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12 marzo 2014

Gli obiettori di coscienza in Italia, una mappa

L’11 marzo si è tornati a parlare dell’applicazione della legge 194 in Italia e dell’alto numero di ginecologi obiettori che rifiutano di praticare l’interruzione di gravidanza negli ospedali italiani.

Ieri tutti i giornali hanno raccontato la storia di una donna, affetta da una malattia genetica, che nel 2010 ha deciso di abortire al quinto mese di gravidanza.

La donna ha denunciato, in una conferenza stampa dell’associazione Luca Coscioni, di essere stata ricoverata all’ospedale Sandro Pertini di Roma, dove le è stato indotto il parto, ma di essere stata poi abbandonata senza assistenza medica, perché in quel momento c’erano solo obiettori di coscienza di guardia al reparto. L’azienda sanitaria locale ha smentito la versione della donna e ha dichiarato invece di aver prestato assistenza.

Gli obiettori di coscienza in Italia. La mappa mostra la densità di obiettori di coscienza nelle diverse regioni italiane. Nel meridione si trovano le regioni a più alta densità di ginecologi obiettori di coscienza. La regione con più alto numero di obiettori è il Molise con l’85,7 per cento di medici obiettori, seguito dalla Basilicata dove gli obiettori sono l’85,2 per cento, quindi dalla Campania con l’83,9 per cento e dalla Sicilia con l’80,6 per cento di obiettori.

Nel nord la provincia di Bolzano è quella in cui l’obiezione è più diffusa con l’81,3 per cento, seguita dal Veneto con un tasso di obiezione del 76,7 per cento. In tutto il paese la percentuale non scende mai al di sotto del 50 per cento, tranne per la Valle d’Aosta dove gli obiettori sono il 16,7 per cento.

L’intervento del consiglio d’Europa. Per il numero elevato di medici obiettori l’Italia è stata ripresa dal consiglio d’Europa l’8 marzo. “A causa dell’elevato e crescente numero di medici obiettori di coscienza, l’Italia viola i diritti delle donne che, alle condizioni prescritte dalla legge 194 del 1978, intendono interrompere la gravidanza”, ha dichiarato il Comitato europeo dei diritti sociali del Consiglio d’Europa, rispondendo a un ricorso presentato nel novembre 2012 dalla Cgil insieme ad altre associazioni tra cui l’International planned parenthood federation european network (Ippf).

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