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15 novembre 2014

Palestina, uno Stato da riconoscere. Ma non è sufficiente
di Marina Zenobio

Nel 1947, l’Onu divise la Palestina in due Stati. Uno di essi fu proclamato quasi immediatamente, Israele. L’altro sta ancora aspettando

Basta guardare la mappa a corredo di questo articolo dei paesi che hanno riconosciuto lo Stato di Palestina, per constatare che in un mare di zone rosa (paesi che l’hanno riconosciuto), c’è una vasta zona grigia di paesi che non lo hanno fatto e che, evidentemente, rappresenta quasi totalmente le potenze occidentali.

Il 30 ottobre scorso la Svezia è diventata la 135ma nazione che ha riconosciuto la Palestina come Stato, ma anche il primo paese dell’Unione Europea ad unirsi agli altri che, a partire dal 1988, iniziarono a riconoscere la Palestina dopo la proclamazione unilaterale di indipendenza di questa nazione.

La questione divide gli Stati Occidentali e le maggioranze politiche dei governi, ma la comunità internazionale fa finta di aver dimenticato quanto da essa stessa stabilito quasi 67 anni fa. Il 29 novembre del 1947 la neonata Onu adottò la Risoluzione 181 per la ripartizione della Palestina in due Stati, uno ebraico l’altro arabo. Uno di essi fu proclamato quasi subito, nel marzo del 1948, Israele. L’altro sta ancora aspettando.

La guerra e la colonizzazione israeliana si interposero nel mezzo. Quasi settant’anni tutto sembra congelato alle origini. Ma il sangue versato dai palestinesi sotto l’occupazione di Israele è sempre caldo.

L’entrata della Svezia nella lista dei paesi che hanno riconosciuto lo Stato di Palestina ha sì per certi versi riattivato il movimento di riconoscimento.

Lo scorso 14 ottobre il parlamento britannico ha votato in favore della mozione che riconosce l’esistenza della Palestina come Stato accanto a Israele, appoggiando la mozione “come contributo per assicurare una soluzione a due Stati”. I voti a favore sono stati 274 contro 12, benché quasi la metà dei membri del parlamento si siano astenuti dal voto, specialmente i conservatori e il premier Cameron. Durante la sessione di voto, un gruppo di manifestanti pro-palestinesi si è riuniti fuori del palazzo di Westminster innalzando un cartello che riportava la scritta “è tempo di dare indietro ciò che non avevate il diritto di prendere”, una citazione della Dichiarazione Balfour del 1917.

Il prossimo 28 novembre è la volta dell’Assemblea nazionale francese, chiamata a votare una mozione promossa da un gruppo di deputati della maggioranza socialista, che “invita il governo francese a fare del riconoscimento dello Stato della Palestina uno strumento per ottenere una soluzione definitiva del conflitto”. La mozione ha fatto propria la stessa analisi del primo ministro socialdemocratico svedese, Stefan Lofven sulla situazione del conflitto israelo-palestinese: è l’unico modo di arrivare a “una soluzione definitiva del conflitto” all’interno di una situazione “insostenibile e pericolosa” grazie all’istituzione di uno “Stato democratico e sovrano, che viva in pace e in sicurezza con Israele, sulla base delle frontiere del 1967 e con Gerusalemme come capitale dei due Stati”.

Questi termini sono stati fino ad ora la sfida impossibile da superare. Ed è difficile pensare che il risultato anche del voto francese, che come quello inglese non sarà vincolante per l’esecutivo, possano determinare un cambiamento nelle mire espansionistiche di Tel Aviv sui territori occupati.

I “sinceri democratici” definiscono, ipocritamente, l’approvazione di queste mozioni ad “alto valore simbolico” e che “potrebbe avere implicazioni a livello internazionale”.
Ben vengano certo, ma il valore simbolico intanto si infrange contro i cantieri residenziali illegali che Israele continua impunemente ad aprire in Cisgiordania, rubando sempre più terra ai palestinesi.

Dalle pesanti catene della diplomazia del vecchio continente e delle potenze occidentali in generale, le stesse che anno permesso il massacro israeliano contro Gaza dell’estate scorsa, non c’è da aspettarsi improvvise accelerazioni.
L’ex presidente israeliano deceduto di recente, Shimon Peres, soleva dire: “il tempo gioca contro di noi”. Per ora il tempo continua a giocare contro la pace.

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