento sionista chiedono le dimissioni di Perel. Una posizione di distanza è stata assunta in Italia dall’Ugei, che condanna l’assassinio di Mohammed Abu Khadir come «abominio morale».

È la prima volta che si percepisce uno scollamento tra la Israele che noi conosciamo - plurale e democratica - e un’inaspettata controparte radicale, la quale vorrebbe «uccidere tutti gli arabi». Alcune ragazze israeliane si sono fatte un selfie con questo messaggio. E hanno poi postato la foto su Twitter.

Il fenomeno è preoccupante.

Ma quella israeliana è una società matura, capace di arginare le derive radicali. Giorni fa, Haaretz ha pubblicato un editoriale di Gideon Levy - firma polemica del giornalismo israeliano - in cui, in poche parole, si attribuiva al Paese il non desiderio di raggiungere la pace. «Se davvero volesse la pace - scrive Levy - non andrebbe avanti con la politica di insediamenti nei Territori». Forse si tratta di un’accusa eccessivamente perentoria e generalista. Tuttavia, l’esecuzione sommaria del giovane Mohammed Abu Khdeir sta facendo riflettere. La macchina dello Stato (istituzioni politiche, magistratura e polizia) si è mossa. Dalla sua ha la maggioranza della popolazione. È necessario che quell’omicidio resti un caso isolato. 

Israele è comunque un Paese strano. Nei cieli del kibbutz di Sde Boker, dove è custodito il lascito politico di David Ben Gurion, echeggiano i boati dei razzi sparati dalla Striscia di Gaza su Be’er Sheva. Il silenzio del deserto del Negev è rotto dal grattugiare degli elicotteri che sorvolano questo nulla di pietra, sabbia e sole. Lungo la strada verso sud s’incrocia un convoglio militare che trasporta due Merkava. Sono queste alcune piccole anticipazioni dell’ennesima operazione militare firmata dal governo Netanyahu. Tsahal ha detto a 40mila riservisti di stare pronti a scendere sul sentiero di guerra. Al di là dei nomi - questa volta l’operazione contro Gaza si chiamerà Protective Edge - il canovaccio è sempre lo stesso: da un drammatico fatto di cronaca si degenera in una guerra. Da un fatto isolato si rischia di cadere in un coinvolgimento generale di due popoli che non riescono a trovare una soluzione di convivenza e coesistenza. Israele va verso la guerra.

Ma Israele è in guerra? La stranezza di questa nazione risiede nel suo affastellarsi di contraddizioni. Mentre l’Idf (le Forze di difesa israeliane, ndr) torna a indossare i suoi colori verde oliva c’è un’Israele apparentemente insensibile a questi fatti. Eilat è una piccola Las Vegas, chiassosa meta di turisti russi dove la lettura dei quotidiani resta un’attività di secondo piano. Lungo il Mar Morto i giovani americani dei Birth Right Program visitano pacificamente la terra promessa dei loro padri, dei loro nonni o di chissà quale altro antenato. Non sembrano accorgersi che i loro coetanei israeliani rischiano di essere buttati sulla linea di fuoco. Intanto, per la seconda volta in neanche due anni, anche a Tel Aviv sono suonate le sirene antimissile.

«Questo suono fa parte della nostra quotidianità», dicono per le strade, con un lieve sorriso volto più a tranquillizzare se stessi che gli interlocutori stranieri. È vero, nella sua vita di tutti giorni, l’israeliano deve includere problemi e successi in famiglia, sul posto di lavoro, così come una condizione di conflitto carsico, che può scoppiare da un momento all’altro. Oggi Israele è in guerra. Ma vive in pace. Su Tel Aviv cala il tramonto e con esso la tensione. Perché il terrore e la paura si sconfiggono con la più normale semplicità. Andando avanti.

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